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ITALIA E EURO: I LIMITI DELL'AZIONE POLITICA-Nel merito.it

 

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di Marcello Messori

Le riunioni delle istituzioni dell’Unione europea (Eu) e dell’Unione monetaria europea (Emu), che si sono susseguite nella seconda metà dello scorso mese di Ottobre, e il G20 di Cannes, che si è svolto all’inizio di Novembre  e che si è ampiamente occupato della crisi europea dei debiti sovrani, hanno prodotto esiti giudicati deludenti.

 

Fatto è che questa crisi non ha trovato soluzione e che il drammatico aggravarsi della situazione italiana sta ponendo a repentaglio la stabilità del nostro Paese e la stessa sopravvivenza dell’area dell’euro.

 

1. Vari commentatori hanno sostenuto che la decisione, assunta dalla nuova Autorità per il settore bancario (Eba) e condivisa dai Paesi centrali dell’Emu, di richiedere alle banche dell’area una valutazione ai prezzi di mercato dei titoli pubblici, iscritti nei loro bilanci, e il temporaneo soddisfacimento di più elevati tassi di capitalizzazione pesati per il rischio o per le plusvalenze – positive e negative - delle loro attività (core tier 1 almeno pari al 9% e un buffer a copertura del rischio di detenzione dei debiti sovrani dei Paesi europei in difficoltà) rischia di produrre ingiustificati effetti asimmetrici. Tale decisione tende infatti a penalizzare i settori bancari dei due maggiori Stati membri periferici (Italia e Spagna), che accusano un’elevata incidenza dei titoli pubblici del paese d’origine rispetto al loro attivo, e ad attenuare l’impatto negativo del rilevante ammontare di strumenti finanziari problematici, che sono ancora detenuti dalle banche francesi e tedesche a seguito della crisi del 2007-’09. Altri commentatori hanno notato che, sommandosi all’inasprirsi del coinvolgimento privato nel fallimento pilotato della Grecia (deprezzamento dei relativi titoli sovrani pari al 50%), questa valutazione ai prezzi di mercato tende a rafforzare l’aspettativa di ulteriori fallimenti nell’area dell’euro (in primis, dei titoli italiani); e i loro timori sono stati rafforzati dall’ipotizzata assicurazione sul 20% degli eventuali deprezzamenti dei titoli pubblici di Paesi dell’Emu, offerta – mediante la stipula di contratti onerosi - dall’attuale meccanismo europeo di sostegno (l’Efsf).

Numerose critiche si sono anche appuntate su un’altra decisione rilevante, assunta dalle istituzioni europee negli incontri della seconda metà di Ottobre: l’ingegneria finanziaria scelta per potenziare le risorse mobilizzabili dall’Efsf senza pesare sui bilanci dei singoli Stati membri dell’area dell’euro. Il ricorso a “veicoli speciali”, da sovrapporre all’originario veicolo speciale lussemburghese (qual è, appunto, l’Efsf), richiama infatti alla mente la costruzione delle opache “catene” di prodotti finanziari che sono state al centro della crisi del 2007-’09. Tali critiche hanno trovato conferma nel rifiuto tedesco di effettuare investimenti aggiuntivi e nella conseguente caduta di interesse rispetto ai nuovi veicoli manifestata al G20 di Cannes dagli Stati Uniti, dai Paesi emergenti e dallo stesso Fondo monetario internazionale.

