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La tutela dal grave sfruttamento lavorativo ed il nuovo articolo 603bis c.p.-Altalex.it

 

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Articolo di David Mancini

 

Sommario: 1) L'emergenza della tratta a scopo di sfruttamento del lavoro. Diffusione del fenomeno e percezione sociale. 2) Conoscenza del fenomeno e intervento multi-agenzia. 3) Parametri normativi di riferimento per un definizione di lavoro forzato. 3.1) Le Convenzioni OIL sul lavoro forzato. 3.2) L’approdo normativo dell’ONU e dell’Europa. L’arresto della CEDU. 4) La definizione del lavoro forzato. Un problema superato a livello internazionale, ma persistente nelle legislazioni penali nazionali. 5) Il progetto di legge C2784 della xv^ legislatura e la definizione di grave sfruttamento lavorativo. 6) L’art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, che introduce l’art. 603bis del codice penale.

 

1. L'emergenza della tratta a scopo di sfruttamento del lavoro. Diffusione del fenomeno e percezione sociale

 

Lo sfruttamento lavorativo è una condizione che spesso contraddistingue i migranti provenienti dai diversi continenti, ma può coinvolgere anche i cittadini dell'Unione europea (come nel caso dei tanti cittadini neocomunitari).

 

In realtà, il lavoro forzato, come riconosciuto autorevolmente, è ancora un fenomeno sottovalutato[1] e scarsamente contrastato, ma per opinione unanime è anche la forma di schiavitù moderna più diffusa e meno percepita. Una delle spiegazioni possibili risiede nella considerazione che, al di là delle forme più estreme in cui si assiste ad una sostanziale privazione della libertà di azione e movimento attraverso metodi coercitivi o violenti, lo sfruttamento del lavoro avviene in modo sommerso, impalpabile, in contesti difficilmente monitorabili dagli organi preposti. A differenza dello sfruttamento sessuale, poi, presenta sfumature più variegate che possono rendere più arduo identificarne le vittime, percepirne o qualificarne il disvalore.

 

Le situazioni di lavoro forzato possono svilupparsi particolarmente in determinati settori economici che si prestano a pratiche abusive o irregolari. Le macroaree della grey economy, del lavoro clandestino, del lavoro nero, sono tutti campi che possono favorire la nascita di relazioni di sfruttamento tra datore di lavoro e lavoratore. Il lavoro nell’edilizia, quello nel settore agricolo, in stabilimenti manifatturieri, il lavoro domestico, nel settore della pesca e del turismo sono tra gli ambiti lavorativi che maggiormente fanno registrare situazioni di grave sfruttamento del lavoro. L’emersione di queste forme di lavoro forzato o di grave sfruttamento lavorativo è ardua per la vulnerabilità ed il timore delle vittime, per la difficoltà di monitorare e di investigare degli organi competenti e talvolta per l’assenza di validi strumenti normativi, sia in termini di assistenza e protezione delle vittime, sia in termini repressivi.

 

Nel mondo ogni giorno milioni di persone - tra cui una percentuale significativa di bambini [2] - sono sfruttati. Peraltro, la varietà di forme di sfruttamento del lavoro è infinita, e comprende anche le forme di sfruttamento come l'accattonaggio forzato, la costrizione a compiere reati, come borseggi, scippi, furti, la ricezione, il trasporto e/o la cessione di merci rubate e di sostanze stupefacenti[3].

 

Secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), il numero di persone vittime del traffico a livello mondiale ammonta, come minimo e secondo stime di qualche anno fa, a 2,45 milioni, di cui almeno mezzo milione sono nell'area geografica OSCE[4]. Questa stima non tiene conto dei casi di servitù per debiti, in cui le vittime sono soggiogati e sfruttati con mezzi sottili, di solito tramite una combinazione di minacce e vincoli economici.

 

In molti paesi, tra cui gli Stati partecipanti all'OSCE, diversi settori del lavoro non hanno ancora un minimo di disciplina interna in linea con le norme internazionali del lavoro. Questo conduce alla protezione diseguale dei lavoratori in termini di salario minimo, orario di lavoro, ferie, straordinari, sicurezza sociale. In altre parole, più precario è lo status giuridico del lavoratore migrante, maggiore è la sua vulnerabilità e la potenziale dipendenza dal datore di lavoro.

 

Naturalmente, non tutti i lavoratori migranti sono vittime della tratta. Ma un numero significativo di essi sono progressivamente sfruttati fino alla condizione estrema della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, molto più di quanto non sia stato riconosciuto fino ad oggi. Vi sono molti settori del lavoro che per caratteristiche strutturali si prestano all’abuso della posizione di vulnerabilità dei lavoratori.

 

La tratta non mostra alcun segno di cedimento in tutto il mondo. E’ quindi fondamentale, per cambiare la percezione comune del fenomeno - spesso trattato come un reato marginale e lontano dalla realtà comune – quasi esclusivamente riguardante il settore dello sfruttamento sessuale.

 

Al contrario, il traffico a scopo di sfruttamento del lavoro assume connotati e dimensioni sempre più diffuse e preoccupanti.

 

Le interdipendenze in un mondo globalizzato, la spinta al profitto e la competizione economica che portano alla necessità di ridurre i costi di produzione, soprattutto in periodi recessivi e di pesante crisi economica, nonchè le pratiche attuali di consumo e produzione dell'economia mondiale hanno indotto un aumento della domanda di manodopera a basso costo ed a condizioni “fuori mercato”.

 

Il rischio attuale è che la tratta a scopo di sfruttamento lavorativo diventi una componente strutturale di determinati settori produttivi, con i gruppi criminali organizzati sempre più protesi a sfruttare la vulnerabilità sociale dei lavoratori, specialmente dei lavoratori migranti.

 

Il lavoro forzato quale forma della tratta di persone è un fenomeno con cui l’Italia ha cominciato a fare i conti in tempi relativamente recenti. Infatti, sia le indagini conoscitive che le azioni di supporto alle vittime si sono sviluppate lentamente nel corso degli ultimi anni. Solo da pochi anni ed a partire dal 2006, malgrado la previsione normativa dell’art. 18 del decreto legislativo n. 286/1998, i programmi di protezione sociale possono accogliere anche persone trafficate a scopo di grave sfruttamento lavorativo. La prima ricerca sociale su tale fenomeno è stata pubblicata nel 2003[5], per essere seguita poi da altri specifici studi[6]. Le conoscenze finora acquisite sul fenomeno derivano soprattutto dalle informazioni fornite da vittime prese in carico dai programmi di protezione sociale, dall’esperienza dei testimoni privilegiati/e che operano nel settore anti-tratta e dalle indagini penali in materia.

 

L’Europa dell’Est è l’area geografica da cui proviene la maggior parte delle vittime, seguita da Africa, Asia e, infine, America Latina. Gli uomini costituiscono la maggioranza delle vittime ad oggi identificate, sebbene si registrino proporzioni diverse tra la presenza maschile e quella femminile a seconda del paese di provenienza. La fascia d’età più rappresentata, per entrambi i generi, è quella tra i 30 e i 40 anni. Infine, il livello di scolarizzazione pare essere mediamente alto, in particolare per le donne che risultano essere generalmente più scolarizzare degli uomini[7].

 

I principali push e pull factors coincidono con quelli sussistenti per le vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale e per le persone migranti in generale. La necessità di migliorare le proprie condizioni di vita e l’economia familiare sono le motivazioni principali che spingono le vittime a migrare. Alcune persone, per lo più provenienti da paesi africani o asiatici, lasciano il proprio paese anche per motivi politici, sociali, etnici e religiosi.

 

Nella maggior parte dei casi il percorso migratorio inizia con la scelta volontaria del migrante di espatriare, mentre di rado la partenza è frutto di un atto coercitivo. Il costo del pagamento del viaggio varia in base alla distanza da coprire dal paese di origine all’Italia e, molto spesso, viene corrisposto dopo aver chiesto un prestito a parenti/amici o a persone estranee[8], spesso inserite in organizzazioni criminali che fungono da intermediarie con quelle che sottoporranno a controllo e sfruttamento il lavoratore o la lavoratrice una volta giunto/a a destinazione. Il debito contratto diventa quindi un fattore di vulnerabilità decisivo per il lavoratore o la lavoratrice migrante.

 

La necessità di restituire quanto prima il denaro preso in prestito in patria per sostenere il viaggio rende vulnerabile il migrante e lo spinge verso situazioni di grave sfruttamento, poiché subordinato psicologicamente ed economicamente nei confronti del datore di lavoro e dell’eventuale intermediario (in termini gergali, “caporale”).

 

Sebbene vi siano casi in cui le vittime lasciano il proprio paese conoscendo già la propria destinazione lavorativa, la maggior parte sembra partire senza avere informazioni sufficienti per trovare un lavoro una volta approdate in Italia. I principali canali informali e formali a cui generalmente si rivolgono per trovare informazioni su possibilità occupazionali sono: a) parenti ed amici già presenti sul territorio italiano; b) caporali – spesso connazionali – che fungono da mediatori illegali tra datori di lavoro e la manodopera; c) datori di lavoro contattati o di cui si è avuto il nominativo prima della partenza dal paese di origine; e) agenzie del lavoro ordinarie o interinali. I settori produttivi italiani principalmente coinvolti in casi di tratta a scopo di lavoro forzato sono quello industriale (principalmente nei comparti delle costruzioni, del tessile-abbigliamento e della meccanica/metallurgica), quello dei servizi (specialmente nel lavoro domestico e nel settore turistico e ristoro-alberghiero) e in quello agricolo (in particolare nei comparti floro-vivaistico e produzione in serra, piantagione e semina, raccolta e immagazzinamento merci).

 

Le vittime sono costrette a subire condizioni di vita e di lavoro difficili che non possono negoziare: hanno orari di lavoro molto lunghi e senza pause intermedie; percepiscono retribuzioni molto inferiori a quelle pattuite e a quelle stabilite per legge; vengono pagate irregolarmente o non vengono pagate affatto; vengono illuse rispetto all’ottenimento di permessi di soggiorno, per cui, a volte, sono costrette a versare del denaro; sono costrette a svolgere mansioni pesanti, nocive o pericolose; devono subire comportamenti xenofobi, discriminazioni di genere o molestie sessuali. A perpetrare azioni mirate all’assoggettamento e allo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici vi sono in primo luogo i datori di lavoro, seguiti da caporali senza scrupoli che chiedono continuamente denaro ai migranti per qualsiasi “servizio richiesto”: impiego giornaliero, trasporto dal luogo di ritrovo a quello di lavoro e viceversa, affitto di un posto letto (spesso in soluzioni alloggiative disumane e in condizioni igienico-sanitarie pessime), invio di denaro in patria e così via[9].

