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Servizi pubblici locali e obbligo di dismissione: quali novità nella Manovra 2011?  (Riccardo Bianchini)-Altalex.it

 

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1. Si avvicina il termine del 31.12.2011, allo scadere del quale gli enti locali con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti potranno essere obbligati a dismettere (alcune de) le proprie partecipazioni in società di capitali ai sensi dell’art. 14, comma 32 del D.L. n. 78/2010, convertito con modificazioni nella l. 122/2010, come da ultimo modificato con dall'art. 16, comma 27, decreto-legge n. 138 del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011.

 

Oggetto di questa breve analisi è quello di verificare se le ultime innovazioni normative di cui alla l. 148/2011 - ed in particolar modo la riproposizione di una articolata disciplina inerenti il settore dei servizi pubblici locali di cui all’art. 4 della medesima disposizione - possa condurre ad un “ripensamento” di quello che parrebbe oramai un consolidato orientamento delle sezioni regionali della Corte di Conti in merito all’applicazione dell’obbligo di dismettere partecipazioni societarie anche se relative a società operanti nei servizi pubblici locali.

 

Al fine di affrontare tale tematica, conviene innanzitutto ricordare che il tema della partecipazione di enti locali a società di capitali è oramai da alcuni anni costantemente al centro di modifiche normative. Al contempo, tale tema è strettamente connesso alla questione della gestione dei servizi pubblici: la partecipazione dell’ente locale ad una società di capitali è infatti spesso finalizzata all’integrazione dei requisiti per l’instaurazione di un rapporto di in house providing fra ente locale e società.

 

A fianco del rapporto fra partecipazione societaria e affidamento del servizio – “tradizionalmente” centrata sulle società operanti nel settore dei servizi pubblici locali – vi è poi il diverso (ma contiguo) fenomeno della partecipazione di enti locali in società operanti nel settore degli appalti pubblici. Nonostante la spesso difficoltosa distinzione fra i due fenomeni, vi è alterità normativa fra il settore degli appalti pubblici e quello dei servizi pubblici locali: alterità che si riflette anche sulle fonti normative che disciplinano la presenza di società pubbliche in tali settori.

 

Ora, nel corso del 2010 il legislatore aveva emanato alcune disposizioni che, soprattutto nella loro originaria redazione, risultavano di rilevante impatto sull’assetto delle partecipazioni pubbliche inerenti sia il settore degli appalti pubblici che il settore dei servizi pubblici locali, senza effettuare alcuna distinzione fra le due fattispecie.

 

Il riferimento, in particolare, è al già ricordato art. 14, comma 32 del D.L. 78/2010, convertito in l. 122/2010.

 

Tale disposizione – nella versione vigente a seguito del sovrapporsi di successive modifiche – prevede un’articolata disciplina in ordine alla possibilità che gli enti locali costituiscano, o mantengano, partecipazioni in società di capitali; tematica, questa, che già era oggetto di specifiche previsioni in forza dell’art. 3, commi 27 e 29 della l. 244/2007, individuando però un regime diversificato (o meglio una completa esenzione) per le partecipazioni in società operanti nel settore dei servizi di interesse generale.

 

Si è così venuto a creare una difficoltà interpretativa dell’ordinamento vigente che aveva condotto ad un contrasto fra diverse statuizioni, emanate in sede di richiesta di parere, fra diverse Sezioni regionali della Corte dei Conti.

 

In sintesi, il tema era quello di comprendere se i più stringenti divieti introdotti dal D.L. 78/2010 fossero applicabili o meno anche al settore dei servizi pubblici locali, posto che in riferimento a tale settore l’art. 3, comma 27 della l. 244/2007 dettava un vero e proprio esonero dal divieto di costituire società (e dall’obbligo di dismettere partecipazioni sociali).

 

2. L’intento del presente lavoro è quindi quello di verificare in quale misura le disposizioni normative da ultimo introdotte con la c.d. “Manovra di Ferragosto”, ossia con il D.L. 138/2011, convertito in l. 148/2011, possano modificare lo scenario normativo complessivo sul tema in questione, ossia sulla applicabilità degli obblighi di dismissione di partecipazione societarie (e il divieto di costituzione di società) al settore dei servizi pubblici locali.

