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Facebook e l’anarchia: la rinuncia alla privacy -Dott. Aniello De Piano

 

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Innanzitutto bisogna screditare qualche punto saldo, così da operare un’analisi onesta e più utile del fenomeno: gli utenti di Facebook non sono ragazzini imberbi, rintanati nelle loro stanzette, ma sono, per lo più, adulti; questi adulti, edonisticamente consapevoli, scelgono di rinunciare alla privacy ed offrono momenti della propria vita, per fare nuove amicizie o riscoprirne di vecchie, per evadere dalla martellante ripetitività quotidiana ma, soprattutto, per vivere 5 minuti di celebrità.

La possibilità di essere conosciuti, riconosciuti, taggati, condivisi da amici, amici di amici e sconosciuti di tutto il mondo, soddisfa l’aspirazione, tutta contemporanea, a sentirsi noti. Non un semplice surrogato di affetto mancato, né placebo per la solitudine dell’uomo moderno, ma vero e proprio desiderio di apparire, di esserci, di dire la propria su politica, ambiente ed attualità: quasi che l’indecisione o il non aver, semplicemente, una opinione, sia pericoloso sintomo di anonimato. E, se sei anonimo, chi chiederà mai la tua amicizia? Una cugina lontana o il solito ciccione americano che condivide il tuo cognome! Data la premessa, parrebbe superfluo parlare di legge sulla privacy, diritto alla reputazione e tutela dell’onore; ma siccome credo nell’esistenza di qualche sparuto amante della riservatezza, timido esemplare di sanità spirituale votato al riserbo crepuscolare, ecco alcuni spunti giuridico-virtuali interessanti.

Internet non è un’entità fisica, ma una estesa rete che connette un numero infinito di altre reti, non è finanziata da istituzioni o governi, non è un servizio commerciale. In ciò è la forza e la debolezza del sistema: da un lato, la rete non può essere soggetta a nessuna influenza esterna, conservando un’indipendenza assoluta; dall’altro, quest’anarchia digitale comporta la mancanza di un effettivo controllo e la comparsa di molteplici fattispecie criminose. È un fatto che i contenuti creati dagli utenti e resi pubblici in via telematica, integrino potenziali violazioni degli interessi di terzi e dei diritti individuali all’immagine ed alla riservatezza.

Se la nostra critica ledesse l’immagine di un collega? Se le nostre chiacchiere minassero la riservatezza di un amico? Se la foto della nostra nipotina al mare venisse utilizzata da sconosciuti? Basti pensare ai casi più celebri: tempo fa, sono apparse su Facebook foto di pazienti intubati: l’infermiera che le aveva pubblicate non si era accorta che fossero alla portata di tutti; nel 2009, un gruppo di discussione intitolato “Uccidiamo Berlusconi” si è sperticato in una serie variopinta di ingiurie e minacce; nel2010,Pakistan eBangladesh hanno oscurato Facebook e Youtube per evitare la diffusione delle caricature del profetaMaometto; senza contare i vari gruppi che inneggiano alla gloria di delinquenti mafiosi e movimenti neonazisti. Si è ben oltre la classica dicotomia tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione: il sistema connette una quantità infinita di persone ad una velocità inarrestabile. Ma allora dov’è il limite?

L’ordinamento italiano offre un vasto panorama di norme a tutela delle libertà fondamentali dell’individuo. Secondo la Corte di Cassazione, il diritto di critica può essere esercitato da chiunque, nel rispetto dei criteri di utilità sociale dell’informazione, verità della notizia, forma civile dell’esposizione. D’altro canto,il limite naturale al diritto di critica risiede nella tutela della reputazione dell’individuo, principio che ogni buon utente dovrebbe tenere in dovuta considerazione, prima di lanciarsi in rete. In materia di abuso d’immagine altrui, l’art. 10 del Codice Civile dispone: qualora l’immagine di una persona o dei suoi parenti sia esposta o pubblicata fuori dei casi consentiti dalla legge, con pregiudizio al decoro ed alla reputazione, l’autorità giudiziaria può ordinare che l’abuso cessi.Che dire, poi, del decreto legislativo n. 196/03, il famigerato “Codice in materia di protezione dei dati personali”? Una delle più complete e commoventi elaborazioni normative degli ultimi anni, che riconosce il diritto dell’individuo ai propri dati personali e disciplina le operazioni di raccolta, elaborazione, raffronto, cancellazione, modificazione, comunicazione e diffusione dei dati stessi. A ciò si collegano principi nobilissimi, quali il diritto alla riservatezza ed il consenso al trattamento dei dati personali, fulgidi brocardi in difesa costante della privacy dell’individuo.Ma la vera questione è che fattispecie tipiche, come la minaccia, l’abuso di immagine altrui, la violazione della privacy, si realizzano in termini del tutto nuovi, rispetto alle previsioni cristallizzate nei nostri inappuntabili codici. Una volta in rete, i contenuti sono riprodotti in streaming un numero infinito di volte dagli stessi utenti: è chiaro che non vi può essere alcuna tutela se i soggetti tutelati sono i primi ad evadere le norme di tutela in questione (mi si permetta il gioco di parole)! Si pensi alla musica online: in assenza di un accordo con i titolari dei diritti, si è teorizzata l’illiceità dei download promossi dai social network o via peer to peer.

Ebbene, nell’incertezza del dato normativo, milioni di persone continuano a “scaricare” musica da Internet, incidendo profondamente sulle regole di mercato: ad oggi, le pop star traggono fonte di guadagno dalle performance live, più che dalla vendita di cd e file musicali (ecco spiegato il repentino aumento del costo dei biglietti per i concerti).

Utenti a parte, è possibile individuare una responsabilità in capo ai prestatori di servizi, ai cosiddetti “intermediari”, ai vari Google, Facebook, MySpace? L’art. 17 del decreto legislativo 70/03, in attuazione della direttiva 2000/31/CE, sostanzialmente, ribadisce l’assenza di un generale obbligo di sorveglianza, da parte degli intermediari, sulle attività degli utenti.

D’altro canto, considerato che il responsabile del sistema ha la possibilità di controllare i contenuti, il prestatore è sempre tenuto ad informare l’autorità di vigilanza, in caso di presunte attività illecite, ed a fornire, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni che consentono l’identificazione dell’utente in questione.

In realtà, una volta elaborata la qualificazione giuridica di Internet, sarebbe utile avvalersi della collaborazione degli operatori e dei tecnici del settore, così da pragmatizzare i principi di diritto alla velocità dei gigabyte. Questo, unito al buon senso degli utenti, ai quali sta, comunque, la scelta di barattare la propria vita in rete, per guadagnare 5 minuti di notorietà.

È ipotizzabile il ritorno ad una vita riservata, sussurrata a pochi intimi? Per ora, scommetto che, appena finito di leggere l’articolo, controllerete se su Facebookci sono anch’io !

 

 

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