Eppure le recenti riunioni delle istituzioni europee hanno segnato passi avanti nell’accidentato cammino per la gestione della crisi dei debiti sovrani e per la costruzione di una nuova governance dell’Emu. La scelta di valutare ai prezzi di mercato i titoli pubblici, iscritti nei bilanci delle banche dell’area, rappresenta l’inevitabile reazione alle critiche rivolte ai precedenti stress test, promossi dall’Eba e accusati di azzerare la rischiosità di questi stessi titoli se stabilmente detenuti nei bilanci bancari. Inoltre la previsione di connessi processi di ricapitalizzazione bancaria, incentrati sul ricorso al mercato e – in subordine – su interventi degli Stati membri o dell’Efsf, ricalca il disegno di due programmi che sono stati varati dall’Amministrazione Obama fra il febbraio e il marzo 2009 (ossia, il “Financial Stability Trust” e il “Capital Purchase Program”) e che sono risultati decisivi per l’uscita degli Stati Uniti dalla più grave crisi finanziaria del secondo dopoguerra. E la costruzione di “veicoli speciali”, volti a consentire operazioni con ‘leva’ da parte dell’Efsf, richiama un programma ancora più cruciale di quella stessa iniziativa statunitense di successo: la nuova formulazione del TALF. Infine, la pur faticosa concessione all’Efsf di utilizzare la ‘leva’ finanziaria ha il grande pregio di isolare le operazioni di tale meccanismo di sostegno dal bilancio pubblico degli Stati membri presenti nel suo capitale e di gettare, così, le fondamenta per la costruzione di un vero e proprio Fondo monetario europeo e – in prospettiva – di una politica fiscale unitaria nell’ambito dell’Emu. Quest’ultima prospettiva è stata rafforzata dal pressante controllo, esercitato dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea (Ecb) sulle politiche fiscali degli Stati membri in difficoltà, e può essere positivamente influenzata dall’intervento di consulenza e di monitoraggio rispetto al terzo più grande Paese dell’Emu (ossia l’Italia), attribuito dal G20 al Fondo monetario internazionale. 

 

2. Negli ultimi giorni le reazioni dei mercati finanziari e il precipitare della crisi greca e italiana hanno sottolineato che i progressi di governance, messi in atto dall’Emu alla fine di ottobre, sono insufficienti. Si tratta, quindi, di capire perché ciò che ha funzionato negli Stati Uniti all’inizio del 2009 stia fallendo in Europa alla fine del 2011. Ritengo che la risposta vada trovata in due limiti di fondo delle scelte effettuate dal recente Consiglio europeo: la decisione di sostenere il settore bancario dell’Emu prima ancora che gli Stati membri in difficoltà, come è ben esemplificato dall’opzione di interventi pubblici per la ricapitalizzazione delle banche e – al contempo – da quella del fallimento ‘pilotato’ della Grecia; le resistenze nell’avallare un ruolo di “prestatore di ultima istanza” da parte della Ecb. I due limiti sono collegati. In presenza di un finanziamento potenzialmente illimitato da parte dell’Ecb, l’Efsf potrebbe concentrare i propri sforzi sul sostegno dei corsi dei titoli del debito sovrano di tutti i Paesi dell’Emu in difficoltà. Il che costituirebbe un efficace deterrente rispetto alle persistenti scommesse ribassiste dei mercati internazionali, attenuerebbe gli scompensi di bilancio di buona parte del settore bancario europeo e porrebbe un efficace argine alla lievitazione dei costi bancari della raccolta e al conseguente peggioramento delle condizioni dei finanziamenti concessi alle imprese e alle famiglie.

La Germania e altri Stati membri dell’Europa settentrionale si sono finora opposti a una tale modalità di soluzione della crisi europea del debito sovrano anche per la mancanza di adeguate istituzioni di controllo nell’ambito dell’Emu. La loro preoccupazione è stata quella di non disporre di strumenti credibili in grado di impedire che, una volta sottratti alla destabilizzante disciplina dei mercati grazie al sostegno dell’Efsf e della Ecb e al connesso (implicito) trasferimento di risorse dagli Stati membri centrali agli Stati membri periferici, questi ultimi potessero tornare agli antichi vizi: una gestione permissiva dei loro bilanci pubblici, una scarsa attenzione ai loro vincoli di competitività, la cronicizzazione dei conseguenti disavanzi della loro bilance commerciali. L’ insistente richiesta tedesca di procedere a una revisione dei Trattati e alla costituzione di nuove istituzioni dell’area dell’euro mira a fare sì che, in un orizzonte di medio-lungo periodo, tali problemi trovino una soluzione strutturale e aprano la strada all’unificazione delle politiche fiscali e a un coordinamento più stringente delle politiche macroeconomiche. Il problema è che, nel breve periodo, l’erratica gestione della crisi europea del debito sovrano e la crescente distonia fra i tempi della politica e i tempi del mercato rischiano di compromettere la stessa sopravvivenza dell’area monetaria comune.