 

Al fine di svolgere tale disamina conviene innanzitutto ricordare che il dato normativo immediatamente riferibile al settore dei servizi pubblici è il già citato art. 3, commi 27 e ss della l. 244/2007, laddove, nelle parti qui di interesse, è così previsto: “27. Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all'articolo 1 comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, nè assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E' sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all'articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e l'assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all'articolo 1 comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nell'ambito dei rispettivi livelli di competenza. [...] 29. Entro trentasei mesi dall'entrata in vigore della presente legge, le amministrazioni di cui all'articolo 1 comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, cedono a terzi le società e le partecipazioni vietate ai sensi del comma 27."

 

In sostanza, il comma 27 ha posto un divieto di costituzione di nuove società partecipate da enti locali, mentre il successivo comma 29 ha imposto un obbligo di dismettere le partecipazioni “vietate” ai sensi del precedente comma 27.

 

Ora, è da notare come il comma 27 ponga un netto divieto di costituire società ai primi due periodi, giungendo però ad affermare che “E' sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale…”. Locuzione, quella di “servizi di interesse generale”, sicuramente idonea ad includere nell’ambito della previsione i servizi pubblici locali.

 

Pertanto, ai sensi del comma 27 dell’art. 3 citato – tutt’ora vigente – è vietata per qualsiasi amministrazione la costituzione di società che non siano strettamente strumentali al perseguimento degli interessi degli enti locali ma, al contempo, è sempre ammessa la costituzione di società operanti nel settore dei servizi pubblici. (Per inciso, la disposizione non limita la possibilità di costituire società operanti nel settore dei servizi pubblici che agiscano secondo il modulo dell’in house providing, lasciando dunque aperta la possibilità che le amministrazioni costituiscano società che intervengono nel mercato dei servizi pubblici attraverso la partecipazione a gare pubbliche).

 

Ricordata tale disposizione, che fa da sfondo alle considerazioni che seguiranno, è quindi possibile rapportarsi con la disposizione di cui al comma 32 dell’art. 14 del DL 78/2010, il quale nella sua attuale stesura, prevede quanto segue: "32. Fermo quanto previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire società. Entro il 31 dicembre 2012 i comuni mettono in liquidazione le società già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne cedono le partecipazioni. Le disposizioni di cui al secondo periodo non si applicano ai comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti nel caso in cui le società già costituite: a) abbiano, al 31 dicembre 2012, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi; b) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio; c) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime. La disposizione di cui al presente comma non si applica alle società, con partecipazione paritaria ovvero con partecipazione proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più comuni la cui popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una sola società; entro il 31 dicembre 2011 i predetti comuni mettono in liquidazione le altre società già costituite."

 

 Ebbene, la disposizione ora citata prevede una distinzione fra tre tipologie di enti locali: (i) quelli con popolazione inferiore a 30.000 abitanti; (ii) quelli con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti; (iii) quelli con popolazione superiore.

 

Per i Comuni con meno di 30.000 abitanti la disposizione, dopo aver richiamato il contenuto dell’art. 3, commi 27 e ss. della l. 244/2007, impone il divieto di costituire nuove società, nonché l’obbligo di cedere le partecipazioni sociali entro la data del 31.12.2012. Tale obbligo di cessione non si applica tuttavia alle ipotesi in cui concorrano gli elementi di cui alle lett. a), b) e c).

 

La previsione nel suo insieme (ossia divieto di costituzione e obbligo di cessione) non si applica poi alle ipotesi in cui la società sia costituita in modo paritetico (o in modo proporzionale al rispettivo numero di abitanti) fra più Comuni.

 

Per i Comuni con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti, invece, il legislatore prevede espressamente soltanto che tali amministrazioni possano costituire una società. Cosa che parrebbe significare che tali amministrazioni, oltre a quanto consentito ai Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti, potrebbero costituire una ulteriore società; pena, altrimenti, un trattamento ingiustificatamente peggiorativo rispetto ai Comuni di più piccole dimensioni. In sostanza, si crede che l’intera disciplina relativa ai Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti sia applicabile anche ai Comnuni con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti, con l’unica eccezione della possibilità di costituire, per questi ultimi, una società “in più” dei primi, e con la poco comprensibile differenziazione del termine entro cui deve procedersi alla dismissione delle partecipazioni non consentite.

 

Per l’ultima tipologia (ossia Comuni con oltre 50.000 abitanti) la disposizione non è applicabile e dunque rimane immutato lo scenario normativo preesistente.