 

2. Conoscenza del fenomeno e intervento multiagenzia

 

La stessa conoscenza del fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo sconta un gap rispetto alle ricerche effettuate nel campo della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Le vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo sono ancor più invisibili e sono indotte ad emergere solo quando fatti specifici e traumatici accadono, come nel caso di gravi incidenti sul lavoro.

 

Il fenomeno è dunque in ombra. Ad esempio, finora esistono ancora pochi elementi conoscitivi e giudiziari da cui desumere l’esistenza delle c.d. organizzazioni a doppia sponda, vale a dire di organizzazioni all’interno delle quali le fasi del reclutamento di lavoratori migranti nei Paesi di origine siano direttamente connesse con la destinazione ultima dello sfruttamento attraverso network criminali collegati in grado di suddividersi i ruoli sulla base di programmazioni preventive. Si colgono in alcune recenti indagini elementi da cui rilevare legami tra taluni datori di lavoro italiani e agenzie di collocamento o di intermediazione di manodopera situate nei Paesi di origine, ma ancora manca la certezza della ricostruzione giudiziaria. Pertanto, sulla base delle attuali conoscenze, la maggior parte dei migranti irregolari sfruttati nel lavoro intraprende un percorso migratorio autonomo affidandosi alle reti di smuggling, per poi, mediante l’aiuto di comunità di connazionali o di intermediari abusivi, etnici e non, trovare lavoro nel Paese di destinazione, in situazione di tale precarietà e vulnerabilità da prestare facilmente il fianco a potenziali forme di sfruttamento[10].

 

Il lavoro forzato può essere generalmente individuato in presenza di almeno due circostanze: 1) la costante minaccia di sanzioni; 2) la sottomissione al lavoro contro la propria volontà[11].

 

Finora, il trafficking con scopo di sfruttamento sessuale ha dominato il dibattito e l’identificazione delle vittima di trafficking per lavoro forzato è stata ancora più ardua e problematica, tanto che manca una definizione di lavoro forzato all’interno del Protocollo per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, specialmente donne e bambini, allegato alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, siglata a Palermo nel dicembre 2000. Una delle ragioni principali di questa assenza può essere data dal fatto che in molti Paesi il trafficking finalizzato allo sfruttamento lavorativo non è percepito e regolato come un fatto di rilevanza penale, sia per ragioni macroeconomiche (in alcuni Stati è proprio l'apparato statuale a tollerare lo sfruttamento), sia perchè molto spesso i confini tra grave sfruttamento lavorativo, lavoro precario, lavoro mal retribuito e privo di garanzie non sono di facile sottolineatura.

 

Ciò non significa che non sia preciso compito degli Stati individuare le risposte punitive per ogni forma di sfruttamento lavorativo.

 

A livello internazionale matura la consapevolezza che la sfida non può essere raccolta esclusivamente dagli organismi di contrasto oppure dalle ONG. E’ necessaria la partecipazione protagonista della comunità e delle parti sociali In questo scenario, le parti sociali possono e devono svolgere un ruolo maggiore nel contrasto al lavoro forzato o sfruttato, in termini di organizzazione del lavoro, di formazione del personale, di sensibilizzazione del problema e di creazione di opportunità di lavoro per i gruppi vulnerabili[12].

 

Il contributo del settore privato è infatti potenzialmente decisivo in tre aree. In primo luogo, il settore privato può rispondere al lavoro forzato come soggetto attivo di iniziative di responsabilità sociale e anche di riduzione dei rischi per le imprese che traggono utilità dal lavoro sfruttato. Ad esempio la riduzione dei rischi è connessa alle sanzioni per responsabilità delle ente, allorchè questo trae vantaggio dalla tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, ma può riguardare anche la tutela dell’immagine di un’impresa. In secondo luogo, il settore privato può svolgere un ruolo fondamentale nel reinserimento socio-lavorativo delle vittime che vogliano tornare nel loro paese di origine o di inclusione sociale nel Paese di accoglienza, contribuendo a minimizzare i rischi di nuova caduta nella tratta. Infine, il settore privato, con il sostegno di adeguate politiche economiche, potrebbe svolgere un ruolo importante nell'affrontare le disuguaglianze socio-economiche che creano un ambiente favorevole all’attecchimento della tratta di esseri umani e del lavoro forzato. Il grave sfruttamento lavorativo non è soltanto una lesione di diritti fondamentali della persona, ma è un germe che inquina i tessuti economici e produttivi, poiché altera la concorrenza tra le imprese, secondo uno schema che presenta alcune affinità con il dualismo tra impresa legale e impresa criminale.

 

In ambito OSCE[13], sono stati compiuti negli ultimi dieci anni progressi significativi per creare consapevolezza sul fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, grazie agli sforzi e alla partnership di governi, organizzazioni internazionali, ONG e sindacati[14]. In questo contesto, le partnership tra ONG e sindacati sono importanti. Essi hanno ruoli distinti, anzi complementari. I sindacati hanno il compito fondamentale di proteggere e migliorare gli standard lavorativi di tutti i lavoratori, nazionali e immigrati, e possono giocare un ruolo cruciale nella lotta contro la tratta. Tale ruolo può variare da promuovere e monitorare l'attuazione dei salari minimi e altre condizioni di lavoro, pressione sui governi per assicurare condizioni di lavoro dignitose e accesso alla giustizia, nonché sostenere i lavoratori nella rivendicazione individuale e collettiva dei loro.

 

E anche essenziale che i sindacati rafforzino la loro capacità di raggiungere i lavoratori del settore del lavoro nero e nei settori tradizionalmente più soggetti a sfruttamento. I sindacati potrebbero anche mettere la loro esperienza e competenza a disposizione delle associazioni dei lavoratori migranti, regolari ed irregolari.

 

Al fine di migliorare l'identificazione e la protezione delle vittime sfruttate in settori economici, è necessario allargare l'approccio multidisciplinare e di creare partnership per assicurare, in collaborazione con le forze dell’ordine e la magistratura inquirente, la partecipazione attiva delle ONG, degli ispettori del lavoro, dei sindacati e delle organizzazioni per i diritti dei migranti una azione di contrasto più efficace al grave sfruttamento lavorativo.

 

A questo proposito, assume, dunque, un ruolo prioritario la capacità degli operatori di adottare gli accorgimenti di base per un approccio corretto con la potenziale vittima, che fatica a percepirsi come tale o spesso rifiuta di riconoscersi tale. Il lavoro integrato di identificazione è, quindi, prioritario. Le azioni disorganiche possono essere occasionalmente utili, ma in generale sono destinate al fallimento, con la pesante conseguenza della mancata identificazione delle possibili vittime e della loro involontaria riconsegna al mercato dello sfruttamento.

 

Occorre un’adeguata formazione degli operatori, necessariamente integrata e multiprofessionale. In un fenomeno così caratterizzato dalla multidisciplinarietà, ogni operatore deve conoscere le prerogative e le specificità delle altre professionalità per agire consapevolmente e in sinergia.

 

Non può esservi attività d’identificazione se manca adeguata assistenza e protezione. Per queste ragioni, in Italia l’art. 18, d.lgs. n. 286/1998 ha rappresentato uno strumento fondamentale nell’ottica dell’approccio centrato sul rispetto dei diritti umani[15]. Le legislazioni italiana e belga hanno costituito l’esempio di riferimento europeo per la costruzione di un modello d’identificazione, assistenza e protezione alle vittime di tratta.

 

Proprio l’art. 18 contiene al suo interno le indicazioni sui presupposti organizzativi e operativi rivolti alle diverse istituzioni coinvolte. Esso è uno strumento polifunzionale che richiede l’intervento congiunto dei diversi attori. La piena realizzazione delle sue potenzialità impone azioni integrate tra i diversi enti coinvolti, affinché realmente l’opportunità normativa raggiunga gli scopi sul piano sociale e giudiziario.

 

Se gli attori coinvolti riescono a pianificare, nel rispetto dei ruoli, strategie comuni di intervento si riduce il rischio che i fenomeni criminali restino sommersi o che le vittime non vengano trattate come tali. Alla formazione delle professionalità deve far seguito uno stabile lavoro di rete, affinché si attivino procedure collegate in caso di contatto, nei diversi ambiti, con potenziali vittime di tratta. In Italia si sono realizzate alcune buone prassi, formalizzate con procedure permanenti e condivise dagli enti interessati, che hanno costituito un esempio anche in ambito internazionale. Il metodo da perseguire è quello della cooperazione multiagenzia che, non è frutto di fantasia creativa, ma è la traduzione in prassi di previsioni normative internazionali. In quest’ottica, l’approccio di sistema al fenomeno sin dalla fase dell’identificazione delle vittime, le risposte preventive e repressive integrate attraverso la cooperazione, la creazione di reti, le buone prassi e i protocolli di intervento, la formazione multidisciplinare sono elementi necessari in termini di prevenzione, di assistenza, protezione e reinserimento sociale delle vittime, di repressione dei criminali.

 

Nel settore dello sfruttamento del lavoro, poi, è necessario un profondo cambiamento culturale anche negli ispettori del lavoro, ai quali è stato tradizionalmente inculcato un ruolo di verifica amministrativa e formale, mentre oggi nel mondo del lavoro irregolare possono celarsi tracce di gravissimi reati contro i diritti umani.

 

La magistratura deve essere in prima linea nella proposizione di nuovi modelli, anche organizzativi, capaci di affrontare i cambiamenti, come rileva il C.S.M. con la Risoluzione specifica sulla materia della violenza di genere in data 8 luglio 2009. La successiva Delibera del 21 luglio 2009, rivolta ai dirigenti degli uffici giudiziari, indica espressamente la necessità di provvedere alla promozione e l’elaborazione di protocolli di intesa multiagenzia (con altre autorità giudiziarie, soggetti istituzionali, enti e associazioni di volontariato che operano nel settore delle violenze di genere). L’obiettivo fondamentale è quello dell’identificazione, assistenza e protezione della vittima[16].

