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La consulenza psicologica in materia di danno psichico-(Sara Pezzuolo)-Altalex.it

 

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    1. Introduzione

    2. La stesura della relazione

    2.1 Instaurare la relazione in ambito forense

    2.2. Anamnesi e colloquio clinico

    2.3. La valutazione psicodiagnostica

    2.4. Le conclusioni psicologico-giuridiche

    3. Conclusioni

    BIBLIOGRAFIA

 

1. Introduzione.

 

In ambito peritale, la consulenza psicologica si pone come strumento conoscitivo per il Giudice per ottimizzare al meglio la propria capacità discrezionale in modo che, come dice Ponti:

 

“[…]sarà spesso solo quello di trasferire al giudice le sue conoscenze tecniche e la sua percezione clinica, che serviranno ad illuminarlo nella valutazione discrezionale, così che egli possa utilizzare un “buon senso informato” piuttosto che uno spesso fuorviante senso comune” (Ponti, 1992, 54) .

 

La norma che assicura al Giudice tale contributo è definita all’art. 61 c.p.c.

 

“Quando è necessario, il Giudice può farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica”,

 

nonostante ciò, comunque, non va dimenticato il potere discrezionale del Giudice nella sua accezione di peritus peritorum che può, quindi, anche disattendere le conclusioni del proprio consulente ed i limiti della consulenza stessa che, in quanto tale, non costituisce mezzo di prova:

 

“(...) la funzione principale del consulente non consiste nel determinare il convincimento del giudice circa la verità o la non verità di determinati fatti, ma consiste nell'offrire al giudice conoscenze tecniche che il giudice non ha: e questa è la ricostruzione proprio perché la consulenza tecnica non è un mezzo di prova ed il consulente, di conseguenza,è solo ausiliario del giudice” (Loschiavo, 2008, 209)

 

Il consulente, una volta nominato, è chiamato a giurare con una formula che ha il fine di garantire un corretto operato e, a meno che siano presenti gravi motivi, il consulente scelto ha l'obbligo di prestare il suo ufficio.

 

I consulenti scelti dal giudice devono, di solito, essere iscritti in albi speciali istituiti presso ogni Tribunale.

 

La consulenza, di prassi, prevede la stesura di una relazione in cui il professionista, utilizza gli “strumenti” a lui propri per rispondere ai quesiti formulati al momento dell’incarico. Tali strumenti variano a seconda della disciplina in cui verte l’accertamento tecnico ma, ciò che rimane costante all’interno di ogni elaborato, è l’attinenza con i principi di scientificità richiesti nell’ambito forense.

 

L’ambito di applicazione forense, difatti, è differente dall’ambito clinico. Se in ambito clinico si assiste ad una maggiore apertura e universalità, in ambito forense le risposte che il consulente fornisce si devono attenere in maniera precisa al quesito posto e, seppure può sembrare riduttivo, qualora l’esperto ravvede una determinata psicopatologia egli è tenuto a dimenticarsi il proprio compito terapeutico attenendosi ad una valutazione quanto più oggettiva.

 

Tale dimensione altra della psicologia obbliga l’esperto ad utilizzare una terminologia “ponte” tra il mondo psicologico ed il mondo forense che inizia fin dal primo momento quando si troverà di fronte un terzo che sarà designato come cliente e non come paziente.

 

Una volta che è stato nominato il consulente del giudice, le parti possono provvedere a nominare propri consulenti (art.201 c.p.c.) al fine di salvaguardare il principio generale del contradditorio[1].

 

Nondimeno, l'intervento dell'esperto e quindi la stesura di una relazione psicologico-giuridica si può rendere necessario sia in fase processuale che in una fase precedente, in cui l'avvocato o chi per lui, ritiene necessario un approfondimento della situazione clinica del soggetto per poter avvalorare o rinforzare la richiesta di risarcimento danno, pertanto, il committente dello psicologo forense può essere sia il giudice, quando si tratti di C.T.U., sia il legale una volta stabilita la C.T.U. (si tratta allora della figura del C.T.P.), sia l’avvocato in una fase extra giudiziale con l’obiettivo di richiedere un parere.