 

3. Ebbene, la principale difficoltà interpretativa è dunque quella di conciliare tale disposizione con la previgente norma di cui all’art. 3, commi 27 e ss. della l. 244/2007. O, meglio, quella di comprendere con esattezza il significato della locuzione “fermo restando quanto previsto dagli articolo 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244” posto quale incipit dell’intero comma 32 dell’art. 14 del DL. 78/2010.

 

Come visto, infatti, il comma 27 citato, da un lato pone l’espresso divieto di costituire nuove società non strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali del Comune e il comma 29 citato pone l’altrettanto espresso obbligo di cedere le partecipazioni non consentite dal comma 27; dall’altro lato, invece, proprio il comma 27 contiene la “risonante” affermazione secondo cui “E' sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale…”.

 

Dunque, rimane arduo comprendere se ciò che resta fermo, ai sensi dell’art. 14, comma 32 del DL 78/2010, sia il divieto di cui al comma 27 di costituire e mantenere partecipazioni, oppure se ciò che rimane fermo sia la facoltà di costituire “sempre” società operante nei servizi pubblici locali (come detto, certamente rientranti nel novero della più ampia categoria dei servizi di interesse generale).

 

Gli scenari, nell’uno o nell’altro caso, risultano molto diversi.

 

Nel primo caso, infatti, il divieto di cui al comma 27 (e l’obbligo si cessione di cui al comma 29) si sommerebbe al divieto (e all’obbligo di cessione) di cui all’art. 14, comma 32.

 

Nel secondo caso, invece, il divieto di costituzione di società (e l’obbligo di dismetterne le partecipazioni) di cui all’art. 14, comma 32 non sarebbe applicabile all’ipotesi di società operanti nel settore dei servizi pubblici.

 

Tale dubbio interpretativo è stato fino ad oggi affrontato da varie sezioni regionali della Corte dei Conti, le quali hanno avuto modo di emanare delibere rilasciate a fronte di richiesta di parere  preventivo da parte di singoli Comuni.

 

 4. Nell’effettuare tali valutazioni, mentre alcune iniziali pronunce della sezione Puglia della Corte di Conti avevano aderito all’impostazione meno restrittiva per le amministrazioni locali, è sembrata prevalere, successivamente, l’orientamento di opposto tenore fatto proprio dalla sezione Lombardia.

 

Più in particolare, le prime pronunce della sezione Puglia (delibere n. 76/2010/PAR e, con più diffuse argomentazioni, n. 129/2010/PAR) affermavano che anche i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti potessero costituire società di capitali se finalizzate alla gestione di servizi pubblici locali. Ciò, come si riprenderà nel prosieguo, evidenziando come la specialità delle disposizioni inerenti la gestione dei servizi pubblici (ossia l’allora vigente art. 23bis del DL 112/2008) dovesse prevalere sulla norma di ordine generale di cui al DL 78/2010 (v. soprattutto delibera n. 129/2010/PAR). In altri termini, poiché la legislazione relativa ai servizi pubblici presuppone che ciascun Comune possa costituire società partecipate cui affidare la gestione dei servizi secondo il modello dell’in house providing, le limitazioni introdotte dall’art. 14 comma 32, del DL 78/2010 non potrebbero trovare applicazione in tale contesto normativo.

 

Per cui, la locuzione “fermo quanto previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244” dovrebbe necessariamente interpretarsi nel senso che ciò che rimane fermo è la facoltà di costituire comunque società operanti nel settore dei servizi pubblici.

 

Successive pronunce di altre sezioni regionali della Corte dei Conti sono tuttavia andate in direzione opposta.

 

In particolare, la sezione Lombardia ha avviato un orientamento fondato sull’opposto presupposto secondo cui le due disposizioni normative (art. 3, comma 27 della l. 244/2007 e l’art. 14, comma 32 del DL 78/2010) opererebbero su due piani ben distinti, di modo che il legislatore avrebbe voluto mantenere ferma la generale previsione, operante per ogni tipologia di amministratore, di vietare la costituzione di società che non siano strettamente connesse al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente, introducendo, solo in relazione alle partecipazioni societarie dei Comuni, un limite numerico e quantitativo alla partecipazioni stesse.