 

Questi interventi del C.S.M. sono in sintonia con le norme sovranazionali, tra cui:

 

    protocollo ONU sul trafficking in persons: artt. 6, 9, 10;

    protocollo ONU sullo smuggling of migrants: artt. 14 e 16;

    decisione quadro UE 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani: art. 7;

    piano d’azione UE dicembre 2005 sulle migliori pratiche, le norme e le procedure per contrastare e prevenire la tratta di esseri umani (cfr. par. 5(i)) e relativa “valutazione e monitoraggio dell’attuazione ...” del 2008;

    programma di Stoccolma, Un Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini, approvato dal Consiglio europeo nel dicembre 2009;

    convenzione di Varsavia del Consiglio d’Europa 16 maggio 2005 sulla lotta contro la tratta di esseri umani: artt. 5, 10, 12, 14, 27, 28, 29. In particolare, l’art. 35 fa espresso obbligo agli Stati di promuovere accordi intersoggettivi e multidisciplinari, anche con le ONG e con la società civile. A tale Convenzione l’Italia ha dato finalmente ratifica ed esecuzione, seppure in chiave minimalista, con la legge 2 luglio 2010, n. 108;

    nuova direttiva 2011/36/UE del parlamento europeo e del consiglio del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime – considerando n. 6 e articoli 11, 12, 13.

 

Anche la decisione quadro del 15 marzo 2001 (2001/220/GAI) sulla posizione della vittima nel procedimento penale, nei suoi considerando e nell’art. 13, introduce obblighi per gli Stati di garantire interventi stabili di organizzazioni di assistenza alle vittime nel corso del procedimento.

 

Lo strumento italiano dell’art. 18, d.lgs. n. 286/1998 si presta ad essere la base per modelli di interventi basati sulla cooperazione multiagenzia, come dimostrano recenti studi che si prefiggono l’obiettivo di pervenire all’istituzionalizzazione delle procedure multiagenzia a livello nazionale e transnazionale, e alla creazione di reti collegate e di meccanismi di coordinamento interdisciplinari[17].

 

3. Parametri normativi di riferimento per un definizione di lavoro forzato

 

Volendo tracciare alcune generali linee identificative delle situazioni di lavoro forzato è possibile richiamare almeno sei tipologie di condotte abusive, così come enucleate dall’OIL: 1) violenza fisica o sessuale ovvero minaccia di tale violenza; 2) limitazioni alla libertà di movimento del lavoratore; 3) lavoro prestato sotto il vincolo della restituzione di un debito; 4) trattenimento del salario o rifiuto completo di pagarlo; 5) sottrazione e trattenimento del passaporto o dei documenti di identità; 6) minaccia di denuncia del lavoratore alle autorità.

 

Ovviamente, ciascuna di queste condotte, soprattutto quelle di natura più “contrattuale”, dovrebbe essere ampiamente illustrata dai legislatori nazionali per evidenziare quale intensità deve assumere ed a quali altri elementi si deve unire, per qualificare le diverse forme di sfruttamento, fino a parlare di lavoro forzato e/o di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo.

 

A parere di chi scrive, un dato attuale, alla luce del Protocollo addizionale ONU sul trafficking che, come detto, non fornisce una definizione di lavoro forzato ma lo contiene nella definizione più ampia di tratta di persone e che si affianca alle numerose Convenzioni OIL, è l’obbligo per gli Stati di introdurre una specifica previsione incriminatrice per tutti i casi di grave sfruttamento lavorativo che esulino dalla fattispecie più generale di trafficking, a prescindere che la vittima sia un lavoratore migrante irregolare, proprio perché si tratta sempre di problematiche attinenti a violazioni di diritti umani e non soltanto ai temi dell’immigrazione negli Stati di destinazione[18], come molte legislazioni, tra cui quella italiana, hanno finora presupposto.

 

In sostanza, non pare accettabile una situazione normativa contraddistinta da una profonda frattura tra i concetti di lavoro forzato e tratta a scopo di sfruttamento lavorativo (sanzionati quali gravi reati contro i diritti fondamentali) e tutti gli altri casi di sfruttamento lavorativo non assimilabili ai precedenti che appaiono relegati in un limbo bagatellare, malgrado anch’essi costituiscano gravi violazioni dei diritti delle persone. Peraltro, la soluzione non può essere quella forzata di far rientrare lo sfruttamento lavorativo tout court nel fenomeno della tratta, che costituisce un area più ristretta e qualificata.

 

Certo è che il compito di delineare i confini dello sfruttamento lavorativo nelle sue diverse qualificazioni (lavoro irregolare e sommerso, grave sfruttamento lavorativo non identificabile come tratta, tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e/o lavoro forzato) è tutt’altro che agevole, se è vero che i primi tentativi dimostrano non poche difficoltà nel fornire definizioni condivisibili di grave sfruttamento lavorativo (quando non si traduca in vera e propria tratta di persone) che siano sufficientemente chiare per gli interpreti, non siano eccessivamente restrittive e d’altro canto, non si confondano con più blande (e talvolta quasi fisiologiche) irregolarità nelle relazioni tra datore di lavoro e lavoratore.

 

3.1. Le Convenzioni OIL sul lavoro forzato

 

La Convenzione sul lavoro forzato del 1930 (n. 29) definisce il lavoro forzato, impone agli Stati di criminalizzare e contiene un elenco di eccezioni. L'articolo 2, par. 1 definisce “lavoro forzato o obbligatorio” ogni lavoro o servizio che si esige da una persona sotto minaccia di una punizione, e per il quale detta persona non si è offerta volontariamente.

 

L'articolo 2, par. 2 prevede eccezioni per il lavoro che è richiesto da: (1) servizio militare obbligatorio, a condizione che sia di carattere puramente militare, (2) normali obblighi civici, (3) una condanna da parte di un tribunale; (4) casi di emergenza, e (5) servizi pubblici minori eseguiti da membri di una comunità e nel diretto interesse della comunità.

 

Il "lavoro forzato o obbligatorio a vantaggio di privati, aziende o associazioni" è stato immediatamente proibito (art. 4, cpv. 1), ma il riferimento ai lavori forzati imposti dalle autorità pubbliche non è stato originariamente bandito a titolo definitivo. Piuttosto, gli Stati membri si sono impegnati a "sopprimere l'uso del servizio forzato o obbligatorio in tutte le sue forme entro il periodo più breve possibile" (art. 1, cpv. 1). Durante un periodo transitorio, in realtà mai espressamente specificato, il ricorso al lavoro forzato avrebbe potuto essere consentito "solo per fini pubblici e come eccezionali misura" (art. 1, cpv. 2). Dal 1998, l’OIL si è espressamente soffermata sul fatto che questo periodo di transizione non può più essere invocato per giustificare pratiche di lavoro forzato[19].

 

L’articolo 25 della Convenzione del 1930 prevede l’obbligo di criminalizzazione del lavoro forzato: l'esazione illegale di lavoro forzato o obbligatorio è punito come un reato penale, e sarà un obbligo per ogni Stato membro che ratifichi la presente convenzione per garantire che le sanzioni imposte dalla legge siano davvero adeguate e vengano rigorosamente rispettate.

 

Circa la definizione dell’articolo 2 nel corso degli anni il Comitato di esperti dell’OIL sull’applicazione delle convenzioni ha elaborato indagini e studi. Il concetto di lavoro o servizio reso obbligatorio non può essere esteso alle prestazioni scolastiche obbligatorie o alla formazione professionale. Ma nel caso in cui la formazione professionale "comporta una certa quantità di lavoro pratico", può essere necessario esaminare attentamente il contesto fattuale, per determinare se si tratta realmente di attività di formazione professionale o, al contrario, se comporta l'esazione di lavoro o di servizio nella definizione di lavoro forzato o obbligatorio.

 

Il concetto di minaccia di una punizione deve essere interpretato in senso ampio. Essa non deve essere interpretata come minaccia di sanzioni penali, ma potrebbe anche assumere la forma di una perdita di diritti o privilegi, come una promozione, il trasferimento, l'accesso a nuova occupazione, la fruizione dell’alloggio, ecc.. Molta attenzione è stata dedicata alla questo elemento, in particolare sotto il profilo della coercizione psicologica o di costrizione economica. In generale, gli organi di controllo dell'OIL hanno riconosciuto che la coercizione psicologica potrebbe equivalere alla minaccia di una sanzione, mentre non ugualmente si è ritenuto per una situazione generale di costrizione economica, che potrebbe tradursi in una minaccia di sanzione solo unitamente ad altri elementi concreti, di volta in volta valutabili in relazione a casi specifici.

Il concetto di offerta volontaria rileva nel senso che il lavoro eseguito sotto la minaccia di una punizione non è un lavoro accettato volontariamente. In altre parole, non esiste un offerta volontaria sotto minaccia ovvero se originata da inganno e frode. In ogni momento deve essere affermato il diritto inalienabile del lavoratore alla libera scelta del lavoro; di conseguenza occorre valutare sempre la duplice condizione se il consenso al lavoro sia frutto di una libera scelta del lavoratore e se questi conservi la possibilità di revocare il suo consenso.

 

La Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato del 1957 (n. 105) non opera alcuna modifica alla definizione di lavoro forzato fornita con la convenzione n. 29. Le due convenzioni sono complementari. La Convenzione n. 105 è lo strumento più recente e trae forza ed origine dalla Convenzione n. 29; mira a proibire il lavoro forzato o obbligatorio in casi specifici, mentre la Convenzione n. 29, d'altra parte, stabilisce un divieto generale di lavoro forzato e obbligatorio, ammettendo solo poche eccezioni.

 

L'articolo 1 stabilisce che il lavoro forzato o obbligatorio non può essere utilizzato: (A) come mezzo di coercizione politica o di istruzione, o come una punizione per la detenzione o esprimere opinioni politiche o viste ideologicamente opposte al sistema istituito politico, sociale o economico; (B) come metodo di mobilitazione e l'utilizzo di lavoro a fini di sviluppo economico; (C) come strumento di disciplina del lavoro; (D) come punizione per aver partecipato a scioperi; (E) come un mezzo di discriminazione razziale, sociale, nazionale o religiosa.