 

2. La stesura della relazione.

 

Una volta formulato il quesito, se è investito del compito dal Giudice, obiettivo del consulente è quello di rispondere a ciò che gli viene chiesto. Per ottemperare a questo dovere, gli sarò concesso un termine entro il quale depositare una relazione e, qualora necessità particolari di ulteriori indagini o gravi difficoltà, non consentano la restituzione nei tempi stabiliti, egli potrà chiedere una proroga.

 

La relazione sarà composta da diversi paragrafi all’interno dei quali il consulente, passo dopo passo, guiderà il committente (procuratore legale o Giudice) nel ragionamento in modo da pervenire alle medesime conclusioni che lui ha fatto proprie.

 

In tale senso diventa importante e fondamentale la scelta del linguaggio da utilizzare. Troppo è dato leggere delle relazioni di consulenze in cui chi scrive si dimentica a chi scrive e pertanto colui che legge sembra perdersi nei meandri di qualcosa che ha tutta l’impressione di essere “materia oscura”. Per fare un esempio che non vuole assolutamente essere riduttivo, se tutte le volte che ci rechiamo da un medico, quando siamo affetti da un comune raffreddore, questo si lasciasse andare a dissertazioni sul quel batterio o su quel virus, potremmo pensare che siamo affetti da qualche grave patologia mentre in realtà si tratta, per lo più delle volte, di una banale influenza.

 

Importante è quindi, tutte le volte che ci approntiamo a scrivere, chiedersi chi legge. Dal momento che il nostro contributo andrà in mano sia a colleghi che non, l’importanza di farsi comprendere diventa fondamentale.

 

Altro step fondamentale, quando ci troviamo di fronte alla pagina bianca della nostra relazione è la scelta del metodo, che come anticipato, deve porsi - per quanto possibile - nell’ottica della scientificità e, quindi, rispettare i criteri di attendibilità, validità, generalizzabilità e credibilità.

 

Tali assunti sono fatti propri anche dalla Giurisprudenza medesima:

 

“nel valutare i risultati di una perizia, il giudice deve verificare la stessa validità scientifica dei criteri e dei metodi di indagine utilizzati dal perito, allorché essi si presentino come nuovi e sperimentali e perciò non sottoposti al vaglio di una pluralità di casi ed al confronto critico tra gli esperti del settore, si da non potersi considerare ancora acquisiti dal patrimonio della comunità scientifica. Quando invece la perizia si fonda su cognizioni di comune dominio degli esperti e su tecniche d’indagine ormai consolidate, il giudice deve verificare unicamente la corretta applicazione delle suddette cognizioni e tecniche” (Cassazione Sezione V, 9 luglio 1993, Arch. n. proc. Pen. 1994, p. 226)

 

Una buona e chiara relazione dovrebbe essere suddivisa in paragrafi per rendere chiaro al lettore il filo conduttore che porta alle conclusioni o meglio, alla risposta ai quesiti.

 

Sinteticamente possiamo immaginare una struttura così definita[2]:

 

- Premessa: solitamente in questa sezione vengono riportati la data del conferimento incarico, viene riprodotto il quesito, i tempi concessi per lo svolgimento delle operazioni peritali, etc.;

 

- Documentazione presa in esame: in tale sezione si elencano tutte le informazioni presenti nel fascicolo di parte o nel fascicolo agli atti, attinenti al quesito (es. precedenti certificati medici, precedenti ricoveri, precedenti relazione o valutazione psicodiagnostica[3], etc.), in modo da rendere possibile un confronto tra tali elaborati e le conclusioni proprie;

 

- Dati ricavati nell’anamnesi: è opportuno acquisire completa anamnesi e trascrivere tutte le informazioni ottenute. Importante è comprendere il “funzionamento del soggetto” prima e dopo l’evento, ponendo particolare attenzione a se e in che misura esso è variato;

 

- Valutazione psicodiagnostica e risultanze emerse: come si discorrerà meglio nel paragrafo dedicato alla valutazione psicodiagnostica, è opportuno discorrere sul perché della scelta di quel metodo di lavoro e di quel test, è bene fare riferimento alle caratteristiche di validità e di attendibilità del test che stiamo utilizzando per rispettare il criterio di scientificità proprio dell’ambito forense, è bene esplicitare tutte le risultanze ai test ed allegare i protocolli in originale[4];

