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Il giudice dell’esecuzione e quella "manifesta violazione del diritto" Massimiliana Battagliese –Altalex.it

 

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Così mentre svolgerò la funzione di giudice dell’esecuzione ci sarà un altro oscuro principio con cui dovrò fare i conti.

L’opera propria del giudice, di interpretazione e di applicazione della legge, dovrà svolgersi non solo tenendo conto delle insidie che si annidano dietro e dentro taluni canoni normativi soggetti a una pluralità di significati. Per non parlare del tecnicismo proprio della procedura esecutiva, più o meno meglio definito con la riforma del 2005, che ha sostanzialmente codificato quanto faticosamente i giudici dell’esecuzione andavano rendendo più fluido e conforme alla logica e allo spirito dell’espropriazione forzata: le cosiddette prassi virtuose. Quindi, dicevo, non solo dovrò fare i conti con le esigenze di tutela del debitore esecutato, del creditore e dell’aggiudicatario, ma, d’ora in poi, dovrò fare i conti niente meno che con la mia tutela: dovrò applicare la legge facendo attenzione a non compiere una violazione “manifesta del diritto”.
In sostanza l’estensione della responsabilità dei giudici anche a tale ipotesi è o completamente inutile o pericolosa, in primo luogo per i cittadini. Ma, per farlo comprendere è necessario chiarire qualche punto sulla questione che ora vede la politica e la magistratura al centro di un vero e proprio scontro.

Tuttavia, il vero significato dell'attuale dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati non deve essere ridotto allo slogan “chi sbaglia paga”, che certamente fa effetto sull’opinione pubblica, ma che, in realtà, raggiunge l'obbiettivo di fuorviare i cittadini dal contenuto proprio dell’attuale normativa.

Il principio della violazione manifesta del diritto, infatti, pone il giudice in un’ottica innanzi tutto di tutela di se stesso, con la conseguenza che necessariamente non potrà compiere l’opera connaturata all’esercizio della funzione giurisdizionale, che è di interpretazione e di applicazione della legge.

In realtà il punto di equilibrio tra l’esigenza di garantire i beni e i diritti dei cittadini vittime di errori giudiziari e di quella di evitare condizionamenti al magistrato nell’esercizio delle sue funzioni è già stato ampiamente raggiunto con la legge 18 aprile 1988, n. 117, intitolata “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”, laddove concede una tutela “ad hoc” per coloro i quali ritengono di essere stati danneggiati ingiustamente dall’esercizio delle funzioni giudiziarie.

E’ vero che il giudice si costituisce in giudizio nella persona dello Stato, ma, del resto, il filtro dello Stato è addirittura previsto dalla legge che disciplina la responsabilità civile degli insegnanti pubblici, per i quali è prevista l’azione contro l’amministrazione e non contro la persona dell’insegnante; e poi l’amministrazione agisce in rivalsa nei confronti dell’insegnante.

In realtà non vi è nulla da aggiungere al quadro normativo già esistente, anche perché con la citata legge n. 117/88 si è già data attuazione completa all’art. 28 della Costituzione che fissa la regola, valida per i funzionari e i dipendenti pubblici, della loro responsabilità diretta per “gli atti compiuti in violazione di diritti”, secondo “le leggi penali, civili ed amministrative” .

L’ultimo comma di detto articolo 28 precisa che la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.

L’art. 2 della legge del 1988 citata prevede che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale”.

Cosa vuol dire, allora, gridare nei messaggi mediatici che il giudice deve rispondere personalmente, se non far passare una sorta di supertutela al cittadino che suona “guarda che noi ti proteggiamo dagli errori del giudice che, con la nostra legge, sarà più attento perché risponderà “personalmente”, non solo, ma per qualunque “violazione manifesta del diritto”?!

Niente di più falso. E bisogna spiegare che i motivi non sono solo quelli, di salvaguardia dell’indipendenza e quant’altro segnalato dagli organi rappresentativi della magistratura, ma trovano giustificazioni di tipo squisitamente tecnico-giuridico, al punto che l’innovazione legislativa costituirebbe una vera e propria stortura del diritto.

Il principio del filtro statuale nella responsabilità civile, previsto nella Costituzione per i funzionari pubblici, è addirittura imprescindibile per i magistrati proprio in rapporto alla natura della funzione giudiziaria che è funzione statuale; non si deve, non si può dimenticare la portata costituzionale della figura del magistrato secondo cui egli è organo-potere, impersonale, ed è organo che rende concreto il comando che lo Stato ha indicato nella legge mediante l’applicazione delle norme astratte nei casi concreti: la responsabilità civile resta personale, della persona fisica –giudice che ha commesso l’errore, ma è lo Stato che compare in giudizio attraverso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che rappresenta il magistrato. E chi altri se il magistrato è l’espressione del potere giudiziario dello Stato? Personalizzare la responsabilità del giudice, allo stato, non significa altro che minare in modo tangibile l’opera del giudice con altre insidie nell’applicazione delle leggi; un’insidia, che senz’altro incide sulla sua capacità di lavorare ispirato al primario canone dell’imparzialità: e come potrebbe se deve tutelare se stesso?