 

La Convenzione sulle peggiori forme di lavoro minorile del 1999 (n. 182) definisce all’articolo 3 il lavoro minorile gravemente sfruttato come: (A) tutte le forme di schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, quali la vendita e la tratta di minori, la servitù per debiti e l'asservimento, il lavoro forzato o obbligatorio, compreso il reclutamento forzato o obbligatorio di minori per l'impiego nei conflitti armati; (B) l'impiego, l'ingaggio o l'offerta del minore a fini di prostituzione, per la produzione di materiale pornografico o di spettacoli pornografici; (C) l'impiego, l'ingaggio o l'offerta del minore ai fini di attività illecite, in particolare per la produzione e il traffico di droga come sono definiti dai trattati internazionali pertinenti; (D) i lavori che, per sua natura o per le circostanze in cui viene svolto, rischi di compromettere la salute, la sicurezza o la moralità dei bambini.

 

L'articolo 7 prevede che ogni Stato membro "adotta tutte le misure necessarie per garantire l'effettiva attuazione e l'applicazione delle disposizioni attuative della presente convenzione compresa la fornitura e l'applicazione di sanzioni penali o altre sanzioni".

 

3.2. L’approdo normativo dell’ONU e dell’Europa. L’arresto della CEDU

 

Il tema dello sfruttamento del lavoro animava anche la Lega delle Nazioni, preoccupata per il continuo commercio di schiavi africani, tanto che si procedeva alla nomina di una commissione temporanea sulla schiavitù nel 1924 al fine di indagare e riferire sulla questione. Nel 1926, la Lega adottava la Convenzione sulla schiavitù, entrata in vigore nel 1927. Questo è stato il primo strumento internazionale a fornire una definizione giuridica di schiavitù. L'articolo 1 stabilisce che la schiavitù è lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano qualunque o tutti i poteri inerenti al diritto di proprietà.

 

C'è stato dibattito su un eventuale inserimento del riferimento al lavoro forzato, ma alla fine i delegati hanno deciso di trattarlo separatamente. A differenza del lavoro forzato descritto dalla Convezione OIL del 1930, la Convenzione ONU sulla schiavitù non conteneva deroghe ammissibili e nessun periodo di transizione. Le parti venivano obbligate a disporre, progressivamente e nel più breve tempo possibile, la completa abolizione della schiavitù in tutte le sue forme (art. 2 [b]). Nel preambolo, la Lega sottolineò il suo desiderio di "prevenire il lavoro forzato che presenti condizioni analoghe alla schiavitù".

 

La Convenzione supplementare sull'abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù, venne adottata nel 1956 dalle Nazioni Unite, che citavano sia la Convenzione OIL sul lavoro forzato che la Convenzione sulla schiavitù, decidendo così di adottare una Convenzione supplementare relativa all'abolizione della schiavitù. Il Preambolo osservava che "la schiavitù, la tratta degli schiavi e le istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù non sono ancora state eliminate in tutte le parti del mondo", ed esprimeva la necessità che la Convenzione sulla schiavitù del 1926 avrebbe dovuto essere implementata dalla conclusione di un convenzione supplementare, progettata per intensificare gli sforzi nazionali e internazionali. L'intento era quello di vietare e/o criminalizzare anche la servitù per debiti, la servitù della gleba, il matrimonio servile e alcune forme di lavoro minorile.

 

Nel 1990, l'aumento della migrazione globale e le prime risultanze di ingenti traffici criminali da parte di organizzazioni transnazionali indirizzavano l'attenzione del mondo sul problema della tratta di uomini, donne e bambini sia per sfruttamento sessuale e lavorativo. Nel dicembre 1998, l'Assemblea generale dell'ONU approvava una risoluzione per istituire un comitato ad hoc per affrontare la problematica della tratta di persone e del traffico di migranti. Nel dicembre del 2000 nasceva la Convenzione di Palermo dulla criminalità organizzata transnazionale.

 

Il Protocollo sul trafficking delle Nazioni Unite per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, specialmente donne e bambini, è il primo strumento internazionale per definire la tratta di persone, anche in assenza di una specifica definizione del lavoro forzato[20]. Una prima bozza del Protocollo addizionale sulla tratta definiva il lavoro forzato come ogni lavoro o servizio ottenuto da una persona sotto la minaccia [o] uso della forza [o coercizione], e per il quale la persona non si offre se stessa o con libera e consenso informato, seguito da un elenco di eccezioni simili a quelle della Convenzione n. 29.

 

Si è sostenuto, infatti, ad opera di alcuni Paesi che il lavoro forzato avrebbe dovuto essere definito con riferimento alla definizione OIL, ma alla fine il Protocollo addizionale non ha adottato alcun riferimento alla Convenzione n. 29 o agli elementi di lavoro forzato nel testo finale30. Tuttavia, è opinione assolutamente unanime e autorevole di plurimi consessi internazionali che la definizione di tratta di cui all’art. 3 del protocollo addizionale sul trafficking contenga gli elementi essenziali delle Convenzioni OIL n. 29, 105 e 182, nonché degli altri strumenti normativi internazionali che vietano la schiavitù[21].

 

Anche il Consiglio d'Europa, con la Convenzione del 29 maggio 2005 sulla lotta contro la tratta di esseri umani, siglata a Varsavia, adotta la definizione Protocollo addizionale ONU sul trafficking, prendendo atto che la Dichiarazione universale dei diritti umani e le convenzioni OIL sul lavoro forzato sono rilevanti per la definizione di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo. Di conseguenza, non corre alcuna distinzione tra i concetti giuridici di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e di lavoro forzato, essendo le condotte generali descritte dall’art. 3 del Protocollo addizionale sul trafficking pienamente esaustive e comprensive degli elementi caratterizzanti il lavoro forzato.

 

Sul punto, un fondamentale arresto, di diretta rilevanza anche nel panorama giurisprudenziale italiano, lo ritroviamo nella disposizione dell’articolo 4 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, così come interpretato dalla Corte europea di Strasburgo con le sentenze Siliadin c. Francia, sentenza 26 luglio 2005, n. 73316/01 e Rantsev c. Cipro e Russia, sentenza 7 gennaio 2010, n. 25965/04[22].

 

La Corte europea dei diritti dell’uomo afferma che l’assenza di un riferimento esplicito alla tratta all’interno della CEDU non sorprende. Essa si è ispirata alla Dichiarazione Universale ONU dei diritti dell’uomo del 1948, che pure non faceva diretta menzione della tratta. Nel suo art. 4 la Dichiarazione faceva riferimento alla “schiavitù e al commercio di schiavi in ogni forma”. Tuttavia, ciò non significa che queste norme non vadano interpretate quale diritto vivente in relazione ai fenomeni dei nostri giorni. I crescenti standard di tutela richiesti nella protezione dei diritti umani impongono interpretazioni e misure legali adeguate. La Corte rileva che la tratta di persone, come fenomeno criminale globale, ha avuto un’enorme crescita negli ultimi anni. Il Protocollo ONU di Palermo del 2000 e la Convenzione COE del 2005 dimostrano l’attenzione internazionale al fenomeno. Sono proprio questi due strumenti normativi ad essere richiamati dalla Corte per addivenire ad un’interpretazione evolutiva del fenomeno tratta.

 

La Corte, chiamata sul caso Siliadin a stabilire quale interpretazione dare all’art. 4 della CEDU e se questa norma potesse ricomprendere anche il concetto di tratta di persone, ha sottolineato che la tratta di persone, il cui obiettivo ultimo è lo sfruttamento della persona in ogni campo, tra cui quello lavorativo, si sostanzia nell’esercizio di poteri corrispondenti a quelli di proprietà. Le persone vengono trattate come strumenti da vendere e acquistare e/o da assoggettare a lavoro forzato o a sfruttamento sessuale. Non vi è dubbio che la tratta leda la dignità umana delle vittime e non sia compatibile con i valori di una società democratica. Secondo un’interpretazione attuale della CEDU non è importante verificare se sussista la schiavitù, la servitù o il lavoro forzato (in base alle definizioni delle Convenzioni ONU e OIL); ciò che conta è che sussistano gli elementi essenziali richiesti nell’art. 3 del Protocollo addizionale ONU sulla tratta e nell’art. 4 della Convenzione COE del 2005 che, in sostanza, ricomprendono i fenomeni descritti nei precedenti testi normativi internazionali; in caso affermativo, certamente la tratta rientra nell’alveo interpretativo dell’art. 4 CEDU, così come attualizzato e interpretato dalla giurisprudenza della Corte.

 

Di conseguenza, sostiene la Corte di Strasburgo, la griglia di strumenti di assistenza e protezione esistenti nelle legislazioni nazionali deve essere adeguata ad assicurare un’efficace tutela delle vittime; anche per quelle che sono solo potenzialmente tali. E queste misure devono essere aggiuntive rispetto a quelle di stretta repressione penale.

 

Osserva la Corte che il Protocollo di Palermo e la Convenzione antitratta COE impongono un approccio olistico per un’efficace azione di contrasto alla tratta, con la necessaria previsione di misure di assistenza e protezione delle vittime. La lettura in combinato disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU richiede che gli Stati attivino le misure di protezione delle potenziali vittime di tratta, che debbono essere tempestivamente identificate. È obbligatorio per gli Stati istituire misure di protezione dell’incolumità fisica delle vittime, anche nei Paesi di origine, stabilire programmi di prevenzione e contrasto alla tratta, garantire la formazione per forze di polizia e magistrati, prevedere l’obbligo di indagare sulle potenziali situazioni di tratta che prescindano, comunque, dalle denunce delle vittime, ma che siano orientate da protocolli operativi autonomi. Una indagine efficiente deve essere indipendente dalla collaborazione delle vittime ed essere diretta alla individuazione e alla punizione dei responsabili.

 

Queste considerazioni della Corte di Strasburgo sono di primaria importanza, alla luce del rafforzato valore all’interno del nostro ordinamento, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, delle norme CEDU e della giurisprudenza della Corte che le interpreta. Inoltre, i principi e le azioni di intervento sono in piena sintonia con la nuova direttiva 2011/36/UE[23] del parlamento europeo e del consiglio del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI[24] e che si incanala nel solco disegnato, anche per il futuro, dall’Unione europea con il Programma di Stoccolma, Un Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini, approvato dal Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2009[25].

 

La nuova direttiva UE contro la tratta è un esempio avanzato di come il contrasto al fenomeno criminale debba essere centrato sulla tutela dei diritti umani, in ogni momento del percorso di contrasto, dal momento dell’identificazione della potenziale vittima, all’assistenza ed alla protezione, al reinserimento socio lavorativo, alla sensibilizzazione della società, alla formazione degli operatori e delle istituzioni, secondo la strategia dell’intervento integrato e multi agenzia.

