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di Lorenzo Sacconi

Non stupisce in un paese con un ceto politico in così grave deficit di legittimazione (scelto non dagli elettori, ma dalla direzioni di partito, con scarsissima capacità decisionale di fronte alla crisi, e numerosi casi di affarismo e nuova corruzione), che l’idea di meritocrazia abbia un certo seguito. D’altra parte era così già nell’antichità.

 

Di fronte ai rischi di corruzione del “governo dei molti” (democrazia) Aristotele preferiva appunto la meritocrazia, il “governo dei meritevoli”.

Il problema è che non è tanto facile capire in cosa dovrebbe consistere tale governo dei  “meritevoli”, poiché il merito è un concetto vuoto: il “merito” è agire secondo un ideale di virtù? Conformarsi pienamente alle norme sociali o alle aspettative altrui? Contribuire al bene generale? Per sapere chi sono i “meritevoli” occorre stabilire il criterio e la misura del merito.  Finché  si tratta di assegnare i voti a un esame universitario la cosa è abbastanza facile. Non così quando il merito è usato come parola chiave per la giustizia distributiva o la selezione delle élites. Inoltre il vecchio sistema meritocratico - concorsi per titoli ed esami - non gode di buona stampa (specie tra i neoliberisti), se è vero che i gruppi professionali che ne fanno uso sono oggi dipinti come dei “redditieri” che si avvantaggiano di procedure di selezione non meritocratiche.

Che c’entra allora il liberismo con la meritocrazia? E’ che nella polemica contro ogni procedura di scelta collettiva, sia delle istituzioni pubbliche che della società civile, non riconducibile al mercato, i liberisti propongono una ricetta apparentemente semplice per la meritocrazia (si veda Alesina e Giavazzi , Il liberismo è di sinistra, 2007):  merito è ciò che prevale in una competizione di mercato. Più in dettaglio la tesi potrebbe essere così articolata: 1) la misura del merito è  il successo in una competizione di mercato o analoga al mercato; 2) remunerare in base al merito significa dare premi (prevalentemente monetari o assimilabili) sulla base dei risultati ottenuti dagli individui in una competizione di mercato o analoga, 3) per incentivare al miglioramento delle prestazioni e allo sfruttamento dei “talenti” occorre prevedere incentivi monetari mediante  premi (e sanzioni) assegnati in base al risultato in una competizione di mercato o analoga, poiché gli individui cercheranno di “meritarsi” tali premi (ed evitare le sanzioni) attraverso i loro comportamenti competitivi.

Gli economisti di solito valorizzano la concorrenza (dove essa funziona) come criterio di allocazione efficiente delle risorse, senza badare al “merito”. I liberisti vogliono invece dare un tono “moralistico” alla concorrenza. Così suggeriscono che la concorrenza (un meccanismo/istituzione economica) definisca il merito (un concetto morale) e propongono quindi di introdurre la  concorrenza in ambiti ove tradizionalmente essa non veniva impiegata.

Ecco alcuni esempi. Il merito dei CEO (Chief Executive Officer) in imprese quotate, banche e operatori finanziari si misura dallo shareholder value guadagnato sul mercato finanziario. La loro remunerazione è meritocratica se sono pagati in base allo shareholder value, e per incentivarli ad agire meritoriamente dovrebbero  essere premiati con stock options o analoghi “schemi incentivanti”. I lavoratori, in particolare i giovani, dovrebbero essere spinti a preferire lavori flessibili, a salario valibile, piuttosto che stabili, poiché solo i primi danno possibilità di “perseguire le priorie ambizioni” in base al merito, attraverso la concorrenza con gli altri lavoratori. Per questo occorre introdurre la libertà di licenziamento (come sanzione per chi de-merita). Nella pubblica amministrazione, dove la libertà di licenziamento è scarsa (ma i liberisti vorrebbero introdurla), occorre creare una competizione per premi monetari tra i dipendenti pubblici assegnati in base al “merito” (prestazione  individuale). Inoltre si potrebbe  alzare il livello di apprendimento di tutti gli studenti se le scuole fossero in concorrenza tra loro per vincite monetarie assegnate in base ai voti ottenuti dai migliori studenti (e di conseguenza fossero premianti anche gli insegnanti)  (cfr. Alesina e Giavazzi cit.). Le Università pubbliche non dovrebbero avere finanziamenti crescenti, ma anzi essere  tenute “a  stecchetto”, in modo da spingerle alla competizione per accaparrarsi le risorse scarse  in base al merito, e i professori non dovrebbero essere valutati sulla base del giudizio dei loro pari, ma sulla base del successo nella competizione per pubblicare sulle riviste con impact factor (IF) più alto, cioè di “maggior successo” nella comunità scientifica. 

