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DALLA LOCATIO SERVI AL RAPPORTO DI LAVORO QUALE RAPPORTO

 

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FONDAMENTALE di MATTEO BARIZZA

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Dalle origini al Code Napoléon. – 3. Dalla codificazione del

1865 al Codice Civile del 1942. – 4. Il rapporto di lavoro quale “rapporto complesso”.

– 5. Il rapporto di lavoro quale “rapporto fondamentale”. – 6. Osservazioni finali.

1. – PREMESSA.

Il rapporto di lavoro subordinato, nelle ipotesi fisiologiche di costituzione, trae

origine dal contratto di lavoro concluso tra la persona del lavoratore e quella del

datore, ma non si identifica in esso, rappresentando, quest’ultimo, semmai soltanto

l’elemento-fonte (il principale, ma non necessariamente l’unico) dell’articolato

rapporto che, per suo tramite, si viene ad instaurare.

Considerato nel diritto romano e sino all’avvento del codice civile del 1942 quale

rapporto di locazione e, successivamente e fin quasi ai giorni nostri, quale rapporto

complesso (ossia somma delle singole posizioni giuridiche dallo stesso nascenti), è

solo con l’elaborazione dottrinale degli ultimi decenni che si è giunti ad una

definizione che ha cercato di privilegiare una dimensione sostanzialmente unitaria,

anziché prettamente atomistica, del rapporto, approdando finalmente al concetto di

rapporto di lavoro quale rapporto fondamentale.

Le presenti note avranno il compito di tentare di ripercorrere brevemente tale excursus

storico, cercando di spiegare cosa di debba intendere per tale concetto e come ad esso

si sia pervenuti.

2

2. – DALLE ORIGINI AL CODE NAPOLÉON.

Il contratto con il quale ci si obbliga a prestare il proprio lavoro, sino all’avvento del

Codice Civile del 1942, poteva essere sistematicamente collocato nel novero del

contratto di locazione.

Origine di questa concezione era la locatio servi del diritto romano, che per molti secoli

ha rappresentato lo schema negoziale tipico per inquadrare lo svolgimento

dell’attività lavorativa da parte di uomini non liberi1.

La locatio servi poteva considerarsi al pari di ogni altra forma di locazione2, con la

quale si attribuiva temporaneamente la disponibilità ed il godimento di una res per un

determinato periodo di tempo dal locator al conductor in cambio di una mercede.

Unico elemento distintivo della locatio servi era la peculiarità dell’oggetto della

locazione, il servo appunto, giuridicamente considerato non come persona, ma come

res, indifferente rimanendo la funzione che della res ne venisse temporaneamente

fatta3.

La locazione del servus, per svariate finalità pratiche, fu presto accompagnata, con

l’ampliamento dell’impero romano ed i conseguenti sconvolgimenti economici e

sociali, dalla possibilità anche per il libertus (prima) e per l’uomo libero (poi), il

mercenarius, di locare la propria persona4.

La locatio servi divenne, pertanto, in questo periodo locatio hominis.

Per i romani era, quindi, normale considerare l’uomo, e non invece il proprio lavoro,

oggetto del rapporto giuridico di locazione. Solo in seguito all’opera di recupero e

1 Cfr. M. MARTINI, ‹‹ Mercenarius››. Contributo allo studio dei rapporti di lavoro in diritto romano, Milano,

Giuffrè, 1958, p.39, parla, in relazione all’utilizzo degli schemi negoziali consueti anche per le nuove

figure contrattuali, di economia giuridica dei Romani.

2 In questo senso cfr. V. ARANGIO – RUIZ, Istituzioni di diritto romano, 14a ediz., Napoli, Jovene, 1998, p. 345

ss., che dissente dalla dottrina dominante, secondo la quale il nome locatio conductio sarebbe comune a tre

contratti diversi: locatio conductio rei, locatio conductio operarum, locatio conductio operis.