 

Per quanto riguarda la giurisprudenza nazionale, vengono incoraggiate le posizioni illuminate della Suprema Corte di Cassazione che in materia è perfettamente in linea con la normativa sovranazionale e con l’interpretazione della Corte di Strasburgo[26].

 

4. La definizione del lavoro forzato. Un problema superato a livello internazionale, ma persistente nelle legislazioni penali nazionali

 

Qualche tentativo di definizione del lavoro forzato è presente in alcuni Paesi di destinazione come Germania, Olanda, Francia e Belgio[27].

 

In Germania, la tratta a scopo di sfruttamento del lavoro forzato si riscontra quando vi è impiego del lavoratore in condizioni lavorative che mostrano una palese disparità rispetto alle condizioni di lavoro di altri lavoratori dello stesso settore o di analoghi. Si tratta di una definizione molto restrittiva, che apre la scena a una notevole serie di problemi applicativi.

 

In Olanda, l’articolo 273b del codice penale, novellato nel 2005, individua il lavoro forzato, nell’ambito del più generale reato di tratta, nelle forme di sfruttamento che ledono i diritti fondamentali e la dignità di una persona vulnerabile.

 

In Francia vi sono tre diversi profili punitivi che disciplinano distintamente una il reclutamento, l’accoglienza e la tratta della vittima e le altre due lo sfruttamento del lavoro forzato. In ogni caso il lavoro forzato è definito in modo restrittivo come “condizioni di lavoro o di vita contrarie alla dignità del lavoratore” (art. 225 -4), ovvero come “lavoro non retribuito o lavoro la cui retribuzione appare chiaramente completamente sproporzionato rispetto all’importanza della prestazione lavorativa fornita” (art. 225-13) ovvero ancora come lavoro prestato da un lavoratore “la cui vulnerabilità o dipendenza è conosciuta dal reo” (art. 225-14)

 

Analogamente, nella legislazione belga (legge 10 agosto 2005 di modifica al codice penale, art. 433d) che punisce le azioni di chi (mediante i presupposti del reclutamento, trasporto, etc.) induce una persona a (o permette alla persona di) lavorare in condizioni contrarie alla dignità umana. L’esplicazione di cosa integrerebbe le suddette condizioni non è contenuta nella legge belga, ma è illustrata nel corso dei lavori parlamentari ed in successive direttive ministeriali (che evidentemente in Italia non potrebbero avere un ruolo decisivo nell’interpretazione di una norma così ampia) le quali menzionano salari molto bassi o completamente negati, orario di lavoro prolungato rispetto ai limiti legali o contrattuali, condizioni inidonee di sicurezza dei luoghi di lavoro.

 

Certamente utile è la previsione, sia in Francia che in Belgio, secondo cui in caso di reclutamento finalizzato all’impiego lavorativo in condizioni contrarie alla dignità umana non è necessaria la prova di alcuna coercizione, che invece, costituisce una circostanza aggravante della condotta[28].

 

Tuttavia, definire il lavoro forzato in termini di contrarietà rispetto alla dignità umana significa operare una lettura molto restrittiva della Convenzione OIL n. 29, abbandonando in un’area grigia molteplici situazioni di grave sfruttamento lavorativo che potrebbero rientrare nell’alveo del lavoro forzato. In Olanda si tenta di ovviare a questa debolezza con l’affiancamento di indici di sfruttamento ritenuti gravi e qualificativi.

 

In linea con le ambiguità legislative di tanti Paesi, anche all’interno del nostro ordinamento mancavano definizioni e discipline legislative in grado di fronteggiare i fenomeni di sfruttamento lavorativo, salvo quanto si dirà nei prossimi paragrafi. Vi sono state asperità anche maggiori nel processo volto a definire con esattezza quali siano le condotte di grave sfruttamento lavorativo che possano essere sanzionate in quanto assimilate al lavoro forzato o che possano essere introdotte come nuove ipotesi di reato dirette a colmare le zone grigie in cui proliferano situazioni di approfittamento e sfruttamento non tanto gravi da venire considerate lavoro forzato o tratta a scopo di sfruttamento lavorativo.

 

Questo è un problema rilevante, alla luce della nostra legislazione penale vigente che – almeno fino all’introduzione dell’art. 603bis c.p. di cui si dirà - non prevedeva adeguate risposte di contrasto, salvo che le condotte poste in essere abbiano le caratteristiche previste dai reati di tratta o riduzione in schiavitù, nel qual caso evidentemente saranno applicabili gli articoli 600, 601 o 602 del codice penale. Inoltre, altro interrogativo che si poneva - ora parzialmente risolto - è se, eventualmente, a questa diversa tipologia di vittime fossero applicabili gli strumenti di tutela e protezione sociale, a partire dall’art. 18 del decreto legislativo 286 del 1998 fino all’art. 13 della legge 228 del 2003.

 

La giurisprudenza implicitamente riconosce l’esistenza di questa “zona grigia” di tutela penale, allorchè precisa che le condizioni inique di lavoro, l'alloggio incongruo e la situazione di necessità dei lavoratori, non configurano il reato di schiavitù disciplinato dall'art. 600 c.p., a patto che il soggetto rimanga libero di determinarsi nelle proprie scelte esistenziali (Cassazione penale, sez. V, sentenza 10 febbraio-4 aprile 2011, n. 13532).

 

In sostanza, esiste una notevole area che si colloca tra le previsioni incriminatici con sanzioni penali gravi riguardanti casi di sfruttamento lavorativo che si manifestino con gli elementi della tratta, di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice penale e, su di un livello di gravità e deterrenza infinitamente più blando, le norme che attualmente puniscono l’utilizzo di lavoro irregolare, che possono essere ricondotte agli articoli 12 comma 5 e 22 comma 12 del D.Lgs. 286/1998 con riferimento ai lavoratori extracomunitari irregolari ovvero all’art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (meglio conosciuto come decreto attuativo della legge Biagi) con riferimento all’intermediazione clandestina di manodopera (attività meglio nota con il termine gergale di caporalato e punita finora con reato contravvenzionale, salvo quanto si dirà in seguito).

 

Su questo specifico tema, fino a non molti anni addietro sussisteva un sostanziale monopolio pubblico sul mercato del lavoro, cui conseguiva il divieto di ogni forma di intermediazione e di somministrazione di manodopera, la cui violazione integrava i reati previsti dapprima dall’articolo 27 della legge 29 aprile 1949, n. 264 e successivamente dagli articoli 1 e 2 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (che sanzionavano penalmente la condotta di chi, oltre ad agire come intermediario non autorizzato sul mercato del lavoro, si interponeva illecitamente tra lavoratore e datore di lavoro per l’intera durata del rapporto, mantenendo fittiziamente alle proprie dipendenze il personale utilizzato e lucrando sulle retribuzioni).

 

Questo assetto è stato modificato dall’introduzione del lavoro interinale da parte della legge 196/1997 e, successivamente, dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

 

Quest’ultimo intervento normativo, in particolare, ha consentito tra l’altro l’intermediazione nella prestazione di lavoro e la somministrazione di manodopera, seppure nell’ambito di una precisa cornice di regole. La giurisprudenza di legittimità, con orientamento consolidato, ha poi chiarito che l’abrogazione delle norme incriminatrici contenute nelle leggi 264/1949 e 1369/1960 non ha comportato l’abolizione dei reati posti a tutela del mercato del lavoro, atteso che le rispettive fattispecie devono ritenersi rivivere nelle disposizioni del menzionato articolo 18 del D.Lgs. 276/2003 (cfr. Cassazione IV, 20 ottobre 2010, Borelli, in Ced Cassazione Rv. 248861).

 

La difficoltà di reprimere le forme di sfruttamento lavorativo non rientranti nella tratta o comunque non necessariamente attinenti a profili di lavoro di migranti irregolari, ha indotto talune procure della Repubblica a cercare soluzioni residuali o “creative” applicando norme incriminatici di parte generale come, ad esempio, gli articoli 605, 610, 629, 572 c.p., che potenzialmente possono coprire determinate condotte di coercizione e sfruttamento poste in essere da datori di lavoro criminali.

 

Da più parti si era auspicato nel passato un intervento legislativo, nella cui assenza forme di sfruttamento lavorativo “intermedio” potevano solo dare corso a reati “bagatellari.

 

Se si guarda ai fenomeni con volontà di ricercare una qualche evoluzione legislativa si nota che le forme di sfruttamento riguardavano un tempo soggetti vulnerabili diversi dai migranti, vale a dire, donne, minori, lavoratori adibiti a mansioni particolari.

 

Possiamo partire da lontano e menzionare esempi “storici” a prescindere dalle tante sanzioni amministrative esistenti.

 

Si pensi all’art 12 lett. A) del dlgs 532/1999 in relazione all’art. 89 co.2 lett.a e 5 del dlgs 626/94 in materia di lavoro notturno (nello specifico omesse cure e adempimenti sanitari in favore dei lavoratori notturni, con sanzione penale dell’arresto da 3 a 6 mesi o dell’ammenda da 1549 a 4.131).

 

Il Dlgs 26.3.2001, n. 151 in tema di tutela della maternità e paternità che ha modificato la legge 30.12.1971 n. 1204 (tutela delle lavoratrici madri). Le sanzioni dell’art. 18 in relazione agli artt. 16 e 17 (divieti di adibire al lavoro le donne prima e dopo la maternità) prevedono l’arresto fino a 6 mesi.

 

L’art. 16 della legge 9.12.1977, n. 903 (come sostituito dal dlgs 758/1994) in relazione all’art. 5 (circa il lavoro notturno del lavoratore avente a carico un disabile) e in relazione all’art. 1 (come sostituito dalla legge comunitaria 1998 in materia di parità di trattamento tra uomini e donne) che prevede l’ammenda da 103 a 516 euro oppure l’arresto da 2 a 4 mesi e ammenda da 516 a 2582 euro.

 

La legge 17.10.1967, n. 977 (tutela del lavoro dei fanciulli e adolescenti) e relative sanzioni di cui all’art. 26 (in relazione a: tipologie di lavoro, età minima, orario di lavoro, riposi, lavoro notturno, controlli sanitari e di sicurezza) che prevede l’arresto fino a sei mesi e/o 5.164 euro di ammenda.