 

Ebbene, tale secondo orientamento della sezione Lombardia (sfociato nelle delibere nn. 861/2010/PAR del 15 settembre 2010, 952/2010/PAR e 959/2010/PAR del 13 ottobre 2010) ha trovato l’adesione delle sezioni Liguria (delibera n. 166/2010/PAR del 31 dicembre 2010), Piemonte (delibera 92/2010/PAR del 17 dicembre 2010) ed Emilia Romagna  (delibere nn. 4/2011/PAR del 17 febbraio 2011 e 30/2011/Par del 17 giugno 2011). Tant’è che anche la sezione Puglia della Corte dei Conti, modificando il proprio precedentemente orientamento, è giunta ad aderire all’impostazione maggiormente restrittiva affermando che “Da un lato si potrebbe sostenere che la locuzione “fermo quanto previsto…” sia da intendere nel senso che anche per i comuni con popolazione  inferiore a 30.000 abitanti  ad essere vietate siano esclusivamente le società che abbiano ad oggetto sociale attività non rientranti nei fini istituzionali dell’Ente; ma in tal caso, può fondamentalmente essere obiettato, la precisazione contenuta nell’art. 14 co. 32 risulterebbe priva di sostanziale contenuto, mera ripetizione di quanto già previsto per i comuni a maggiore densità abitativa, in buona sostanza inutile ripetizione dell’art. 3 comma 27 cui è operato il rinvio. Una lettura alternativa, invero maggiormente restrittiva, del disposto normativo fa ritenere che i comuni inferiori a 30.000 abitanti non possano, in assoluto, costituire società, né detenere più alcuna partecipazione azionaria, dovendo dismettere quelle già possedute”. (Sezione regionale Puglia della Corte dei Conti, delibera n. 12/2011/PAR del 2 marzo 2011)

 

La ricostruzione a cui, in modo compatto, sembrano giunte le varie sezioni regionali della Corte dei Conti porterebbe dunque a ritenere che, ad oggi, i Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non potrebbero costituire alcuna società (mentre i Comuni con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti potrebbero, sempre se nel rispetto dell’art. 3, comma 27 della l. 244/2007, costituire una sola società).

 

 6. Come si è avuto di vedere in apertura, il legislatore ha tuttavia previsto la possibilità di non applicare tale divieto di costituzione di società per le ipotesi in cui più enti locali partecipino ad una medesima società in modo paritetico o proporzionale al numero di rispettivi abitanti, qualora sia superata la soglia di 30.000 abitanti.

 

Ora, svolte queste considerazioni inerenti il divieto di costituzione di nuove società, riguardo al quale avevano potuto confrontarsi le sezioni della Corte dei Conti, occorre affrontare il connesso tema dell’obbligo di dismissione delle partecipazioni attualmente in essere: tema, questo, non sempre espressamente affrontato nelle delibere di cui si è dato conto, ma che trova il proprio svolgimento logico nelle medesime considerazioni esposte al fine di esaminare l’ambito di applicazione del divieto di costituzione di nuove società.

 

Al riguardo, conviene dunque sintetizzare il portato dell’orientamento sopra ricordato, evidenziando come, così ragionando, alla data del 31.12.2011 dovrebbero provvedere alla dismissione delle partecipazioni i Comuni con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti (assai poco coerentemente, per quelli con popolazione inferiore a 30.000 abitanti il termine è al 31.12.2012).

 

Una deroga a tale obbligo di dismissione deve però ritenersi applicabile per le società costituite in modo paritetico o proporzionale al numero di abitanti fra più amministrazioni locali, posto che la costituzione di una tale società risulta comunque consentite.

 

Ulteriore deroga è poi prevista (invero, in modo espresso solo per i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti, ma la previsione sembra analogicamente applicabile anche all’altra categoria di Comuni) nel caso in cui le società:  “a) abbiano, al 31 dicembre 2012, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi; b) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio; c) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune sia stato gravato dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.”

 

A fronte di tale scenario, conviene dunque svolgere alcune considerazioni conclusive che prendono in esame la portata dell’art. 4 della l. 148/2011.

 

Come rilevato anche dalla sezione Lombardia della Corte dei Conti (v. delibera 959/2010/PAR del 13 ottobre 2010, e come più diffusamente argomentato nella delibera n. 129/2010/PAR della sezione Puglia della Corte dei Conti, vi è uno stretto legame fra il meccanismo di in house providing e la costituzione di (o il mantenimento di partecipazioni in) società controllate da parte dell’amministrazione comunale, in quanto l’affidamento del servizio presuppone che l’amministrazione sia necessariamente essere “munita” di una propria società controllata.