La tesi che il merito si valuti in base al successo di mercato è di per sé abbastanza peculiare: perché il successo di mercato di un romanziere giallo dovrebbe essere indice di merito maggiore rispetto a quello di un autore di libri di filosofia per un pubblico colto più ristretto? Il successo (di mercato) di un chirurgo estetico è indice di maggiore merito rispetto a quello del medico di pronto soccorso del SSN,  che ogni notte salva vite umane? Il successo calcistico di Maradona era misura del suo “merito” o piuttosto sono i  gusti e l’istituzione sociale del calcio a trasformare una particolare dotazione naturale (che alternativamente servirebbe a dribblare arbusti sulla spiaggia) in un “talento” socialmente apprezzato?

Queste domande a parte, la verità è che quasi tutte le applicazioni neoliberiste della meritocrazia riguardano casi in cui la concorrenza e il mercato funzionano male come istituzioni volte all’allocazione delle risorse.  A ben vedere, il ragionamento che porta gli economisti a raccomandare  incentivi manageriali (ad es. stock options) per allineare gli interessi dei manager a quelli degli azionisti, ha poco a che fare col merito. Infatti, sarebbero “meritevoli” se, dato un compenso, anche in assenza di osservabilità dei loro comportamenti, applicassero il miglior sforzo. Ma secondo questa visione i manager agiscono in modo opportunista. Essi cercano di avvantaggiarsi delle asimmetrie informative per lavorare poco e male. Per questo occorrerebbe prevedere incentivi che li spingano a fare, a costi molto più alti, ciò che altrimenti dovrebbero fare (e farebbero) a costi minori, se il loro sforzo fosse osservabile o se fossero veramente “meritevoli”. Dunque siamo chiaramente in presenza di un “fallimento” del contratto (mercato), che implica cosiddetti  “costi di agenzia”. Magari saranno necessari, ma che “merito” c’è a prendere quei premi?

D’altra parte, questa teoria, o la sua applicazione, ha dimostrato di essere fallace.  La spinta egoistica suscitata  dagli incentivi è così forte,  e le asimmetrie informative e l’incompletezza conoscitiva così spesse, da far operare gli incentivi in modo perverso. Già prima della crisi globale  era stato osservato (si vedano gli studi di Lucian Bebchuk) che non c’è stretta correlazione tra stock options pagate ai manager e livello di remunerazione degli azionisti nel lungo periodo. Ora sappiamo che gli incentivi  offerti ai manager delle imprese (specialmente finanziarie) li hanno spinti a prendere rischi eccessivi e a sottovalutare assurdamente la loro ignoranza circa i comportamenti improbabili, ma cionondimeno possibili, dei prodotti finanziari che maneggiavano. Nella gara cui partecipavano per la massimizzazione dello share value non c’erano premi legati al valore (reale, non solo finanziario) di lungo periodo creato per tutti gli stakeholder delle imprese. Una competizione a premi non può attendere così a lungo per conoscere i vincitori, e loro (per un lungo tratto di strada) avrebbero dovuto prendersi cura degli interessi altrui, oltre che dei propri. Più o meno come “fiduciari degli stakeholders”, cioè proprio l’idea che gli economisti neoliberisti hanno cercato di scartare, sostituendola con la dottrina del manager “agente” del solo principale/azionista - cui corrispondono gli schemi di incentivo (una dottrina finalmente in corso di superamento:  si vedano gli studi di Lynn Stout e Margaret Blair ).

 