 

Considerazione psicologiche-giuridiche: dopo aver effettuato una buona anamnesi ed un buon colloquio, - alla luce delle risultanze della valutazione psicodiagnostica - è opportuno operare considerazioni circa il caso in esame. In tale sezione bisogna citare lavori o contributi scientifici[5] che possano risultare utili, avendo attinenza con variabili prese in considerazione nella valutazione;

 

- Risposta al quesito: sia che il nostro committente sia un Giudice o un avvocato, la risposta al quesito dovrà, comunque, essere fornita. E’opportuno che tale sezione sia breve, motivata e circoscritta. Qualora non fosse possibile rispondere al quesito in maniera completa e motivata, l’esperto dovrà mettere in evidenza i limiti della propria valutazione.

 

Vediamo un po’ più nel dettaglio come la nostra consulenza prende man di mano forma e concretezza.

 

2.1 Instaurare la relazione in ambito forense.

 

Una volta ricevuto l’incarico, il nostro primo impegno sarà quello di esaminare gli atti di causa. Durante tale operazione sarà nostra premura porre particolare attenzione all’esame dell’eventuale documentazione clinica allegata.

 

Dopo aver analizzato in dettaglio la documentazione presentata, ci prepariamo a conoscere il periziando con il quale siamo chiamati a stabilire una relazione.

 

La relazione che si instaura tra noi ed il periziando si differenzia dalla relazione che si crea in ambito clinico. In primis la relazione che si crea tra psicologo e paziente, in ambito clinico, è basata su una richiesta di aiuto da parte di quest’ultimo, di contro, nell’ambito forense il soggetto non sempre si sottopone ad una valutazione sua sponte e, tanto meno, con lo scopo di “guarire” ma si approccia alla valutazione per ottenere quello che lui ritiene sia un doveroso risarcimento per qualcosa che ha subito.

 

“(…) tutte le interazioni che vengono a svilupparsi tra lo psicologo ed i soggetti che partecipano a vario titolo ai colloqui, sono decisamente segnate dalla cornice (frame) giuridica all’interno della quale si collocano. È all’interno di tale cornice che andranno lette tutte le informazioni e le interazioni. Dimenticare tale realtà è un errore grossolano da apparire impossibile e tuttavia non è facile, soprattutto per i clinici formatesi all’interno di contesti terapeutici, considerare tutti gli aspetti metodologici che vengono ad essere modificati da tale cornice. All’interno del contesto della perizia manca infatti per lo più la libera scelta dell’interlocutore, il contratto psicologico ed economico sfugge alla possibilità di ridefinizione da parte degli interagenti, il rapporto fiduciario si assesta su livelli convenzionali, le dinamiche emotive e trasferali devono fare i conti con precisi elementi di realtà. In particolare, la cornice giuridica rimanda a dimensioni punitive che incidono fortemente sulla relazione tra tecnico e soggetti intervistati, nel bene (come attesa che la giustizia trionfi ed i “cattivi” siano puniti) e nel male (come timore che un’autorità sancisca un verdetto eversivo per la persona)” (Magrin, 2000, 36).

 

Pertanto il successivo problema è anche inerente l’eventuale alterazione della sintomatologia presentata proprio perché “più sembra che stia male più risarcimento otterrò”.

 

2.2. Anamnesi e colloquio clinico.

 

Successivamente, dopo aver stabilito la relazione, si procede alla fase del colloquio introdotto da una accurata anamnesi.

 

L’anamnesi deve essere completa e dettagliata anche perché, proprio sulla base delle informazioni raccolte, potranno giustificare le nostre conclusioni.

 

Essa dovrà essere una sorta di storia fotografica del soggetto, la prima carta d’identità che lui fornisce al consulente, pertanto, molte saranno le informazioni che cercheremo di ottenere.