3 Così G. SUPPIEJ, Il rapporto di lavoro – Costituzione e svolgimento, Padova, 1982, p.2; G. SUPPIEJ, M. DE

CRISTOFARO, C. CESTER, Diritto del lavoro – Il rapporto individuale, Padova, Cedam, 1998, p.1 ss.

4 In questo senso vedi F. M. DE ROBERTIS, I rapporti di lavori nel diritto romano, Milano, Giuffrè, 1946, p.130

ss.

3

rivalutazione della dignità umana operata dall’etica cristiana si giunse ad ammettere

quale oggetto del contratto di locazione non più l’uomo, ma le energie di lavoro, ossia

le operae; si inizia, pertanto, a parlare gradualmente di locatio operarum, quale esplicita

espressione tanto della incommerciabilità della persona, quanto delle operae quale

nuovo oggetto del contratto di lavoro5.

Il contratto di locazione delle operae si sarebbe enucleato, pertanto, gradatamente,

grazie, in principio, ad un primitivo contratto di messa a disposizione della persona:

dello schiavo (da parte del padrone) prima, del liberto ed infine dell’uomo libero6.

Successivamente il nome del contratto locatio-conductio inizia ad essere accomunato a

tre diverse figure contrattuali; la locatio rei, la locatio operarum e la locatio operis7. E tale

suddivisione viene, poi, fatta propria dal Code Napoléon, all’art. 1708: “deux sortes de

contrats de louage […] celui des choses, et celui d’ouvrage”.

3. – DALLA CODIFICAZIONE DEL 1865 AL CODICE CIVILE DEL 1942.

Seguendo l’esempio del codice civile francese, anche il nostro codice civile unitario

del 1865 continuava a concepire il contratto di lavoro quale forma, sui generis, di

locatio-conductio8. E questo sia per il lavoro subordinato (locatio operarum), che per il

lavoro autonomo (locatio operis faciendi), non ben definiti, né distinti l’uno dall’altro

dall’art. 1627 del codice unitario9, ma entrambi rapportati a quell’unica forma di

5 ULPIANO, in Dig. 3, 1, 1, 6 parla non più di « locare se », ma di « locare operas ».

6 Cfr. F.M. DE ROBERTIS, op.cit., p.129, 130.

7 Per la concezione unitaria della locatio-conductio di ARANGIO-RUIZ, vedi supra in nota 2; concorda con il

pensiero di quest’ultimo autore S. MAGRINI, Lavoro (contratto individuale di), Enc. dir. XXIII, Milano, 1973,

p.369 ss., che definisce “[…] l’adattamento della figura della locatio-conductio romana alla nuova locatio

operarum, intesa in senso nettamente contrapposto alla locatio operis, […] una vera e propria deformazione del

pensiero romano”.

8 Il codice civile del 1865 definiva, infatti, all’art. 1570 la “locazione delle opere” come “il contratto per cui una

delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”.

9 Il quale affermava “che vi sono tre principali specie di locazione di opere e di industria: 1° quella per cui le

persone obbligano la propria opera all’altrui servizio; 2° quelle de’ vetturini sì per terra come per acqua, che

s’incaricano del trasporto delle persone o delle cose; 3° quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo”.

4

contratto di lavoro rappresentata dalla locazione delle opere, in contrapposizione alla

locazione delle cose10.

Unica norma specifica e riferibile al lavoro subordinato nel codice unitario del 1865

era l’art. 1628, ove si affermava che “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui

servizio che a tempo o per una determinata impresa”.

Questa forma di “disinteresse” normativo del legislatore dell’epoca per il lavoro

subordinato non deve certo essere letta come indice di una scarsa rilevanza sociale del

contratto di lavoro; tutt’al più rappresentava una sorta di omaggio ad una

plurisecolare tradizione risalente alla giurisprudenza romana, secondo la quale la

determinazione del contenuto della locatio operarum era prerogativa della piena e

completa autonomia contrattuale delle parti11.

Ancora all’inizio del XX secolo, malgrado la dottrina tedesca e lo stesso BGB stessero

abbandonando l’impostazione concettuale tradizionale in tema di ricostruzione

sistematica delle norme in materia di prestazione di lavoro, la nostra dottrina

rimaneva saldamente ancorata agli insegnamenti del passato12.