 Quanto alla libertà di licenziamento come incentivo per migliori prestazioni dei lavoratori “flessibili” rispetto a quelli “garantiti”, come mai (potendo gli imprenditori ormai fare ricorso a molte varietà di contratti flessibili per far svolgere gli stessi lavori) i lavoratori licenziabili in media hanno remunerazioni più basse di quelli stabili? Se l’incentivo li rendesse più meritevoli,  dovendo essergli riconosciuto in aggiunta un premio assicurativo contro il “rischio di fallire” (licenziamento) per cause estranee alla loro volontà, perché non sono pagati più degli stabili? La verità è che le imprese sono istituzioni volte a favorire  investimenti in capitale umano specifico (il cui valore si prede se il lavoratore viene escluso) e spesso tali risorse sono essenziali per l’impresa e sono mutamente interdipendenti (tra lavoratori e management). Insomma la produttività è frutto del lavoro di squadra. Il contratto flessibile con libertà di licenziamento favorirebbe l’opportunismo dei proprietari  che si approprierebbero  del frutto degli investimenti specifici in capitale umano dei lavoratori, il che spingerebbe questi ultimi a non intraprendere tali investimenti (a causa del rischio di non vederne ripagati i costi). In molti casi  ciò si trasformerebbe in una perdita globale per l’impresa, perché la produttività delle risorse umane essenziali è interdipendente. Per fare investimenti in capitale umano i lavoratori hanno quindi bisogno di diritti che li garantiscano contro l’esclusione arbitraria, diritti che controbilancino la discrezionalità manageriale e imprenditoriale e consentano loro di beneficiare nel lungo periodo degli investimenti in capitale umano essenziale e specifico.

Per questo molte delle migliori imprese tendono salvaguardare contratti di lavoro con garanzie, che li rendono tendenzialmente life-long, e sono ben lontane dal praticare relazioni industriali basate sulla libertà di licenziamento. Si pensi a imprese tedesche campioni di esportazioni come la Volkswagen,  o le migliori imprese giapponesi, come Toyota o Canon, che hanno  abbandonato il modello di governance basato sul controllo bancario per passare all’azionariato diffuso, ma sono ben lungi dall’abbandonare i modello dell’impiego quasi “a vita” dei loro lavoratori essenziali  (si vedano a tale proposito gli studi di Masahiko Aoki ).

Il Ministro Brunetta ha cercato di applicare i dogmi della meritocrazia liberista al pubblico impiego,  stabilendo  di mettere i dipendenti pubblici in concorrenza tra loro in una gara a premi nella quale solo il 25%  meglio piazzato vince sostanziosamente, mentre un 25% dei dipendenti  perde necessariamente e rischia sanzioni. Siccome però la produzione degli uffici pubblici è largamente produzione di squadra, con produttività individuale difficilmente misurabile, ammesso e non concesso che i lavoratori pubblici  siano opportunisti,  l’unico incentivo efficace sarebbe quello valido per la squadra nel suo assieme (come dimostrato molti anni fa da Bengt Holmstrom). Se gli obbiettivi sono raggiunti, tutti dovrebbero avere il premio, ma se (a causa dell’opportunismo di qualcuno) l’obbiettivo è mancato, allora nessuno dovrebbe essere premiato. Regola  brutale, ma efficace,  a condizione che non sia il capo ad avere interesse a far fallire la squadra per “tenersi” il monte premi (questo è il rischio di un articolo come quello sulla sospensione del pagamento delle tredicesime ai pubblici dipendenti nelle amministrazioni che non raggiungano un obbiettivo di riduzione dei costi, che era presente nella manovra governativa di Ferragosto). Come ho suggerito altrove , invece,  gli incentivi liberisti di Brunetta spianano la strada al fallimento: il quarto di dipendenti perdenti, demoralizzato dal concorso a premi, si arrenderà, e la squadra di conseguenza fallirà nel suo assieme, ma gli incentivi dovranno comunque essere pagati ai “meritevoli”.

Quanto ai premi monetari assegnati a studenti e insegnanti, non c’è chi non veda che la soluzione più semplice per gli insegnanti – se la verifica della qualità è incerta - sarebbe dare voti più alti a tutti gli studenti, oppure specializzare gli studenti nella risoluzione dei test (non nella conoscenza delle materie),  in modo da massimizzare la probabilità di essere vincenti. Nel caso dell’Università la concorrenza per risorse sempre più scarse – in presenza di indicatori di qualità assai sommari – produce effetti opposti alle intenzioni.  Ad esempio, tutti gli atenei vogliono essere sede di dottorato di ricerca per avere punteggi “in base al merito” da spendere nella  competizione per le risorse.  Il risultato è che viene meno la collaborazione nello sviluppo di reti per realizzare dottorati congiunti, unico modo (per un paese come l’Italia) di avere pochi ma buoni dottorati in ciascun campo di specializzazione, piuttosto che tanti dottorati generalisti. La competizione tra giovani ricercatori per piazzare articoli sulle riviste con più alto impact factor (IF) si traduce nella frustrazione della stragrande maggioranza di loro, quando realizzano che la loro carriera dipenderà da commissioni che non leggono il loro lavoro, ma si affidano a punteggi bibliometrici legati alla notorietà di riviste, la probabilità di accesso alle quali (almeno per quelle  utilizzate ai fini delle  carriere nelle maggiori università americane) è  infinitesimale, anche perché risente di forti effetti di network (in pratica se l’autore  è inserito nel network relazionale  di coloro che fanno parte del comitato editoriale).