 

L’art. 13 in relazione all’art. 2 della legge 18.12.1973 (in tema di violazioni del committente di lavoro a domicilio) che prevede l’arresto fino a 6 mesi.

 

L’art. 38 dello Statuto dei lavoratori (in relazioni a controlli discriminatori e pervasivi) che prevede l’ammenda da 154 a 1549 euro o l’arresto da 15 giorni a 1 anno.

 

Si tratta di alcuni riferimenti esemplificativi a norme che tutelano condotte di datori di lavoro che si avvalgono di lavoratori “vulnerabili” e ne sfruttano tale debolezza in violazione di precisi obblighi di legge. Sono condotte riconducibili al concetto di sfruttamento, in conseguenza di relazioni “impari” tra datori di lavoro “forti” e lavoratori “deboli”. Ma le sanzioni penali attengono a contravvenzioni e dunque sono prive di una reale efficacia deterrente. La tutela del lavoro dalle forme di sfruttamento, che sono amplificate dal mercato del lavoro depresso o sregolato, è una precisa esigenza posta dall’art. 36 Cost.[29].

 

5. Il progetto di legge C2784 della XV^ legislatura e la definizione di grave sfruttamento lavorativo

 

Nella precedente legislatura venne esaminato alla camera dei deputati, dopo essere stato approvato al senato, il progetto di legge n. 2784, che non divenne legge perché la legislatura si interruppe prematuramente. Questo progetto, dal titolo interventi per il contrasto del lavoro irregolare mirava a colmare le evidenti lacune sopra esposte, principalmente attraverso l’introduzione di una norma, l’articolo 603bis c.p., dal seguente tenore:

 

(Grave sfruttamento dell'attività lavorativa) - salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque recluti lavoratori, ovvero ne organizzi l'attività lavorativa, sottoponendo gli stessi a grave sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, anche non continuative, esercitate nei confronti del lavoratore sottoposto a condizioni lavorative caratterizzate da gravi violazioni di norme contrattuali o di legge ovvero a un trattamento personale degradante, connesso alla organizzazione e gestione delle prestazioni, è punito con la reclusione da tre a otto anni, nonché con la multa di euro 9.000 per ogni persona reclutata o occupata. La pena è aumentata se tra le persone reclutate o occupate di cui al precedente periodo vi sono minori degli anni diciotto o stranieri irregolarmente soggiornanti.

 

La condanna per il delitto di cui al primo comma comporta:

 

    a) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, per il periodo di un anno;

    b) la perdita del diritto di beneficiare di qualsiasi agevolazione, finanziamento, premio, restituzione e sostegno regionale, delle province autonome, nazionale e comunitario per l'anno o la campagna a cui si riferisce l'illecito accertato e la revoca dei suddetti benefìci già concessi per il medesimo anno o campagna. Nel settore agricolo si applicano, a tale fine, l'articolo 33 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, e successive modificazioni, e l'articolo 3, comma 5, della legge 23 dicembre 1986, n. 898;

    c) ove si accerti l'occupazione di almeno un lavoratore straniero irregolarmente soggiornante sul territorio nazionale, la sospensione delle attività dell'unità produttiva interessata per un mese, con esclusione delle attività concernenti cicli biologici agricoli o di allevamento del bestiame».

 

Questo progetto di art. 603bis c.p., intendeva sanzionare tutti coloro che reclutano lavoratori, ovvero ne organizzano l'attività lavorativa, sottoponendoli a grave sfruttamento mediante violenza o minaccia o intimidazione (anche non continuative) e le cui condizioni di lavoro costituiscono violazione di norme contrattuali o di legge o sono, comunque, considerate condizioni degradanti. La norma puniva tanto i datori di lavoro, quanto gli intermediari (c.d. “caporali”).

 

In relazione a tale disposizione si osserva che la fattispecie in esame configurava espressamente come alternative le tre ipotesi, con la conseguenza che ai fini della configurabilità del reato in esame e della applicabilità della relativa sanzione sarebbe stato sufficiente che allo sfruttamento mediante violenza o minaccia o intimidazione si associasse uno solo dei tre predetti comportamenti.

 

Questa formulazione si sostituiva ad una precedente versione presentata al senato – simile a quella introdotta con il d.l. 138/2011 - in cui era presente un discutibile automatismo tra la sussistenza di alcuni presupposti (previsione di una retribuzione ridotta di oltre un terzo rispetto ai minimi contrattuali, sistematiche e gravi violazioni della disciplina in tema di orario di lavoro e di riposi, gravi violazioni della disciplina in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, reclutamento e avviamento al lavoro tramite intermediazione abusiva) e sussistenza del reato.

 

Erano previste poi una serie di ulteriori innovazioni, quali:

 

    un aumento di pena ove tra i lavoratori gravemente sfruttati vi fossero minori o stranieri irregolarmente soggiornanti;

    sanzioni interdittive conseguenti alla condanna quali: l’incapacità per un anno di contrattare con la PA; la perdita di agevolazioni, premio, finanziamenti, la sospensione dell’unità produttiva per un mese, in caso venisse accertata l’occupazione di almeno un lavoratore straniero irregolarmente soggiornante;

    la modifica dell'articolo 380, comma 2, lettera d), del codice di procedura penale, consentendo così l’applicabilità dell’art. 18 del D.lgs. 286/98;

    la modifica della disciplina sanzionatoria relativa ai datori di lavoro che occupano lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti, con intervento sul comma 12 dell’articolo 22 TU in materia di immigrazione (d.lgs. 286/1998);

    l’introduzione di una nuova fattispecie di reato riguardante il datore di lavoro che utilizzi lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti usufruendo di un'attività di intermediazione abusiva di manodopera ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, recante riforma della disciplina in materia di occupazione e mercato del lavoro;

    la possibilità che, a fini cautelari, venisse disposto il sequestro del luogo di lavoro (ai sensi dell’art. 321 c.p.p.) in cui risulti occupato il lavoratore straniero che versi nelle condizioni sopra esposte;

    l’estensione delle pene accessorie previste per il progettato art. 603 bis c.p. alle sopra esposte nuove norme incriminatrici;

    l’estensione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche di cui al decreto legislativo n. 231/2001.

 

Orbene, con questo intervento legislativo sarebbe stata prevista una griglia abbastanza completa di risposte sanzionatorie in un ambito (il grave sfruttamento lavorativo) che ne aveva forte esigenza. Il tutto nell’ottica della tutela di diritti fondamentali delle persone adibite al lavoro e con la corretta valorizzazione degli strumenti di assistenza e protezione, tenendo ben presente che la grande parte delle situazioni di sfruttamento lavorativo, posto in essere, magari per il tramite di “caporali etnici” (cioè della stessa nazionalità o origine geografica dei lavoratori assunti e sfruttati), da tanti datori di lavoro senza scrupoli, se non collusi con la criminalità organizzata, trova una sponda nelle lacune del testo unico in materia di immigrazione, con particolare riferimento al sistema degli ingressi nel territorio dello Stato e della stipula dei contratti di lavoro, quale presupposto per l’ottenimento del permesso di soggiorno e della permanenza in Italia.

 

6. L’art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, che introduce l’art. 603bis del codice penale

 

Senonchè, alla fine, nei convulsi giorni dell’estate 2011, caratterizzata dall’annaspare faticoso di un legislatore proteso alla ricerca di manovre finanziarie in grado di restituire fiducia agli investitori internazionali e nuova spinta ad un’economia italiana in grave crisi, vedevano la luce gli articoli 603bis e 603ter del codice penale[30], con caratteristiche che sono ben diverse da quelle che avevano impegnato il parlamento nella precedente legislatura e, soprattutto, lasciando profondi dubbi circa la concreta applicabilità della nuova incriminazione e circa la sua effettiva utilità rispetto alle esigenze.

 

Finalmente il legislatore ha riconosciuto l’esistenza di una terra di nessuno nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro, individuando la mancanza di un’incriminazione in grado di punire le condotte che rientrano nella mera violazione delle regole poste dall’art. 18 del D.lgs. 276/2003 (che ora diviene davvero residuale) ma non integrano i reati di cui agli art. 600, 601, 602 c.p.. Il reato così introdotto si pone a livello intermedio in termini di disvalore e di risposta sanzionatoria, come testimonia la clausola introduttiva di sussidiarietà per il caso che il fatto costituisca un più grave reato.

 

Correttamente il nuovo reato viene inserito nella prima sezione del capo III del titolo XII della parte speciale del codice penale dedicata ai reati contro la libertà individuale. Il bene tutelato è la stessa dignità umana, offesa dalla privazione della libertà e dalla mercificazione dell’essere umano.

 

Ciò è in linea con l’idea del grave sfruttamento del lavoro inteso come lesione di un diritto fondamentale dell’uomo[31].

 

La condotta tipica del nuovo reato è quella di chi svolge un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera ovvero organizzandone il lavoro in maniera caratterizzata dallo sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, nonché approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori.

 

Appare evidente l’intento del legislatore di proporre una formulazione restrittiva e ciò costituisce il principale motivo di perplessità.

 

Non è agevole capire quale sia il rapporto sussistente tra la condotta tipica di intermediazione e la specificazione: reclutando manodopera ovvero organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento. La lettura della norma prima facie indurrebbe a ritenere che restino fuori dall’ambito della norma incriminatrice le condotte di reclutamento e organizzazione tenute direttamente dall’utilizzatore (quindi dal datore di lavoro) senza ricorrere all’interposizione di altri soggetti. In questo senso si può dire che l’art. 603bis c.p. sembrerebbe prevedere un reato proprio dell’intermediario (in gergo caporale) sia egli di fatto, o sia abilitato all’attività di intermediazione secondo le regole del D.lgs. 276/2003.

 

E se questa è la scelta legislativa, allora essa è senza dubbio miope, poiché non colma le lacune sanzionatorie già descritte, del tutto evidenti, invece, ove si comprenda la fenomenologia del grave sfruttamento lavorativo, poiché accade sovente che l’intermediario (caporale) sia persona in accordo con il datore di lavoro, che si pone nei confronti di quest’ultimo addirittura come figura subordinata nella scala criminale[32].