Solo attraverso un approccio sistematico più moderno è stato possibile superare

l’impasse rappresentata dalla concezione del godimento delle energie propria del

contratto di lavoro concepito come contratto di locazione13.

10 Così E. GHERA, Diritto del lavoro, Bari, Cacucci, 2000, p.51 ss.

11 E. GHERA, ibidem; contra S. MAGRINI, op. cit., p.370 ss., il quale riconosce una posizione di rilievo alla

tradizione romanistica quanto al ripudio dello schema della vendita, ma allo stesso tempo afferma che la

scelta di aderire allo schema della locatio-conductio operata dal nostro legislatore del 1865, anziché alla

tradizione germanica legata allo schema di un rapporto fiduciario improntato alla reciproca fedeltà

(Treudienstvertrag), non fu tanto dettata da un omaggio formale alla tradizione romanistica, quanto da

ragioni etico sociali improntate ad un profondo valore di libertà. Una sorta di ripudio della concezione

corporativistico – medioevale, legata ad una dimensione del lavoratore “[…] soggetto ad un ordinamento

professionale rigidamente organizzato in strutture gerarchiche”.

12 Per tutti L. BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, I, Milano, Società editrice libraria,

1915, p. 541 ss., il quale lamenta il tentativo espresso da MODICA, Il contratto di lavoro, p. 17, ivi citato, di

inquadrare il contratto di lavoro in una forma contrattuale sui generis, anziché nell’ambito della locatio;

concorda con L. BARASSI, PACIFICI-MAZZONI, Locazioni, p. 318, cit. in nota 3 p. 548-549 da L. BARASSI.

13 La locatio-conductio presuppone, infatti, la concessione temporanea in godimento della res che ne è

oggetto, con l’obbligo della sua restituzione al termine del contratto; ricostruzione difficile da accettare se

riferita, anziché ad una res corporea, ad un’entità, quali le operae intese come energie fisiche, destinate a

consunzione nel momento in cui vengono fruite.

5

Già CARNELUTTI parlava non di locatio, ma di emptio-venditio operarum, salvo non voler

intendere la locazione avente ad oggetto il lavoratore nella sua dimensione corporea14.

Se ancora nel 1865 il contratto di lavoro rappresentava una realtà giuridica

completamente affidata alla disciplina generale delle obbligazioni e dei contratti e,

quindi, negli spazi lasciati liberi dalla norme di legge, alle regole elaborate dagli

ordini professionali (e corporativi), con l’avvento degli ordinamenti giuridici liberali e

la soppressione delle organizzazioni professionali il contratto di lavoro-locazione

d’opere veniva “abbandonato” sostanzialmente alla determinazione regolamentare

della parte contrattuale più forte: l’imprenditore-conduttore.

Solo gli ultimi ottanta anni di storia legislativa si sono caratterizzati per un profondo

mutamento di tendenza. L’inflazione normativa lavoristica – che ha visto, ormai, il

rapporto di lavoro sempre più minuziosamente disciplinato ed il contratto di lavoro

divenire uno schema precostituito per entrambe le parti, tale da rendere del tutto

privo di valore il suo accostamento ad un tipo negoziale tradizionale – si è sempre più

caratterizzata per una precisa volontà garantistica della parte debole del rapporto, il

lavoratore, considerato come contraente debole (prima) e come persona (poi)15.

Una sorta di tutela del lavoratore assegnata dall’ordinamento alla disciplina giuridica

del rapporto di lavoro16.

14 F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, 3a ediz., Roma, 1951, p. 127: “[…] nell’uomo va schiettamente

riconosciuta, […] non solo una persona, ma pure una cosa, e così […] un oggetto di diritto, il qual diritto può

appartenere sia alla persona del medesimo uomo, […] sia alla persona di un uomo diverso”; vedi anche pp. 148 e

172.