 

Per tale motivo è possibile che l’esperto stesso si costruisca un proprio protocollo che di volta in volta compila andando ad indagare, in particolare, i seguenti aspetti:

 

- breve anamnesi della famiglia di origine con particolare attenzione ai precedenti psichiatrici;

 

- anamnesi della famiglia attuale;

 

- anamnesi psichiatrica remota e recente, in particolare ponendo attenzione all’eventuale uso di psicofarmaci;

 

- anamnesi scolastica e lavorativa;

 

- indagare eventuali interessi del cliente anche di natura extra-professionali;

 

- legami affettivi;

 

- indagare se il soggetto faccia uso di alcool o di sostanze stupefacenti;

 

- anamnesi psichiatrica remota e recente con particolare riguardo all’eventuale uso di psicofarmaci;

 

E’ utile anche chiedere al cliente se sia stato già sottoposto a valutazioni psicodiagnostiche questo perché, come è noto, potrebbe inficiare la validità di alcuni protocollo testitici.

 

Assieme ad una buona anamnesi, deve essere effettuato l’esame obiettivo della “realtà psichica” del soggetto. Il tutto ci permette di costituirci una prima opinione e ci aiuta nella scelta della metodologia di lavoro.

 

Mentre procediamo in questo percorso conoscitivo, particolare attenzione dovrà essere riservata sia al comportamento non verbale (es. gesti, postura, orientamento dello sguardo, mimica facciale etc.) sia all’esame psichico in senso proprio (es. atteggiamento del soggetto, modalità dell’eloquio, livelli di attenzione e concentrazione, memoria, affettività, capacità di critica e giudizio, progettualità futura etc.).

 

Sarebbe buona prassi che il cliente venga edotto sui fini e le motivazioni che hanno portato all’indagine forense. Buona prassi suggerisce che, in un momento introduttivo, si espliciti al periziando il nostro ruolo, quali sono gli obiettivi della valutazione etc.

 

“(…) prima di entrare nella specifica analisi dei colloqui da svolgere, è doveroso ricordare la necessità che il periziando sia correttamente informato circa il contesto e la finalità delle indagini che lo riguardano. Il dialogo peritale rappresenta infatti un contesto particolare. Nel quale il periziando può essere indotto a confondere la figura del consulente tecnico d’ufficio con quella di un terapeuta. Per tali motivi, è indispensabile che già nel primo incontro il periziando sia reso edotto della motivazione e delle finalità delle indagini, ad esempio attraverso la lettura e la discussione del quesito peritale, la esplicitazione del ruolo e degli obiettivi del consulente d’ufficio e di quelli di parte, e la informazione circa le differenze tra un colloquio peritale ed un abituale colloquio clinico o terapeutico (relatività del segreto circa le informazioni acquisite; carattere valutativo del dialogo; diritto del periziando di riferire unicamente quanto ritenga opportuno ai fini della tutela dei propri interessi, o di rifiutare – senza per questo essere punito in sede valutativa – la esecuzione dei colloquio o dei reattivi mentali). Solamente una “trasparente” informazione del periziando circa questi elementi potrà consentire una corretta delimitazione dei propri confini e delle caratteristiche del dialogo peritale, e potrà quindi permettere un sereno e costruttivo colloquio tra i diversi interlocutori” (Bandini et al, 2000, 23).

 

Durante il colloquio con il periziando è importante che emerga il racconto della persona con tutte le sue caratteristiche. Il consulente deve saper discernere che non è centrale è la veridicità o meno del racconto in quanto tale prerogativa è di competenza del giudice. È il giudice che deve stabilire se ciò che viene riferito corrisponde anche alla verità oggettiva dei fatti. Quello che preme al consulente è di contro, la realtà emotiva, e quindi cosa, come, perché quell’evento in quel particolare soggetto suscita quello o quell’altro vissuto.

 

Ogni consulenza è ad personam, non esiste un caso uguale ad un altro perché nessuno di noi è uguale ad un altro. Per fare un esempio nonostante il danno da lutto possa essere connotato come evento critico in più casi, in ogni nostra consulenza, ogni soggetto, porterà il suo lutto, il suo modo di vivere e concepire la perdita, la sua ansia, la sua tristezza, la sua progettualità futura, tutti elementi che sono prerogativa di lui e di nessun altro.