 

Peraltro, le azioni descritte nelle specificazioni non forniscono una definizione specifica dell’attività di intermediazione, ma contribuiscono a completare il concetto di condotta tipica. Ma se l’interpretazione conduce alla sopra esposta soluzione riduttiva, non può non rilevarsi come il concetto di intermediazione e dunque di reclutamento, sia diverso da quello di organizzazione, che attiene allo svolgimento del rapporto di lavoro e dovrebbe essere, invece, di autonoma pertinenza del datore di lavoro, se non in casi residuali[33]. Per fare un esempio pratico, anche ove il caporale non si limitasse al reclutamento dei braccianti, ma si occupasse anche di raggrupparli quotidianamente e di condurli sui luoghi di lavoro, di esigere una quota sulla paga, di alloggiarli in apposite strutture, non si può dire che questa attività aggiuntiva riguardi l’organizzazione del lavoro, che invece è decisa e stabilita dal datore di lavoro, quanto ad orari, modalità, riposi, retribuzione, etc..

 

Peraltro, il momento maggiormente degradante del lavoro sfruttato non è quello dell’intermediazione, bensì quello dell’organizzazione – che si traduce poi nelle prestazioni sinallagmatiche tra datore e prestatore d’opera. E’ ovvio, anche in base all’interpretazione riduttiva ed alla luce dei principi del concorso di persone nel reato che, ove il datore di lavoro sia a conoscenza dei metodi svolti concorra nel reato commesso dall’intermediario da lui incaricato e/o utilizzato. Inoltre, il legislatore richiede che la condotta sanzionabile sia quella di una intermediazione svolta in maniera “organizzata”, mediante attività specifiche alternative quali la violenza, la minaccia e l’intimidazione, nonché mediante l’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori[34]. Ma l’organizzazione dell’intermediazione è cosa diversa dall’organizzazione del lavoro,che compete al datore.

 

Nel progetto di legge non approvato e sopra illustrato, si proponeva di punire chiunque recluti lavoratori, ovvero ne organizzi l'attività lavorativa, con la previsione di una opzione alternativa – attraverso il termine ovvero - tra la condotta di reclutamento e la condotta di organizzazione, potenzialmente realizzabili dall’intermediario o dal datore di lavoro. Il soggetto della frase (chiunque) poteva agire reclutando i lavoratori ovvero organizzandone l’attività. E’ evidente la differenza – in peius in termini di chiarezza – rispetto all’espressione chiunque svolga un’attività di intermediazione, reclutando manodopera ovvero organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, laddove il soggetto (chiunque) è colui che svolge un’attività di intermediazione, sia reclutando i lavoratori, sia organizzandone l’attività di lavoro.

 

Ma anche in questo caso, vista l’espressione ovvero (forma rafforzata della congiunzione disgiuntiva o, usata soprattutto quando il secondo termine, a cui si premette, è costituito da un’intera proposizione, secondo il dizionario Treccani online) che rende “l’organizzazione” aggiuntiva e/o alternativa rispetto al “reclutamento” e non già esplicativa di esso, l’unica interpretazione logica e ragionevole è quella per cui l’inciso ovvero organizzandone l’attività lavorativa deve poter essere riferito anche al datore di lavoro. Diversamente, la scelta legislativa, oltre che miope, sarebbe irragionevole.

 

Il comma 2 del nuovo articolo 603bis tenta di definire il concetto di sfruttamento che caratterizza l’attività lavorativa oggetto della condotta di organizzazione. Il metodo utilizzato era già stato criticato in occasione dei dibattiti su precedenti disegni di legge che lo propugnavano, per la sua estrema aleatorietà. Gli indici rivelatori dello sfruttamento sono:

 

    a) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

    b) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

    c) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale;

    d) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

 

Sembra, in buona sostanza, che ancora una volta il legislatore scarichi sull’opera interpretativa della giurisprudenza il compito di far luce su norme oscure. Non sarà semplice capire quando la retribuzione è palesemente difforme o sproporzionata, e sarà di certo critico il rilevamento di violazioni alla normativa antinfortunistica che – per loro natura – espongono sempre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale. Inoltre, l’indice formulato sub d) rivela la potenziale debolezza della nuova incriminazione rispetto a quella di cui all’articolo 600 c.p., rispetto alla quale è sussidiaria e cedevole in virtù della citata clausola di riserva.

 

Anche in questo caso occorre indirizzare l’interpretazione verso l’unica strada che non risulti irragionevole. Gli indici di sfruttamento di cui al comma 2 servono a qualifica la condotta tipica (anzi, ne fanno parte) indicata al comma 1. Tutti gli indici possono essere riferiti solo ad un potenziale datore di lavoro, raramente ad un intermediario; in particolar modo quello di cui alla lettera C) (violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro) rispetto al quale qualsiasi intermediario non può avere una diretta responsabilità o competenza.

 

Per quanto attiene all’elemento psicologico del reato, per il perfezionamento del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è richiesto il dolo generico, il cui oggetto comprende tutti gli elementi della fattispecie, essendo dunque necessario che l’agente, oltre a volere la condotta tipizzata nel l’articolo 603bis con le relative modalità esecutive, consideri anche lo stato di bisogno e di necessità del lavoratore.

 

Al comma 3 della nuova norma vengono introdotte tre circostanze aggravanti a effetto speciale. La prima di esse riferisce al caso in cui vengano reclutati più di tre lavoratori. La seconda aggravante riguarda il caso che vengano impiegati minori in età non lavorativa, con una specificazione del tutto desueta ed ancorata alle norme civilistiche (la soglia dell’età lavorativa) piuttosto che alla tutela generale del minore, senza distinzioni.

 

L’ultima circostanza aggravante si ha nel caso in cui i lavoratori reclutati vengano esposti a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle prestazioni lavorative ed alle condizioni di svolgimento del lavoro.

 

Per questa ultima circostanza si ripetono le stesse perplessità di indeterminatezza del concetto di “situazioni di grave pericolo” che sono state riscontrate a proposito degli indicatori di sfruttamento menzionati nel secondo comma della norma.

 

Il legislatore ha introdotto per il delitto in esame le seguenti pene accessorie:

 

    l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, verosimilmente da intendersi quale interdizione temporanea di pari durata alla pena principale inflitta;

    il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti;

    l’esclusione per un periodo di due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonché dell’Unione europea, relativi al settore di attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento.

 

Si tratta delle medesime pene accessorie previste anche per il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.) per i casi in cui lo sfruttamento abbia a oggetto prestazioni lavorative. A prescindere dalla considerazione che anche in questo caso il tipo di pene accessorie previste sembrerebbe essere pensato anche per il datore di lavoro e non già per il mero intermediario nel reclutamento, ciò costituirebbe l’ennesima incongruenza del legislatore. Infatti, ad intendere sanzionabile la sola condotta dell’intermediario, si avrebbe la conseguenza che il severo trattamento sanzionatorio accessorio sarebbe uguale sia verso chi commette il delitto di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e sia verso chi svolge il ruolo di intermediario ex art. 603bis c.p., ma sarebbe insussistente nei confronti del datore di lavoro che sottoponga a grave sfruttamento lavorativo il prestatore d’opera, senza ausilio di caporali, condotta questa relegata nella più volte citata “zona grigia”.

 

Si tratta di una irrazionalità talmente forte da far propendere, per ragioni logiche e sistematiche ed in virtù della normativa sovranazionale di riferimento, verso la diversa soluzione interpretativa più volte suggerita che, però, dovrà nel tempo ricevere l’eventuale avallo giurisprudenziale.

 

(Altalex, 26 settembre 2011. Articolo del dott. David Mancini, Procura della Repubblica di L'Aquila)

 

________________

 

[1] Cfr. UNODC, Office on Drug and Crime, Trafficking in persons: global patterns, aprile 2006, cit..

 

[2] L’Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che per il periodo 2004 2008, 215 milioni di bambini sono stati coinvolti nel lavoro minorile in tutto il mondo, si veda: OIL, Accelerare l'azione contro il lavoro minorile (Ginevra, 2010).

 

[3] EUROPOL, OCTA 2009. EU Organised Crime Threat Assessment (L'Aia, 2009).

 

[4] ILO, A Global Alliance against Forced Labour (Geneva, 2005).

 

[5] F. Carchedi, G. Mottura, E. Pugliese (a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2005.

 

[6] F. Carchedi, Slave Labour. Some aspects of the phenomenon in Italy and Spain, The Federation of Protestant Churches in Italy, Rome, 2011; T. Moritz, L. Tsourdi (a cura di), Combating Trafficking for Forced Labour in Europe, CCME, Bruxelles, 2011; F. Carchedi (a cura di), Schiavitù di ritorno. Il fenomeno del lavoro gravemente sfruttato: le vittime, i servizi di protezione, i percorsi di uscita, il quadro normativo, Maggioli Editore, 2010; A. Morniroli (a cura di), Vite clandestine, Gesco edizioni, Napoli, 2010; A. D’Angelo, M. Da Pra Pocchiesa, O. Obert (a cura di), Se è vero che non si vuole il lavoro nero. La tratta e il grave sfruttamento sui luoghi di lavoro, Pagine. Il sociale da fare e pensare, n. 2/2010, Torino; P. Minguzzi, R. Ciarrocchi, Sfruttamento lavorativo e nuove migrazioni, Franco Angeli, Milano, 2008; A. Leogrande, Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano, 2008; F. Carchedi, F. Dolente, T. Bianchini, A. Marsden, La tratta a scopo di grave sfruttamento lavorativo, in F. Carchedi, I. Orfano (a cura di), La tratta di persone in Italia. Il fenomeno e gli ambiti di sfruttamento, Franco Angeli, Milano, 2007.

 

[7] F. Carchedi, I. Orfano (a cura di), La tratta di persone in Italia. Il fenomeno e gli ambiti di sfruttamento, cit.

 

[8] Sulla gestione criminale delle dinamiche e delle rotte del migrante, e per riferimenti anche bibliografici sul tema si veda D. Mancini, Tratta di persone e traffico di migranti. Azioni di contrasto e tutela dei diritti umani, Franco Angeli, Milano, 2009.

 

[9] F. Carchedi, F. Dolente, T. Bianchini, A. Marsden, La tratta a scopo di grave sfruttamento lavorativo, cit..

 

[10] In quest’ottica si colloca la direttiva 2009/52/ce del parlamento europeo e del consiglio del 18 giugno 2009 che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.