15 M. RUSCIANO, Sospensione del rapporto di lavoro (cause di), EGT, XXX, 1993, p. 1.

16 In questo senso cfr. G. SUPPIEJ, M. DE CRISTOFARO, C. CESTER, Diritto etc.cit, p. 5.

6

4. – IL RAPPORTO DI LAVORO QUALE RAPPORTO COMPLESSO”.

Abbiamo visto che il contratto di lavoro è, ormai, oggi uno schema giuridico

precostituito per entrambe le parti, interamente disciplinato dalla legge o, comunque,

integrato dalla contrattazione collettiva17.

Ma il contratto di lavoro, tutt’al più, rappresenta solo l’elemento-fonte del complesso

rapporto che, per suo tramite, si viene ad instaurare tra lavoratore e datore di lavoro:

il rapporto di lavoro, appunto. Rappresenta, cioè, a far propria la terminologia usata

da RUBINO in un suo famoso scritto18, la fattispecie grazie alla quale è possibile la

produzione di un insieme di effetti giuridici che trovano, poi, il loro presupposto nel

rapporto (fondamentale) di lavoro.

Rapporto di lavoro che la dottrina comune ha da sempre, però, tentato di definire in

termini diversi da quelli appena accennati. Ricorrendo, infatti, ad una nozione

sostanzialmente atomistica, essa ha definito il rapporto con l’attributo complesso,

costituito, cioè, da una pluralità di singole posizioni giuridiche (chiamate anche

rapporti semplici, o singoli19) proprie delle due contrapposte parti contrattuali, tutte

aventi la loro unica fonte nel contratto20. Posizioni considerabili nella loro singola

realtà e complessivamente riunite, poi, in unico vincolo giuridico che ne rappresenta

la semplice somma.

17 L’attuale codice civile non prevede il contratto di lavoro come contratto tipico nel IV libro, ma definisce

all’articolo 2094, titolo II del libro V (lavoro nell’impresa), la figura del lavoratore subordinato.

18 D. RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Edizioni Scientifiche Italiane, Ristampa a cura

della scuola di perfezionamento in diritto civile dell’università di Camerino, a cura di P. PERLINGIERI,

1978, ristampa inalterata dell’edizione del 1939.

19 D. RUBINO, op. cit., p. 11; anche G. SUPPIEJ, Il rapporto di lavoro etc. cit., p. 348, parla, seppur in relazione

all’oggetto della fattispecie sospensione, di posizioni giuridiche singole e dei relativi controcrediti,

lasciando, quindi, intendere di considerare la medesima relazione giuridica nel senso di rapporto

giuridico semplice, o singolo, come costruito da SAVIGNY e fatto proprio, poi, da D. RUBINO per elaborare

la sua tesi sul rapporto fondamentale.

20 G. SUPPIEJ, op. cit., p. 60 ss.

7

Un insormontabile limite a questo comune modo di intendere il rapporto di lavoro è

certamente rappresentato dall’incapacità della concezione atomistica di cogliere

l’aspetto unitario del rapporto e, quindi, il nesso fra le singole posizioni giuridiche, fra

i singoli rapporti semplici che legano le due parti contrattuali.

Principalmente per questo motivo voci autorevoli hanno ritenuto il concetto di

rapporto complesso (di lavoro) come non soddisfacente a spiegare il fenomeno nella

sua interezza. Gli sviluppi successivi si sono, pertanto, orientati verso la ricerca di una

dimensione sostanzialmente unitaria del rapporto, anziché prettamente atomistica

quale quella offerta dal panorama dottrinario comune.

5. – IL RAPPORO DI LAVORO QUALE RAPPORTO FONDAMENTALE”.

Tentativi di riconduzione del rapporto ad unità che hanno visto la dottrina tanto

cimentarsi nelle più disparate discussioni circa la natura istituzionale21 o meno del

rapporto di lavoro nell’impresa22, quanto tentare di ridurre ad unità il rapporto

21 Concezione, questa, foriera di innumerevoli risvolti problematici in dottrina generale, per quanto

riguarda, in particolar modo, la conseguenza principale, la pluralità degli ordinamenti giuridici, che

discende dal considerare istituzione il rapporto di lavoro nell’impresa.