 

In tal senso, per una maggiore comprensione della persona che si ha di fronte, una volta stabilità la relazione, è utile procedere con una narrazione libera dell’evento per il quale si richiede la consulenza. Anche tale modalità fornirà informazioni. Ad esempio, osservare se il soggetto parla liberamente, senza quindi il bisogno di essere stimolato, di argomenti neutri o estranei all’evento critico e manifesta difficoltà durante la narrazione dell’evento, ci potrebbe far ipotizzare la presenza di ansia, quali emozioni accompagnano l’eloquio libero? Vi è congruità tra emozione e racconto? Una visione in tal senso possiamo dire che è una valutazione globale, precisa e dettagliata. Chi legge deve avere l’impressione che leggendo la nostra consulenza è in grado di ri-vivere quel momento, quella persona, come se fosse stato effettivamente presente.

 

Assieme ad una prima parte dedicata alla narrazione libera ed in prima persona, il consulente potrà procedere alla formulazione di domande chiuse che hanno come fine una maggiore comprensione della realtà così come descritta e vissuta dalla persona in esame.

 

Il fine del colloquio è quindi quello di conoscere il soggetto che abbiamo di fronte, conoscerne i sintomi e le difficoltà. Assieme a lui ricostruire le motivazioni che hanno determinato la richiesta di consulenza, se in ambito di risarcimento del danno, l’evento all’origine della richiesta deve essere ricostruito con molta cura, indagando tutte le implicazioni ad esso strettamente connesse.

 

Importante, ai fini della nostra valutazione, è cercare di carpire un prima-dopo o meglio, la storia di vita prima dell’evento e la storia di vita dopo l’evento, per decidere se e come l’evento abbia influito sul soggetto che abbiamo di fronte.

 

2.3. La valutazione psicodiagnostica

 

Una volta terminata la fase dedicata al colloquio, compito del consulente è quello di sottoporre l’esaminando ad una valutazione psicodiagnostica.

 

Ordunque, compito del consulente sarà quello di scegliere, in base a cosa deve accertare, lo strumento da utilizzare. Si tratta, in poche parole, di farsi un’idea della situazione del soggetto ed andare ad indagare, con criterio e previa preparazione, taluni aspetti piuttosto che altri.

 

In linea generale, possiamo suddividere gli strumenti di psicodiagnostica forensi in categorie distinte:

 

- reattivi grafici;

 

- test proiettivi;

 

- test di livello;

 

- inventari di personalità;

 

- test neuropsicologici;

 

Il buon psicodiagnosta non solo dovrà sapere cosa intende “misurare” quel test e, quindi, se nella situazione specifica quel medesimo test possa essere considerato idoneo ma anche, e soprattutto, deve conoscerne i limiti.

 

Merita spendere poche parole per ciascuna delle categorie di test citate:

 

- Reattivi grafici: all’interno di tale categoria appartengono numerosi test ampiamente utilizzati in ambito forense (es. disegno della figura umana, test dell’albero etc.). La somministrazione di tali reattivi può agevolare l’approccio alla psicodiagnostica dell’esaminando e può aiutare a rinforzare la relazione già in precedenza stabilita. Tali test possono risultare comunque utili con i minori, seppure, interpretazioni in merito devono essere fatte con molte cautele. Infatti, il limite di tali test sono i pochissimi studi sulla attendibilità e sulla validità. Per fare un esempio, circa il reattivo dell’albero di Koch non esistono studi sulla attendibilità e sulla validità e non è mai stata effettuata una standardizzazione italiana;

 

- Test proiettivi: all’interno di tale categoria appartengono il T.A.T., il C.A.T. il noto Rorschach e altri. Nonostante anch’essi trovino larga applicazione in ambito forense, il loro utilizzo non è unanimemente accettato dalla comunità scientifica. Ancora una volta le motivazioni che stanno alla base delle critiche che vengono mosse a questo particolare tipo di indagine prendono le mosse dai criteri di scientificità che caratterizzano la ricerca forense. Per citare il contributo di Tressoldi et al. (2004) si legge in merito all’utilizzo del C.A.T

 

“(…) anche per questo strumento è possibile ottenere misure di attendibilità soddisfacenti, risultano molto deficitari i dati sulla validità. Questo elemento, associato alla scarsità di dati normativi, ne consiglierebbe l’uso solo per indagini esplorative e non per utilizzo clinico o forense” (Tressoldi et al., 2004, 22) .