Più in generale, da oltre un decennio di sviluppo di economia comportamentale e sperimentale, sappiamo che il comportamento individuale nelle organizzazioni  “risponde” agli incentivi, ma con effetti talvolta inattesi. Infatti, oltre alle motivazioni auto interessate,  operano motivazioni di natura intrinseca e di conformità a norme sociali e principi deontologici condivisi, che sono efficaci in presenza di aspettative di reciproca conformità. Così lo sforzo, l’impegno e il contributo al lavoro di gruppo possono essere  ottenuti senza bisogno di incentivi materiali se ci aspettiamo che tutti facciano reciprocamente la loro parte. Al contrario, collegare statisticamente premi all’ adempimento di compiti già “dovuti” può ottenere l’effetto opposto, qualora sia percepito come uno scostamento dall’equità, che  “spiazza” gli incentivi intrinseci (non faremo mai più spontaneamente ciò per cui siamo pagati con un incentivo strumentale – si vedano ad es. gli studi di Bruno Frey sul crowding out).

Quali sono dunque i “costi” della meritocrazia neoliberista? A livello globale molto gravi: gli incentivi perversi dei manager della finanza hanno causato, assieme ad altre condizioni, la più grave crisi economica e finanziaria dopo la Grande Depressione degli anni ’30. Per il resto, in Italia essa ha avuto più che altro una funzione ideologica volta a giustificare provvedimenti restrittivi, che hanno tradito le aspettative degli stessi meritocratici. La riforma universitaria c.d. “Gelmini” prevede un meccanismo di premio basato sulla valutazione degli atenei e dei singoli, che resterà del tutto inattivo in un contesto di costante riduzione del finanziamento dell’Università, ove sempre più Atenei giungono alla soglia di paralisi dei bilanci, in cui possono coprire solo costi di personale incomprimibili. E’ chiaro che in queste condizioni (cui ha concorso la brillante idea di “affamare la bestia”) ci sarà ben poco margine per giocare con i premi. Analoga la sorte della riforma “Brunetta”.

Ci sono tuttavia costi nascosti: una pubblica amministrazione con impiegati  demoralizzati dal fatto di essere genericamente apostrofati come “fannulloni”, senza alcuna cura dell’etica del lavoro pubblico. Giovani ricercatori sempre più alienati rispetto al valore intrinseco della propria professione a causa della pratica di scegliere gli oggetti delle proprie ricerche  in base alla probabilità di fare “punteggio”, piazzando pubblicazioni su riviste ad alto IF, sfruttando quanto è possibile gli effetti di network, e sempre meno interessati al contenuto innovativo e al significato del proprio lavoro.

Ciò significa che il merito non trova posto nella teoria della  giustizia sociale e nelle sue politiche? Nient’affatto. Occorrerebbe però intanto separarlo  nettamente dal talento (per il quale – come suggerito da Rawls - non abbiamo alcun merito e quindi non giustifica nessuna  disuguaglianza, se non quelle minime indispensabili ad incentivarne l’uso volto a migliorare le condizioni, oltre che del “talentuoso”, anche e in massimo grado di chi sta peggio). Secondariamente, il criterio del merito relativo inteso come “contributo in base allo sforzo”, in una teoria della giustizia distributiva basata sul contratto sociale, ha un ruolo essenziale, ma logicamente subordinato al criterio della distribuzione basata sul bisogno relativo.  Come in una scelta a due stadi, prima ci accordiamo che diritti, i beni principali e le capacità vengano attribuiti in base ai bisogni relativi, poi – al secondo stadio - ci accordiamo su remunerazioni proporzionali ai contributi dati a ciascuna forma di cooperazione sociale cui partecipiamo, grazie all’impiego di quei diritti, beni principali  e capacità, che riflettono già i bisogni.

Da tali proposizioni discenderebbe un’agenda di politiche liberal-democratiche, non liberiste. Ma – come si dice – questa è un'altra storia (sulla quale, se i lettori di Nel merito lo ritengono interessante , si potrà tornare in seguito).

 

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