22 Fra tutti cfr. S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, 2a ed., Firenze, Sansoni, 1946, capostipite della teoria

istituzionalistica italiana, il quale però, nel suo scritto, particolarmente a p. 55, esclude che si possa

parlare di istituzione in riferimento al rapporto di lavoro, in quanto “l’istituzione non si risolve mai in un

singolo rapporto o in più rapporti giuridici determinati”, ma è “[…] a questa preordinata”. Importanti riflessioni

critiche sul tema anche in M. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, Cedam, 1966, in

particolare a pp. 81 ss. Tale Autore incentra la sua teoria sull’attribuzione di una persistente funzione di

scambio al contratto di lavoro, caratterizzato per un’accentuata intensità dell’obbligo di fedeltà del

lavoratore verso il datore. Concretamente, per M. PERSIANI, il fine dell’impresa può essere rappresentato

dalla persona stessa dell’imprenditore, dal momento che l’organizzazione del lavoro viene dalla stesso

predisposta. Ogni giudizio, pertanto, incentrato sul rapporto di lavoro non può che essere compiuto

assumendo quale criterio tipico di valutazione quello proprio della persona che ha predisposto

l’organizzazione medesima per il “[…] conseguimento di fini che sono esclusivamente suoi”. Contro tale

interesse si ergerebbe quello del lavoratore, che si ridurrebbe ed esaurirebbe unicamente nella

retribuzione (pp. 63-65). Soddisfatto tale interesse, resterebbe da soddisfare quello del datore, al cui fine

dovrebbe completamente adeguarsi il comportamento del debitore. L’attività di lavoro obbedirebbe,

pertanto, secondo tale teoria, al criterio della funzionalizzazione all’interesse del datore e dovrebbe

consistere non tanto in un comportamento diligente, quanto in un comportamento subordinato e fedele

(pp. 214-215), elevando infine la fedeltà al grado di «dovere». M. PERSIANI, in ogni caso, non utilizza il

concetto di istituzione, ma sembra prenderne a volte le distanze, affermando a pp. 38 ss che “[…]

l’organizzazione dell’impresa […] non costituisce un sistema autonomo di produzione di norme, né tanto meno di

8

medesimo attraverso l’unificazione per lo meno in una posizione giuridica

complessiva delle diverse posizioni specifiche che fanno capo a ciascuna delle parti23.

In primis la posizione passiva del lavoratore, riunificata attorno ad una sola

obbligazione definita predominante (la prestazione di lavoro), accanto a svariati altri

doveri considerati alla stregua di semplici manifestazioni della prestazione

medesima24.

Malgrado, comunque, i tentativi operati da certa parte della dottrina e finalizzati ad

abbandonare la dimensione atomistica del rapporto attraverso la sua concezione in

termini di unitarietà, non appare ancora possibile cogliere la dimensione globale ed

allo stesso tempo unitaria del fenomeno, in riferimento, soprattutto, ad alcuni aspetti

del rapporto che, se non inquadrati entro una corretta e soddisfacente dimensione,

rischiano di essere fraintesi.

Fra tutti il tema della sospensione della prestazione lavorativa: come poter

esaurientemente spiegare, infatti, il diritto alla conservazione del posto di lavoro e la

rapporti giuridici”, dando, inoltre, dimostrazione di preferire all’espressione istituzione quella di

organizzazione. Sul punto merita anche un accenno l’importante opera di A. CESSARI, Fedeltà, lavoro,

impresa, Milano, Giuffrè, 1969, che proprio in tema di fedeltà sposta l’angolo visuale dall’imprenditore

(concezione individuale e signorile) all’impresa (concezione comunitaria dell’impresa). Secondo tale Autore

l’obbligo di fedeltà che grava sul lavoratore deve necessariamente essere concepito in relazione

all’esigenza di evitare che sia pregiudicata l’attitudine dell’impresa alla funzione strumentale che la caratterizza