 

Attorno al Rorschach vi è il grosso problema della discriminazione tra psicopatologia reale e psicopatologia simulata (pensiamo al caso di un ipotetico risarcimento danni da sinistro stradale):

 

“allo stato attuale della ricerca non è possibile trarre alcuna valida inferenza circa il modo in cui la psicopatologia genuina e quella simulata potrebbero essere efficacemente differenziate in base ai soli risultati al test proiettivo stesso. Ciò significa, in termini espliciti, che in presenza di incentivi (non solo di tipo materiale) alla falsificazione, ogni protocollo suggestivo di psicopatologia è virtualmente indistinguibile da uno simulato, a meno di ricorrere ad altri indicatori indipendenti dal proiettivo stesso” (Bianchi, 2009, 98).

 

Ancora,

 

“Ferradini e Funari hanno individuato risposte patologiche in percentuale rilevante nei test somministrati a soggetti valutati nel corso della selezione del personale (Funari, 1998). Si tratta di un dato assai rilevante anche rispetto a valutazioni psichiatrico-forensi e di psicologia-giuridica. Infatti se da un lato nel caso di una somministrazione del reattivo per fini clinici il soggetto potrà “sentirsi giudicato”, nel caso della somministrazione psichiatrico-forense e di psicologia giuridica “è giudicato”, proprio come accade nelle procedure di selezione del personale. E’ dunque lecito aspettarsi un aumento delle risposte patologiche, eventualmente incentivato dalla assenza di una “figura rassicurante” quale quella del perito di parte e ciò senza la tutela giuridicamente prevista. La valutazione opportuna di questa carenza rientra oltretutto nelle raccomandazioni degli stessi cultori del Rorschach tradizionali i quali raccomandano di instaurare un’atmosfera rassicurante e confidenziale per poter somministrare il test. Ciò è tanto importante che taluni terapeuti hanno somministrato il test dopo un certo numero di sedute ottenendo una messe di dati più affidabile ed ampia. E’ vero che i cultori tradizionali del Rorschach sconsigliano la presenza di estranei, ma lo fanno proprio perché potrebbe alterare il setting rassicurante: ciò è pensato per la situazione clinica standard onde evitare il venir meno dell’atmosfera confidenziale e rassicurante con l’intervistatore (si dice ad esempio che non bisogna far assistere i congiunti). Il loro obiettivo è garantire proprio l’atmosfera rassicurante come un sine qua non della validità dei dati ottenuti attraverso il test. Il consulente di parte non induce una diminuzione dell’atmosfera rassicurante, anzi ne fornisce i presupposto minimi, oltretutto previsti dalla legge. Un perito d’ufficio riferisce gli esiti del test a terzi che quindi sono “virtualmente” presenti al colloquio, quindi con una riduzione della rassicurante confidenzialità raccomandata dai rorschachisti, e ciò oltretutto in assenza di figure “amiche” o “fidate” produce proprio le condizioni negative che i cultori del Rorschach invitano ad evitare, con un conseguente più che probabile risultato “patologico” marcato (come è stato osservato nella situazione analoga della selezione del personale), e quindi con una scarsa affidabilità dei risultati. Necessiterebbe dunque lo sviluppo di parametri più attuali e specifici nella valutazione delle risposte del Rorschach in ambito psichiatrico-forense e di psicologia-giuridica ed anche il suo riconoscimento, la teorizzazione e lo sviluppo delle procedure tecniche necessarie per una somministrazione che, anche in tali contesti, garantisca l’esaminato dalle derive in direzione “patologica” dei risultati e fornisca quella atmosfera relativamente rassicurante che lo stesso Hermann Rorschach raccomandava” (Casonato, 1999, 218).

 

- Test di livello: il più utilizzato in riferimento agli adulti è sicuramente la W.A.I.S.-R. mentre è previsto l’utilizzo della W.I.S.C.-R qualora si proceda alla valutazione di adolescenti. Obiettivo dei test di livello è quello di offrire un quadro delle capacità cognitive del soggetto.

