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di Lorenzo Cappellari, Marco Leonardi

 

Tra le tante proposte di riforma alla fine di questo ciclo politico, una delle meno discusse riguarda la trasformazione delle nostre università verso un sistema a due pilastri uno dei quali con finalità tecnico-professionali simile al sistema delle Fachhochschulen tedesche.

 

Di riforme universitaria se ne parla fino alla noia (governance, valutazione dei professori, concorsi, finanziamento)  ma non si parla del fatto che la riforma del 3+2 è stato un sostanziale fallimento per la parte delle lauree triennali e che un’università che oggi laurea circa il 60% dei diplomati deve essere molto diversa da un’università che ne laureava solo il 30% fino a pochi anni fa.

In questo articolo esponiamo brevemente il nostro pensiero e rimandiamo per approfondimento al nostro pezzo sul libro http://www.egeaonline.it/editore/catalogo/gioco-delle-riforme-il.aspx.

Tra gli obiettivi dichiarati della riforma 3+2 figuravano: 1) l’innalzamento del livello di istruzione nella forza lavoro; 2) il miglioramento del match domanda-offerta di laureati mediante la “produzione” di figure professionali pronte all’ingresso nel mercato del lavoro al completamento degli studi triennali.

 

Il primo obiettivo è stato sostanzialmente raggiunto. Ciò che invece pare non aver funzionato (e che probabilmente contribuisce a spiegare la recente flessione delle immatricolazioni) è la performance dei nuovi laureati triennali nel mercato del lavoro. I nuovi laureati trovano lavoro in media a salari inferiori a quelli dei precedenti laureati quadriennali; in alcune regioni d’Italia ci sono segnali di oversupply di laureati soprattutto donne; in generale ci sono segnali di educational mismatch per cui le imprese assumono nuovi laureati ma ciò avviene a parità di mansioni e di settore rispetto a prima della riforma del 3+2. Quest’ultima evidenza fa pensare che le imprese preferiscano fornire esse stesse le competenze professionali che avrebbero dovuto essere fornite da una laurea triennale.

In altre parole, in sistema universitario italiano sembra produrre una grande quantità di laureati la cui qualità non risponde alle esigenze delle imprese, soprattutto a livello di laureati triennali.

 

Cosa si può fare? A nostro avviso il sistema dell’istruzione/formazione terziaria è incompleto: a un sistema sostanzialmente orientato alla formazione di competenze generaliste (l’Università o l’istruzione terziaria di tipo A come la chiama l’OECD) ne andrebbe affiancato un altro con finalità più tecniche-professionali (l’istruzione terziaria di tipo B). Il modello di riferimento è la Germania (ma sistemi terziari di tipo B sono diffusi anche in altri paesi, ad esempio Svizzera, Spagna e Regno Unito).

Italia e Germania hanno sistemi di istruzione secondaria simili, basati sulla presenza di scuole generaliste e scuole tecniche (in Germania, però, queste ultime sono inserite in una sistema di alternanza scuola-lavoro). A livello terziario, invece, i sistemi sono molto diversi, uniforme quello italiano e centrato sull’Università, distinto tra Università e Fachhochschulen quello tedesco. Le Fachhochschulen sono istituti di istruzione e formazione tecnica superiore che erogano esclusivamente titoli di studio equiparati a quelli universitari di primo livello, ovvero la formazione terziaria avanzata (Master e Dottorati) resta prerogativa delle Università. Molte aziende preferiscono assumere nuovo personale laureato nelle Fachhochschulen invece che nelle normali università. In Germania si contano circa 200 istituti di questo genere, si occupano di economia agraria, design, tecnica ingegneristica, economia aziendale e settore sociale (per esempio i paramedici) per un totale di circa 350 professioni.