(p. 129), concepita, ora, “[…] dal suo originario carattere attributivo dell’azione economica individuale”, come

“[…] centro nel quale si integra l’attività coordinata di più persone” (p. 128). Per A. CESSARI, infatti, l’attività

d’impresa esige, per essere svolta, “d’essere ripartita fra più soggetti, tutti chiamati al coordinamento della

prestazioni singole per una destinazione di scopo” (p. 105). In tal modo, l’obbligo di fedeltà di cui all’articolo

2105 c.c., è concepito non tanto quale «dovere» verso l’imprenditore, ma unicamente “[…] in funzione

dello stesso interesse alla cui stregua si atteggia l’obbligo di diligenza previsto dal precedente art. 2104 c.c.” (p.

130), che “[…] non è minimante riferibile al supposto interesse dell’imprenditore al profitto, bensì al distinto

interesse dell’impresa come organizzazione tecnica di lavoro” (pp. 75-76). Il contratto di lavoro non potrebbe,

pertanto, ottenere una configurazione quale quella dettata dallo schema romanistico (puramente di

contratto di scambio) do ut des, in cui l’interesse dell’impresa è fatto coincidere con quello individuale

dell’imprenditore, ma “ […] deve piegare l’uso dei propri strumenti alla penetrazione delle categorie dell’attività

e dell’organizzazione” (p. 89).

23 Cfr. in questo senso G. SUPPIEJ, op. cit., p. 65.

24 Cfr. M. CASANOVA, Studi sul diritto del lavoro, cit. in G. SUPPIEJ, op. cit., p. 65; VENTURI, Il diritto fascista del

lavoro, Torino, 1938, p. 220, cit. in G. SUPPIEJ, op. cit., p. 66; G. MAZZONI, Manuale di diritto del lavoro, I, 5a

ed., Milano, Giuffrè, 1977, p. 480 ss., il quale mostra di concepire la prestazione di lavoro come “[…]

un’unica obbligazione” di cui le varie sue specificazioni “[…] in un obbligo di lavoro, in un obbligo di diligenza,

di collaborazione e di obbedienza e in un obbligo di fedeltà” sono fatte “[…] per meglio sviscerare le peculiari

caratteristiche di questo specialissimo rapporto [di lavoro]”.

9

continuità degli effetti giuridici derivanti dal rapporto durante la sospensione della

prestazione lavorativa (è, infatti, la prestazione di lavoro che è oggetto di sospensione,

e non il rapporto)?

Sulla scia della dottrina tedesca e grazie, in seguito, all’attento lavoro di analisi

compiuto da RUBINO25, è stata elaborata una diversa e più completa nozione di

rapporto di lavoro, che ha il merito di aver colto effettivamente la dimensione globale

ed unitaria della relazione scaturente fra la persona del lavoratore e quella del datore

di lavoro.

Sicuramente il rapporto di lavoro è un rapporto contrattuale, un rapporto che trae,

cioè, origine dal contratto di lavoro26.

Non si può, però, affermare che tutte le posizioni giuridiche del rapporto, sia dal lato

attivo, sia dal lato passivo, nascano e si giustifichino necessariamente ed unicamente

in relazione al contratto di lavoro27.

Il diritto alle ferie, per esempio, come principalmente la stessa retribuzione,

presuppongono certo il contratto di lavoro quale elemento fonte del rapporto di cui

poi ne rappresentano degli aspetti per altro rilevanti; ma necessitano, inoltre, della

prestazione lavorativa da parte del lavoratore – e quindi di un facere che non trova la

sua fonte esclusivamente nel contratto, ma che ha il suo presupposto in un rapporto

che dal primo è generato28 – per poter essere corrisposti.