 

Proprio tale stretto legame fra partecipazione societaria e affidamento in house, riprendendo le considerazioni a suo tempo svolte dalla Corte dei Conte sezione Puglia nel suo primo orientamento,  potrebbe risultare oggi un elemento di più ampia portata al fine di ritenere che il settore dei servizi pubblici sia escluso dall’applicazione dell’obbligo di dismissione in questione.

 

Infatti, al momento in cui si era formato il primo orientamento della sezione Puglia della Corte dei Conti, e al momento in cui è maturato l’opposto prevalente orientamento, la disciplina dei servizi pubblici locali era improntata ad una fortissima disincentivazione del mantenimento di rapporti di in house providing.

 

L’allora vigente art. 23bis del DL 112/2008 prevedeva infatti che l’affidamento in house dovesse essere una eccezionale deroga al modello di affidamento tramite gara (o tramite modelli di partnerariato pubblico-privato). La disposizione prevedeva che solo a seguito di un ampio iter procedimentale, dal quale emergesse l’impossibilità di rivolgersi al mercato per l’individuazione del soggetto gestore, l’amministrazione locale avrebbe potuto utilizzare il modello dell’in house providing, previo, peraltro, parere della competente autorità indipendente di settore.

 

Tuttavia, a seguito del referendum abrogativo del giugno 2011 e, soprattutto, della riscrittura dell’intera disciplina di settore, deve ritenersi che lo scenario di fondo sia completamente cambiato.

 

Il legislatore, infatti, proprio per aderire al portato dell’esito referendario ha riproposto il precedente art. 23bis inserendo una rilevantissima innovazione: l’assoluta libertà per ciascun ente locale di procedere ad affidamenti diretti entro la non irrilevante soglia di 900.000 euro/annui per ciascun servizio.

 

In sostanza, la disciplina di settore prevede – a differenza del passato contesto normativo - un maggior favore (o forse minor sfavore…) nei confronti dell’affidamento in house.

 

Da tale  mutamento potrebbe quindi derivare una diversa ricostruzione del rapporto fra le due norme di cui si è fin qui discusso: ossia l’art,. 3, comma 27 e 29 della l. 244/2007 e l’art. 14, comma 32 del DL 78/2010.

 

Potrebbe cioè ritenersi che l’apertura dell’ordinamento effettuata a favore dell’in house (peraltro imposta dall’esito referendario) debba condurre, quanto meno, ad un diverso atteggiamento mentale di ciascun interprete nei confronti degli obblighi di dismissione di partecipazioni societarie. E questo proprio perché la sussistenza della partecipazione societaria risulta l’imprescindibile (o comunque l’assai difficilmente prescindibile) presupposto della legittimità dell’affidamento in house.

 

La modifica normativa di cui alla c.d. “manovra di Ferragosto”, sfociata nell’articolata disciplina imposta dall’art. 4 della l. 148/2011 che ripropone senza limitazioni (entro il predetto limite di valore) la possibilità di procedere ad affidamenti in house, potrebbe dunque indurre ad un ripensamento di quello che è stato, fin qui, l’interpretazione maggiormente adottata in sede istituzionale del rapporto fra le due disposizioni sopra ricordate.

 

Per di più, vale la pena di evidenziare che proprio l’individuazione di un limite di valore agli affidamenti in house tende ad escludere che i Comuni di più ampie dimensioni possano avvalersi di tale istituto, mentre i Comuni di più limitate dimensioni potranno utilizzare tale modello di affidamento anche per servizi di estrema rilevanza economica. Ma, come visto, la disciplina sulla dismissione delle partecipazioni societarie segue un cammino esattamente opposto,  obbligando a privarsi delle proprie società controllate proprio i Comuni di più piccole dimensioni, che avrebbero invece miglior gioco ad avvalersi di esse entro la predetta soglia di valore di 900.000 Euro/annui.

 

Concludendo dunque l’analisi condotta, dalla quale sembrano emergere elementi tali da spingere ad una nuova riflessione sul tema dell’applicabilità dell’obbligo di dismissione delle partecipazioni al settore dei servizi pubblici, non può che rinviarsi ogni altro spunto di riflessione alle annunciate misure inerenti le dismissioni di partecipazioni “promesse” all’Unione Europea.  Misure che, assai verosimilmente, contribuiranno a rinnovare quel moto perpetuo a cui sembra destinato lo scenario normativo in questione.

 

  Articolo di Riccardo Bianchini)

 

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