 

- Inventari di personalità: “principe” di questa categoria è l’M.M.P.I.-2 seguito dal Millon (M.C.M.I.-III Millon Clinical Multiaxial Inventory). Gli inventari di personalità sono costituiti da frasi a cui il soggetto deve rispondere vero o falso a seconda della sua persona. Il fatto che esistano numerosi studi effettuati sia su soggetti normali che patologici permette che, all’analisi del protocollo del singolo soggetto, lo psicodiagnosta sia in grado di stabilire l’appartenenza del medesimo ad uno piuttosto che ad altri gruppi di riferimento. In ambito forense, inoltre, il loro utilizzo è ben visto dal momento che si può affrontare il problema della simulazione (es. analisi delle scale di validità e indice di Gough nel M.M.PI.-2).

 

“Si comprende come queste proprietà psicometriche degli inventari di personalità ne costituiscano un assoluto punto di forza in ambito forense. Un punto di debolezza, al contrario, è rappresentato dalla lunghezza e dalla complessità sintattica di un certo numero di item, per cui non tutti i soggetti di bassa scolarità e con livello intellettivo scadente possono essere utilmente sottoposti a questo tipo di indagine” (Bianchi, 2009, 100).

 

- Test neuropsicologici: i test neuropsicologici mirano a valutare i diversi aspetti del funzionamento cognitivo di un soggetto (es. memoria, attenzione, linguaggio etc.). L’assunto sul quale si fondano è che, a seguito di un trauma, alcuni processi possono essere stati danneggiati mentre altri risultano indenni:

 

“ E’ l’integrità delle succitate capacità cognitive a garantire l’interazione dell’individuo nel suo contesto socio-culturale e professionale, favorendo la comunicazione e permettendo una gestione funzionale ed ottimale degli impegni ed attività che caratterizzano il vivere quotidiano” (Dominici, 2006, 955).

 

Tra i più noti test neurospicologici vale la pena ricordare il Bender test, il test dei gettoni, il test dell’orologio etc.

 

2.4. Le conclusioni psicologico-giuridiche.

 

Una volta completata la valutazione del soggetto, iniziamo a redigere la stesura delle conclusioni.

 

In tale ottica, prima di tutto quello che deve essere valutato è se, effettivamente, l’evento critico oggetto di causa è stato l’evento che determinato una condizione peggiorativa su una situazione antecedente o che comunque abbia contributo a tale peggioramento. Le formule adottate dal nostro ordinamento giuridico sono quelle dell’id quod prelumque accidit e la teoria della condicio sine qua non.

 

Interessante contributo nell’evoluzione del concetto di causalità nell’illecito civile è il seguente:

 

“il nesso di causalità è regolato anche in materia civile, dall’applicazione dei principi generali che regolano la causalità di fatto, delineati dagli artt. 40 e 41 c.p. e temperati dalla “regolarità causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico configurabile; tale applicazione va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative della responsabilità civile. In particolare, muta la regola probatoria: mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza, o del “più probabile che non” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 581 del 11.01.2008).

 

Dopo aver quindi appurato che, a seguito dell’evento illecito, il nostro esaminato abbia affettivamente subito una modificazione in senso peggiorativo, bisogna esporre le nostre conclusioni attraverso tecniche di argomentazione scientifica metodologicamente validate e largamente accettate.

 

In tal senso è opportuno riportare studi che o citazioni che avvalorano la nostra ipotesi e compiere dissertazioni su quelle che tendiamo ad escludere, esponendo le motivazioni che ci guidano nella scelta.

 

Sicuramente la disponibilità di internet con tutto il bagaglio di nozioni scientifiche facilita il consulente nel proprio compito. L’accessibilità a banche dati permette di ottemperare attenendosi a quei requisiti che rispettino i criteri di scientificità richiesti dall’ambito forense. Tale modo di operare obbliga il consulente ad escludere quel “secondo me” o “in base alla mia esperienza” che, troppo spesso, trovavano spazio nelle aule di Tribunale, riducendo la consulenza psicologica non a qualcosa di concreto ma a qualcosa di astratto, poco tangibile e soprattutto di largamente opinabile.

 

3. Conclusioni

 

Una preparazione idonea del consulente è presupposto necessario ed indispensabile. Sovente si assiste a relazioni effettuate in maniera grossolana e fuorviante. L’invito che desidero inoltrare agli psicologi è che debbano procedere seguendo i binari della metodologia scientifica, dell’umiltà e della prudenza nella valutazione.