Tanto è vero che, in linea generale e salvo esplicite deroghe contenute proprio nella

disciplina di alcune fattispecie di sospensione della prestazione di lavoro, se non c’è

25 D. RUBINO, La fattispecie etc. cit., p. 3 ss.

26 In questo senso, vedi per esempio A. VALLEBONA, Il rapporto di lavoro, Padova, Giappichelli, 1999, p. 39.

L’origine contrattuale del rapporto viene da questo autore sostenuta, malgrado il tentativo di ricondurre

la fonte del rapporto di lavoro non al contratto, ma all’inserzione di fatto del prestatore nell’impresa in

una dimensione di comunanza di scopo con il datore di lavoro; è questa la c.d. teoria istituzionalecomunitaria,

riferita a p. 39 dallo stesso Autore.

27 D. RUBINO, La fattispecie e gli effetti etc. cit., p. 15: “[…] gli effetti singoli, derivanti ad esempio da un negozio

giuridico, possono sorgere in momenti successivi; taluni sorgono nel momento in cui […] il negozio diviene efficace;

altri possono sorgere posteriormente”.

28 Cfr. D. RUBINO, op. cit., p. 20, il quale afferma: “[…] il negozio […] fa sorgere il rapporto fondamentale; gli

effetti singoli, a loro volta, derivano dal rapporto fondamentale”.

10

alcuna prestazione la retribuzione non è dovuta29, stante il suo carattere di

corrispettivo della prestazione di lavoro30.

Il contratto, cioè, se pur necessario, non è da solo sufficiente a spiegare il rapporto di

lavoro nel suo complesso; rapporto che, certamente, nasce al perfezionarsi della

fattispecie negoziale ed al sorgere dei suoi primi effetti giuridici, ma che si sviluppa,

poi, grazie ad ulteriori altri fatti che vengono ad incidere su un quid preesistente, che

tuttavia non è alcuno dei rapporti singoli già sorti, ma un’entità da questi distinta31.

Pertanto: contratto di lavoro come elemento fondante il rapporto di lavoro, ma non

come unica fonte delle molteplici posizioni giuridiche riconducibili alle due parti

contrattuali32; posizioni che possono, invece, ricondursi al rapporto fondamentale di

lavoro che, ed è questo l’elemento importante, non ne rappresenta la sterile somma, o

la sommaria unione, né tanto meno raffigura questo o quel potere, o dovere

particolare, questa o quella relazione fra singola posizione attiva e singola posizione

passiva nel tentativo di coglierne l’unitarietà33.

Il rapporto di lavoro, quale rapporto fondamentale, rappresenta, invece, una relazione

giuridica continuativa tra due soggetti che non consiste, com’è per la nozione classica

di rapporto giuridico, nella relazione fra un diritto e il dovere corrispondente, bensì in

un vincolo neutro, ma la cui esistenza, tuttavia, costituisce il presupposto per la

produzione, al verificarsi di determinati fatti, di una pluralità di effetti34.

29 In questo senso cfr. G. SPOLVERATO, La giusta retribuzione del lavoratore, in Diritto & pratica del lavoro, n.

38/2002, p.2525; M. RUSCIANO, op. cit., p.4.

30 G. SPOLVERATO, op. cit., p. 2523.

31 In questo senso cfr. D. RUBINO, op. cit., p 18-19.

32 Contesta tale tesi di G. SUPPIEJ, M. PERSIANI, Contratto di lavoro etc. cit., p.161 ss., il quale sul punto

sentenzia che “[…] se si vuole dare ragione del modo in cui […] i soggetti sono abilitati dall’ordinamento a

soddisfare i loro interessi, si deve ritenere che gli effetti giuridici attraverso i quali tale soddisfazione si realizza, non

possano […] essere spiegati che con riferimento al contratto”.

33 Afferma G. SUPPIEJ, op. cit., p. 69, “che l’unitarietà del rapporto di lavoro non si coglie esattamente unificando

l’insieme delle posizioni giuridiche di ciascuna delle parti, ma soltanto considerando la sostanziale unità dell’intero

rapporto”, da intendersi quale rapporto fondamentale

34 In questo senso cfr. G. SUPPIEJ, Il rapporto etc., cit, p. 68.

11

Un rapporto definito dallo stesso RUBINO amorfo, perché da esso potrebbero derivare

per entrambe le parti diritti e obblighi35, e non come entità statica, ma come fenomeno

intimamente dinamico.