 

[11] Questa nozione tuttora valida è tratta dalla Convenzione OIL contro il lavoro forzato N. 29 del 1930, seguita dalla Convenzione n. 105 del 1957 in tema di abolizione del lavoro forzato, di seguito analizzate. Punto di riferimento in materia è tuttora costituito dall’azione dell’OIL, dalle convenzioni adottate in materia e da ultimo dalla Dichiarazione sui principi fondamentali e sui diritti nel lavoro del 1998. Si veda per un maggiore approfondimento: A global alliance forced labour, cit.; Human trafficking and forced labour exploitation, Guidance for legislation and law enforcement, Ginevra, 2005; Legal aspect of trafficking for forced labour purposes in Europe, Ginevra, 2006; Trafficking for forced labour: how to monitor the recruitment of migrant workers, Ginevra 2006; Forced labour and human trafficking, casebook of court decisions, Ginevra, 2009, tutti reperibili sul sito www.ilo.org.

 

[12] Nel 2010 più di 12.000 aziende si sono impegnate - direttamente o tramite le loro associazioni di settore - alla lotta contro la tratta degli esseri umani con la firma del protocollo contenente i Principi etici di Atene, che propone una politica di tolleranza zero verso qualsiasi azienda o organizzazione che benefici del traffico di esseri umani (si veda www.ungift.org/docs/ungift/pdf/Athens_principles.pdf).

 

[13] Per una visione attuale, v. Combating trafficking as modern-day slavery: a matter of rights, freedoms and security, 2010 OSCE Annual Report of the Special Representative and Coordinator for Combating Trafficking in Human Beings, Vienna, 2010.

 

[14] nel 2006 e 2007, gli Stati partecipanti all'OSCE hanno adottato due decisioni del Consiglio dei Ministri sul traffico per lo sfruttamento del lavoro che, tra l'altro, richiedono un aumento della strategia multiagenzia di cooperazione e interazione sui temi tra funzionari dell'immigrazione, forze dell'ordine, magistrati, funzionari e prestatori di servizi sociali, per prevenire la tratta e proteggere i diritti delle vittime di tratta e grave sfruttamento lavorativo.

 

[15] M. G. Giammarinaro, Il permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale previsto dall’art. 18 del t.u. sull’immigrazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1999, 4; Virgilio, Lavori in corso nei dintorni dell’immigrazione: art. 18 e leggi in tema di traffico di esseri umani e prostituzione, ivi, 2003, 1; V. Tola, La tratta di esseri umani: esperienza italiana e strumenti internazionali, nel secondo Rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Roma, 2000. D. Mancini, Traffico di migranti e tratta di persone, tutela dei diritti umani e azioni di contrasto, cit., 75 ss.

 

[16] Documenti consultabili sul sito www.csm.it.

 

[17] Si vedano le Linee Guida per lo Sviluppo di un Sistema Transnazionale di Referral per le Persone Trafficate in Europa, a cura del Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e di International Centre for Migration Policy Development (ICMPD), Vienna, 2010. Il concetto di National Referral Mechanism è stato originariamente sviluppato dall’OSCE/ODIHIR in Sistema Nazionale di Referral. Provvedere ai Diritti delle Persone Trafficate. Guida Pratica, Varsavia, 2004 ed oggi è espressamente richiamato dalla nuova direttiva europea antitratta del 5 aprile 2011.

 

[18] Sui rapporti tra Convenzione OIL n. 29 e protocollo addizionale si veda D. Mancini, Tratta di persone e traffico di migranti, cit. pag. 92 e ss.

 

[19] A tale proposito rileva l’osservazione individuale da parte del Comitato di esperti sull'applicazione delle convenzioni e Recommendations concerning Convention No. 29, Forced Labour, Bangladesh, 86th Session, Geneva, raccomandazioni in materia di convenzione n. 29, lavoro forzato, secondo cui , dato che la convenzione, adottata nel 1930, prevedeva la soppressione di lavoro forzato nel più breve tempo possibile, essendo trascorsi 67 anni dopo la sua adozione (alla data del parere del Comitato) la sussistenza di contrasti con le norme della convenzione equivale ad una sua violazione.

 

[20] Article 3 provides, in part, that:L'articolo 3 prevede che: For the purposes of this Protocol:Ai fini del presente protocollo per:

 

(a) 'Trafficking in persons' shall mean the recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of persons, by means of the threat or use of force or other forms of coercion, of abduction, of fraud, of deception, of the abuse of power or of a position of vulnerability, or of the giving or receiving of payments or benefits to achieve the consent of a person having control over another person for the purpose of exploitation.(A) Tratta di persone' si intende il reclutamento, trasporto, trasferimento, l'ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o all'uso della forza o altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un'altra persona a scopo di sfruttamento. Exploitation shall include, at a minimum, the exploitation of the prostitution of others or other forms of sexual exploitation, Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, forced labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs; lavoro forzato o servizi, schiavitù o pratiche analoghe, l'asservimento o il prelievo di organi;

 

(B) il consenso di una vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui alla lettera (a) del presente articolo è irrilevante in uno qualsiasi dei mezzi di cui alla lettera (a) sono stati utilizzati.

 

[21] Ad esempio, si pensi allo statuto del Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex Yugoslavia del 1993 ed allo statuto della Corte penale internazionale di Roma del 1998.

 

[22] Per un commento sul punto si veda D. Mancini, Il cammino europeo nel contrasto alla tratta di persone, in Diritto penale e processo, 9/2010.

 

[23] Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L. 101/7 del 15.4.2011.

 

[24] L’art. 2 della nuova direttiva UE descrive una serie di condotte rientranti nel fenomeno della tratta degli esseri umani, in linea con la definizione dell’art. 3 del protocollo addizionale ONU sul trafficking:

 

- Reati relativi alla tratta di esseri umani:

 

1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano punibili i seguenti atti dolosi: il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento.

2. Per posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima.

3. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, compreso l’accattonaggio, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù, lo sfruttamento di attività illecite o il prelievo di organi.

4. Il consenso della vittima della tratta di esseri umani allo sfruttamento, programmato o effettivo, è irrilevante in presenza di uno dei mezzi indicati al paragrafo 1.

5. La condotta di cui al paragrafo 1, qualora coinvolga minori, è punita come reato di tratta di esseri umani anche in assenza di uno dei mezzi indicati al paragrafo 1.

6. Ai fini della presente direttiva per «minore» si intende la persona di età inferiore ai diciotto

 

[25] Vedi: www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/jha/114900.pdf.

 

[26] Sulla necessità di definire il reato di riduzione in schiavitù e di tratta in sintonia con la normativa sovranazionale, già Cass. pen. Sez. III, 28 ottobre 2006, n. 2841, in cass. pen. 2007, 12, 4587.

 

[27] Considerazioni rilevabili anche su Europol public information (Annex III, Legislation on trafficking in human beings, 2005.

 

[28] Cfr. Forced labour and human trafficking, casebook of court decisions, ILO, Ginevra, 2009.

 

[29] Cassazione civile sez. lav. 15 febbraio 2008, n. 3868 in Guida al diritto 2008, 44, 68.

 

[30] Art. 12

 

Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro 1. Dopo l'articolo 603 del codice penale sono inseriti i seguenti:

 

«Art. 603-bis (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). - Salvo che il fatto costituisca piu' grave reato, chiunque svolga un'attivita' organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l'attivita' lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessita' dei lavoratori, e' punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

 

Ai fini del primo comma, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o piu' delle seguenti circostanze:

 

1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantita' e qualita' del lavoro prestato;

2) la sistematica violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumita' personale;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

 

Costituiscono aggravante specifica e comportano l'aumento della pena da un terzo alla meta':

 

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o piu' dei soggetti reclutati siano minori in eta' non lavorativa;

3) l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

 

Art. 603-ter (Pene accessorie). - La condanna per i delitti di cui agli articoli 600, limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento ha ad oggetto prestazioni lavorative, e 603-bis, importa l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, nonche' il divieto di concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la pubblica amministrazione, e relativi subcontratti. La condanna per i delitti di cui al primo comma importa altresi' l'esclusione per un periodo di due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonche' dell'Unione europea, relativi al settore di attivita' in cui ha avuto luogo lo sfruttamento. L'esclusione di cui al secondo comma e' aumentata a cinque anni quando il fatto e' commesso da soggetto al quale sia stata applicata la recidiva ai sensi dell'articolo 99, secondo comma, numeri 1) e 3)».

 

[31] Fenomeno, ormai, più volte riconosciuto dalla Suprema Corte nel settore dello sfruttamento lavorativo “estremo”, rientrante nella previsioni degli artt. 600 e 601 c.p. (cfr. Cassazione penale sez. V, 24 settembre 2010, n. 40045; Cassazione penale sez. V, 13 novembre 2008, n. 46128).

 

[32] Nello stesso senso si veda R. Bricchetti – L. Pistorelli, Caporalato: per il nuovo reato pene fino ad 8 anni, in Guida al diritto, 35/2011. Si veda, pure, la relazione dell’ufficio del Massimario della Corte di cassazione, n. III/11/2011, Roma, 5 settembre 2011, avente per oggetto Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Considerazioni introduttive.

 

[33] nel caso di soggetti titolari di una propria organizzazione autonoma, che professionalmente assumano appalti regolari di opere e servizi, qualora in concreto pongano in essere un contratto di fornitura di manodopera, che di fatto si traduca in una gestione complessiva delle prestazioni lavorative per conto del datore di lavoro (ad esempio nel caso in cui il datore di lavoro interposto adotti un modello organizzativo nuovo del lavoro dei dipendenti attraverso l'introduzione fittizia della figura di un responsabile a cui fanno capo i principali elementi organizzativi - cfr. Cassazione civile sez. lav., 15 febbraio 2008, n. 3861).

 

[34] Appare essenziale sottolineare che l’interpretazione della locuzione stato di bisogno o di necessità, rimanda alle elaborazioni della suprema Corte circa il più grave reato di riduzione in schiavitù (Cassazione penale sez. III 6 maggio 2010, n. 21630, in cass. pen. 2011, 4, 1443) secondo cui la situazione di necessità, il cui approfittamento costituisce condotta integrante il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale atta a condizionare la volontà della vittima (art. 644, comma 5 n. 3, c.p.) e non va confusa con lo "stato di necessità" di cui all'art. 54 c.p. (si veda anche Cassazione n. 13734 del 2009, Cassazione n. 4012 del 2006, Cassazione 2841 del 2007, Cassazione n. 3368 del 2005).

 

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