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Il duello tra i poteri e il messaggio di Falcone di Sergio Lorusso-Postilla.it

 

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L’ultimo duello tra politica e magistratura si è consumato lunedì scorso a Palermo, in occasione di un Convegno svoltosi nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone - significativamente intitolato “Giovanni e Paolo, due italiani” - dedicato alla memoria di due uomini simbolo della lotta alla mafia: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Parlando della riforma costituzionale della giustizia promossa dall’esecutivo, il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha infatti affermato che non si tratta di una riforma della magistratura bensì dell’assetto dei poteri dello Stato, e che “non è facile porgere l’altra guancia a chi ci schiaffeggia quotidianamente additandoci come un cancro da debellare”; il Guardasigilli Angelino Alfano ha replicato che il Governo intende preservare l’autonomia della magistratura, ricordando altresì come Falcone fosse un fautore della separazione delle carriere requirenti e giudicanti.

Mettendo da parte pregiudizi e livori che ormai da quasi due decenni contrappongono politica e magistratura, e ignorando infelici sortite e slogan propagandistiche, bisognerebbe davvero cogliere l’essenza del messaggio di Falcone, l’eredità lasciata da un magistrato che, da vivo e soprattutto nell’ultimo periodo della sua esistenza, non è stato molto amato dai suoi colleghi, nonostante la glorificazione postuma.

 

Candidato al CSM nel 1990, non viene eletto nonostante l’indiscussa autorevolezza (e popolarità) raggiunta; accolto l’invito del Ministro della giustizia pro tempore Claudio Martelli di trasferirsi a Roma quale direttore degli Affari penali, è oggetto di critiche da parte delle toghe e del mondo politico per la sua vicinanza al Partito socialista. Biasimato per aver sfruttato la sua notorietà al fine di ottenere incarichi prestigiosi e, probabilmente, per una incipiente carriera politica, finisce davanti al CSM, ma come “imputato”, al culmine della stagione dei veleni palermitana che, di fatto, sancisce la fine del pool antimafia e determina il completo isolamento di Giovanni Falcone nella sua terra d’origine. Si fa strada persino il dubbio che l’attentato alla sua residenza estiva dell’Addaura, avvenuto il 21 giugno 1989, sia tutta una messa in scena da lui abilmente orchestrata.

 

Ed invece Falcone nella Capitale cerca soltanto di mettere a frutto la sua esperienza e le sue capacità investigative per gettare le basi di più efficaci strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Primo fra tutti, l’istituzione della “Superprocura”, la Procura nazionale antimafia cui era naturalmente destinato: il progetto però suscita una levata di scudi da parte dell’ANM, che paventa una lesione dell’autonomia della magistratura ed un pericoloso assoggettamento all’esecutivo. Ieri come oggi, verrebbe da dire. E la sua candidatura è fortemente avversata proprio dall’interno, trovando insperato sostegno in Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica e del CSM, che dichiara: “mi debbono spiegare perché un illustre sconosciuto come Cordova oggi sia migliore di Falcone”.

 

Da magistrato cresciuto nella cultura nordamericana del processo, quel processo accusatorio che il nostro ordinamento ha accolto oltre vent’anni fa, Giovanni Falcone era decisamente favorevole alla separazione delle carriere, e non certo per fini reconditi: “un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa”, mentre il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti“, afferma in un’intervista a La Repubblica del 3 ottobre 1991, sottolineando come contraddica tale visione “il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri“. E conclude amaramente osservando che “chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del pm con questioni istituzionali totalmente distinte“.

 

Un magistrato controcorrente, insomma, un uomo scomodo, forse anche per questo lasciato pericolosamente soloPericolosamente perché, come egli stesso ammonisce profeticamente in una delle sue ultime interviste, “si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno“, ed è quello che accade anche in Sicilia, dove “la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere“. O, magari, che lo Stato non vuole più proteggere.

 

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