 

I dati OECD indicano che i tassi di immatricolazione terziaria per le coorti recenti sono molto simili in Italia e Germania, approssimativamente il 50%. Tuttavia, mentre in Italia tutti questi studenti vengono assorbiti dall’unica istituzione presente a questo livello, in Germania un mezzo delle immatricolazioni nel 2009 si rivolge agli istituti di formazione superiore (Fachhochschulen o equivalenti). In totale un terzo dello stock di tutti gli universitari frequenta gli istituti di formazione superiore la cui crescita in termini quantitativi è stata vertiginosa negli ultimi 10 anni (in Svizzera le Fachhochschulen costituivano il 5% dello stock degli universitari nel 1997 e oggi costituiscono il 30% come in Germania). Questa evidenza indica che le Fachhochschulen sono tutto tranne che università di serie B e che hanno di fronte un mercato in ampia espansione contrariamente alle università tradizionali. A fronte di ciò, la disoccupazione giovanile relativa in Germania è la più bassa tra i paesi OECD (il tasso di disoccupazione dei giovani è una volta e mezzo quello degli adulti), in Italia la più elevata (con un rapporto giovani adulti di tre volte e mezzo). Ovviamente la differente struttura formativa è solo una delle possibili spiegazioni della differente performance occupazionale, ma è comunque un fatto rilevante.

 

Attualmente in Italia esiste un tentativo di fornire formazione professionale a livello post-secondario, i corsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS), cui si sono recentemente affiancati gli Istituti Tecnici Superiori (ITS). I pochi dati a disposizione indicano che finora tali esperienza hanno avuto poco successo. Gli ITS (istituiti con decreto della Presidenza del Consiglio nel gennaio 2008) si presentano come una versione più strutturata dei corsi IFTS, di durata biennale. In questo caso la gestione e  erogazione dei corsi resta in capo a un istituto secondario, ma vi partecipano attori del territorio quali dipartimenti universitari e associazioni di categoria. Al momento, su tutto il territorio nazionale si contano 59 istituti tecnici e professionali che hanno dato vita a un ITS.

 

I dati appena descritti indicano che il numero di studenti coinvolti nella formazione tecnica superiore è di gran lunga inferiore al quel 15% della popolazione giovanile che si registra in Germania. Parte del divario può essere dovuto a carenze strutturali, ovvero la mancata attivazione dei corsi da parte degli istituti superiori. Ma crediamo che anche qualora ciò avvenisse, questo percorso formativo resterebbe poco appetibile per gli studenti e le loro famiglie. E’ necessario offrire un percorso formativo che sia percepito come reale alternativa alla laurea triennale.

 

Le domanda che ci si deve oggi porre è la seguente: assumendo di voler andare verso un sistema tedesco, è opportuno creare le Fachhochschulen da zero (con nuove sedi, nuovi fondi etc.) oppure possiamo utilizzare parte del nostro sistema universitario per indirizzarlo verso diplomi terziari di tipo tecnico?   E se utilizziamo il nostro sistema universitario, diamo facoltà a tutte le università di aprire corsi vocational o separiamo nettamente le università accademiche da quelle vocational? La risposta alla prima domanda è che in Italia siamo probabilmente in ritardo rispetto a quel che fecero anni fa la Germania e la Svizzera cioè un up-grade delle scuole secondarie a scuole terziarie, dobbiamo probabilmente utilizzare il sistema universitario che ormai laurea la maggioranza degli studenti che escono dalle scuole superiori. La risposta alla seconda domanda è più difficile, qui ci limitiamo ad esporre tre criteri generali e rimandiamo altrove per un approfondimento.

Gli ingredienti per una transizione di successo sono molti e difficili:

1)     bisogna convincere i professori, gli studenti e l’opinione pubblica che il percorso Fachhochschule è di pari dignità di quello universitario generalista e ha di fronte un mercato in ben maggiore espansione (come insegna esperienza tedesca e svizzera). Questo si può ottenere con l’introduzione di sistemi di certificazione delle competenze riconosciuti dalle imprese.

2) bisogna indicare quali università sono votate alla ricerca e quali non lo sono, con l’unica conseguenza che queste ultime non possono rilasciare certificati di dottorato (esattamente come in Germania) e devono ridurre le lauree specialistiche

3) per affrontare il punto 2 è necessario un sistema di valutazione della ricerca che classifichi le università e probabilmente qualche incentivo alla mobilità orizzontale (tra università) dei professori.

 

I punti 2 e 3 sono già parte del dibattito sulla riforma universitaria, bisogna al più presto affrontare anche il punto 1 superando la diffidenza di gran parte degli accademici che considerano la cultura generalista superiore a quella applicata.

 

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