La scommessa è di evitare che si realizzi la profezia di Keynes, secondo la quale “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Si tratta cioè di evitare che le tensioni fra soluzioni strutturali di medio-lungo termine e aggiustamenti episodici di breve termine diventino dirompenti. La drammaticità della situazione, che stiamo vivendo in Italia, suggerisce di perseguire al riguardo vie pragmatiche. Il nostro Paese è troppo grande per fallire, perché trascinerebbe nel baratro la stessa costruzione dell’euro, ma è anche troppo grande per essere salvato dalle istituzione europee. Pur se in un quadro di ‘paracaduti’ e di controlli esterni, l’Italia deve innanzitutto salvare se stessa per non essere più identificata come “il” problema dell’Emu e la causa di una nuova recessione mondiale.

 

3. La caduta di reputazione internazionale, che corrode le fondamenta dell’economia italiana e ci rende inermi rispetto alle tensioni dei mercati, ha superato ogni più pessimistica previsione. Dopo i penosi comportamenti, messi in scena dalla maggioranza durante l’iter di approvazione della seconda manovra estiva, e dopo il rito della vuota lettera di intenti, inviata qualche giorno fa alle istituzioni europee, nessuno dei nostri partner e nessun operatore internazionale di mercato pare nutrire la minima fiducia nella capacità del governo Berlusconi di tradurre i pur generici impegni assunti in azioni concrete. Prova ne siano il dettagliato questionario con 39 domande, inviato qualche giorno fa dal Commissario europeo per gli Affari economici – Olli Rehn - al nostro Ministro dell’economia con richiesta di pronta risposta, e l’immediato invio a Roma della delegazione dei controllori europei. Del resto gli indicatori macroeconomici italiani hanno raggiunto soglie critiche che sono così allarmanti da prefigurare un tracollo della nostra economia.

Una deriva tanto negativa risulta reversibile solo se si è in grado di reagire in modo sollecito e con segnali netti. E’ quindi urgente procedere a  quel cambio di governo che sembra derivare dalle annunciate dimissioni del Presidente Berlusconi e dalla nomina di Mario Monti a senatore a vita. Il nuovo esecutivo dovrebbe dare spazio a correzioni e a strategie di politica economica. 

Se una tale precondizione fosse soddisfatta, si porrebbe il problema di disegnare interventi che sappiano arginare l’emergenza nel brevissimo periodo ma che aprano prospettive più sistematiche di cambiamento nel breve-medio periodo. Nel brevissimo periodo si tratta di rendere realizzabile il duplice obiettivo del consolidamento del bilancio pubblico, nei termini e nei tempi concordati con l’Emu, e del graduale riorientamento dell’economia italiana verso una prospettiva di crescita. In un’ottica più sistematica, si tratta di selezionare quei tagli di spesa e quella redistribuzione delle varie voci del bilancio pubblico che sono compatibili con il pareggio di bilancio ma che hanno effetti espansivi o neutri anziché recessivi; e si tratta di selezionare pochi ambiti prioritari di intervento che possano stimolare più direttamente la crescita.

A quest’ultimo riguardo ritengo che, contrariamente a quanto vale a livello internazionale, nel caso italiano i più stringenti ostacoli alla crescita di medio periodo siano posti da vincoli di offerta piuttosto che da vincoli di domanda; ritengo, peraltro, che la nostra economia possa ricollocarsi su un sentiero stabile di crescita solo se sarà capace di allentare gradualmente ambedue i vincoli. Un tale risultato è realizzabile mediante un sensibile incremento nella produttività  del lavoro e nella produttività totale dei fattori e un parallelo adeguamento salariale. Una prima priorità consiste quindi nel rimuovere le “esternalità”, che incidono negativamente sulle scelte di riorganizzazione innovativa delle imprese, e nel selezionare e riallocare gli incentivi a favore delle attività con il maggior potenziale innovativo. La realizzazione di innovazioni induce, peraltro, cambiamenti che sfociano in processi di “distruzione creatrice”: le imprese, incapaci di adattarsi ai nuovi standard di efficienza, sono espulse dal mercato. Nel breve termine, ciò tende ad avere un impatto negativo sulle condizioni occupazionali specie se si parte da una situazione di stagnazione. Una seconda priorità riguarda, perciò, la minimizzazione dei costi del cambiamento innovativo per i lavoratori. Si tratta di costruire una rete efficace di ammortizzatori sociali e percorsi efficienti di riqualificazione professionale, da finanziare mediante le riduzioni di spesa pubblica derivanti dalla maggiore selettività degli incentivi alle imprese.

 

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