Realtà sulla quale, nel suo evolversi, si innestano le varie posizioni giuridiche delle

parti al verificarsi di determinati fatti idonei, nel loro intrinseco combinarsi con il

contratto di lavoro, alla produzione di singoli effetti giuridici che immancabilmente

vengono ad incidere su quel quid preesistente che RUBINO chiama, appunto, rapporto

fondamentale.

Nozione, questa, certamente tra le più soddisfacenti, esaurienti ed utili, in grado in

particolar modo di affrontare in termini consoni il problema della continuità degli

effetti derivanti dal rapporto di lavoro durante la sospensione della prestazione

lavorativa; perché ciò che si sospende è, infatti, una di quelle posizioni giuridiche che

trovano la propria essenza nel rapporto fondamentale, uno di quei rapporti singoli che si

rifanno ad un unico rapporto fondamentale36.

Rapporto che, medio tempore, permane attivo, continuando, pertanto, a produrre effetti

rilevanti per le parti contrattuali.

Tale soluzione è senz’altro anche una delle più appaganti, contrariamente a quanto si

addiviene se si concepisce il rapporto di lavoro quale rapporto complesso, o quale

rapporto unitariamente rappresentato in un’unica posizione giuridica, quella passiva

del lavoratore, per esempio.

Nel primo caso (rapporto complesso) la fattispecie sospensione e la contemporanea

permanenza degli effetti del rapporto risultano difficilmente giustificabili, dal

momento che i più rapporti giuridici singoli (atomisticamente considerati) che

compongono il rapporto di lavoro complesso non presentano alcun nesso giuridico

35 Cfr. D. RUBINO, op. cit., p. 14.

36 Cfr. D. RUBINO, ibidem.

12

fra di loro, né risultano tanto meno rifarsi ad un unico rapporto che ne rappresenti il

presupposto.

Sospendendo, pertanto, una di tali posizioni giuridiche (o rapporti giuridici singoli,

che dir si voglia), ad esempio proprio l’obbligo di lavoro, non risulta agevole

comprendere come l’intero rapporto possa rimanere in vita e, soprattutto, produrre

effetti giuridici rilevanti, se il rapporto singolo non trova a sua volta la propria

giustificazione ontologica in un quid unitario che ne funga da presupposto37.

Nel secondo caso perché, concependo il rapporto di lavoro come unificato intorno ad

una sola posizione giuridica (definita principale) di una delle parti, sospendendo

proprio quest’ultima, il rapporto per forza deve entrare in una fase di quiescenza. La

sua prosecuzione giuridica non può trovare, pertanto, esauriente giustificazione.

6. – OSSERVAZIONI FINALI.

La concezione del rapporto di lavoro quale rapporto fondamentale permette di dare una

spiegazione più esauriente e piena del complesso rapporto di posizioni giuridiche che

si vengono ad instaurare tra la persona del lavoratore e quella del datore di lavoro per

l’effetto della conclusione del contratto di lavoro e dell’evolversi del rapporto che da

questo, in primis, ne discende, permettendo, altresì, di trovare risposte più ragionevoli

e congrue agli innumerevoli interrogativi riguardanti, per esempio, la sorte del

rapporto nell’ipotesi di sospensione della prestazione lavorativa.

Interrogativi, invece, che non sempre troverebbero risposte così adeguate se solo ci si

adeguasse a quella diversa teoria del rapporto di lavoro inteso quale rapporto

complesso, ossia quale semplice somma delle differenti posizioni giuridiche che fanno

37 D. RUBINO, op. cit., p. 15: “[…] il rapporto fondamentale designa una nuova realtà, sopraordinata agli effetti

singoli”.

13

capo alle due differenti parti contrattuali, vista l’incapacità di tale concezione di

cogliere adeguatamente l’aspetto unitario del rapporto di lavoro.

 

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