 

Un professionista prima di tutto è tale se sa riconoscere i propri limiti. Essere “tuttologi” non giova a nessuno. Troppo spesso assistiamo a delle improvvisazioni che sminuiscono l’importante contributo che la psicologia può portare nelle aule dei Tribunali. Crediamo che ciascuno di noi se si trovasse su un letto operatorio vorrebbe che gli fosse garantito che quel chirurgo è persona competente, non che il giorno prima praticava, magari, come dermatologo. In questo infatti la medicina è molto avanti. Spesso ai convegni sono solita ripetere che tutti i medici sono laureati in medicina e chirurgia ma ognuno si è poi specializzato in quella branca piuttosto che nell’altra ed è questo che determina la scelta del professionista. Se ho una frattura mi rivolgerò ad un ortopedico, se ho un problema al cuore mi avvarrò del medico cardiologo etc. Tale senso critico sembra ancora essere estraneo alla psicologia forense ambito nel quale, tutti, pensano prima o poi di potersi cimentare, dimenticando che, in primis, di fronte abbiamo una persona con tutte le sue peculiarità speranze, ambizioni e delusioni.

 

L’auspicio è che non si dimentichi mai la dimensione della nostra professione.

 

(Altalex, 2 novembre 2011. Articolo di Sara Pezzuolo)

 

BIBLIOGRAFIA

 

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MONDINI S., MAPELLI D., VESTRI A., BISIACCHI P.S., (2003), Esame neurospicologico breve, Raffaello Cortina Editore, Milano.

 

PONTI G. (1992), Danno psichico e attuale percezione psichiatrica del disturbo mentale, in Riv. It. Med. Leg, XIV, pp. 527-545.

 

TRESSOLDI P., BARILANI C., PEDRABISSI L., (2004), Lo stato preoccupante delle tecniche proiettive per l’età evolutiva in Italia, in Psicologia clinica dello sviluppo, a. VIII, n. 1, aprile.

 

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[1] Per una maggiore disamina inerenti i compiti ed il ruolo del CTU e del CTP si rimanda a altri testi specifici della materia. In particolare si fa riferimento a Gulotta G. (2002), “Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico. Civile, penale, minorile”, Giuffrè Editore, Milano.

 

[2] Tale suddivisione è assolutamente di carattere generico e non può essere considerata esaustiva di ogni consulenza dal momento che ciascun elaborato ha in sé la caratteristica dell’unicità.

 

[3] In ordine all’importanza di una precedente valutazione psicodiagnostica è opportuno prendere atto se il cliente ha fatto, in precedenza, eventuali test dato il problema della ripetibilità dei medesimi. Per fare un esempi, i somministratori del reattivo di Rorschach ben sanno che non è opportuno ripetere la somministrazione del reattivo se non sono passati almeno tre anni dalla precedente somministrazione.

 

[4] Sarebbe buona prassi sia per eventuali test grafici che per i protocolli, far apporre la firma dell’esaminando assieme alla data della somministrazione.

 

[5] Per esempio in una consulenza per invalidità sul lavoro si è presentata una signora che era affetta da dermatite atopica severa. Ella presentava elevati livelli di ansia anche se, di contro, non era possibile effettuare nessuna diagnosi in funzione del DSM-IV-Tr. In tale frangente è stato utile ed opportuno citare i risultati di molte ricerche (reperibili sui siti internet maggiormente accreditati dalla comunità scientifica) che spiegavano che l’aumento dei livelli di ansia era in correlazione con la sintomatologia dei soggetti con diagnosi di dermatite atopica severa. Tali ricerche dimostravano che, tali livelli di ansia, erano influenzati in misura maggiore nei pazienti affetti da dermatite rispetto al gruppo di controllo soprattutto se i primi venivano posti in situazioni da loro stessi percepite come altamente stressanti. Tale conclusione ha permesso di avvalorare l’ipotesi che la cliente dovesse essere messa nella condizione di evitare talune circostanze piuttosto che altre dato che, l’aumento dei livelli di ansia, le precludevano, di conseguenza, una prestazione ottimale.

 

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