In realtà la legge sulla responsabilità civile esiste già, e gli avvocati più preparati che la conoscono la fanno anche valere, citando in giudizio il giudice che ha commesso un errore con colpa grave per il risarcimento dei danni. Il giudice, del resto, è assicurato per far fronte a tale evenienza, connaturata all’esercizio della funzione.

Ma perché il giudice risponde solo per colpa grave? Ecco cosa deve essere chiarito al cittadino-utente della giustizia e non al cittadino-elettore. Spero di esporlo nel modo più semplice; anche perchè davvero non è un concetto facile da esporre e trasmettere: le norme del codice di riferimento primario sono due (artt. 1176 e 2236 c.c.), dalle quali emerge il principio, come approfondito dalla giurisprudenza, secondo cui per le professioni intellettuali si risponde in due modi diversi, a seconda dell'attività esercitata: la responsabilità risarcitoria scatta in ogni caso per il professionista quando il danno è cagionato per negligenza, imprudenza e imperizia, quindi per la canonica colpa; scatta, invece, solo per colpa grave quando si tratta di affrontare questioni di particolare complessità. Ossia, quando l'errore è più grave perchè era sufficiente il minimo di prudenza e diligenza (colpa grave significa che si risponde per l'errore stupido che non poteva essere commesso); così se il medico fa morire un paziente per un raffreddore deve rispondere secondo le normali regole di perizia e di diligenza (perchè ha commesso un errore molto grave in rapporto alla semplicità della malattia), se invece lo fa morire in un delicato intervento chirurgico, la responsabilità si limita alla colpa grave che, al contrario di quanto può sembrare dalla parola "grave", si ha se ha commesso un errore grossolano che poteva evitare con il minimo della diligenza. Allora è evidente che il magistrato deve rispondere solo per colpa grave, essendo ontologicamente la funzione giudiziaria particolarmente complessa; ed è in ragione di tale complessità, propria dell'interpretazione e dell’applicazione della legge che sono previsti i tre gradi di giurisdizione.

Del resto, gli stessi avvocati -per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, che ha ribadito il principio già emergente dalle due norme sopra indicate (artt. 1176 e 2236 del codice civile)- rispondono nei confronti del cliente per violazione della normale prudenza e diligenza quando si tratta di accertare un danno connesso all’attività svolta nell’esercizio della professione in virtù del rapporto di mandato conferitogli dal cliente, ma risponde solo per colpa grave nell’interpretazione della legge, proprio perché questa è attività di particolare complessità!

Ma la richiamata legge del 1988 ha già equiparato il magistrato agli altri professionisti secondo il regime di responsabilità vigente in materia di colpa nelle prestazioni d’opera. Estendere la responsabilità del magistrato fuori dalla colpa grave significa creare una inspiegabile disparità di trattamento che non giova al cittadino.

Allora, il concetto di manifesta violazione del diritto significa troppo, perchè sotto il profilo tecnico-giuridico non significa nulla: "manifesta violazione" è tutto ciò che appare “ictu oculi” (immediatamente) come “contra ius” (contrario al diritto). Ma se ciò che è manifestamente violato già rientra, per ciò stesso, nel canone della colpa grave (perché è facile comprendere che si sta commettendo una violazione, in quanto manifesta), e quindi è inutile ribadirlo, non si può comprendere, invece, cosa non si deve violare. Si parla, infatti, di manifesta violazione "del diritto". Ma diritto è tutto ciò che risponde a regole ordinamentate : quale diritto? Quello, ad esempio, di vedere tutelata la privacy mentre si tiene udienza? No, non solo quello. Forse allora quello di cui si controverte? E come si individua il diritto controverso quando ancora non si sa a chi spetta? Quando, ad esempio, la tutela in via d'urgenza appare dell'una parte e poi nel merito della cognizione piena risulta della controparte? Quale diritto non deve essere manifestamente violato? Forse quello costituzionale dell'uguaglianza di trattamento? E come farà poi il giudice a cambiare orientamento in un momento successivo quando si accorga della possibilità di un’interpretazione meno rigorosa di una norma e possa, dunque, decidere in senso più favorevole al cittadino??!!

Il richiamo alla Corte di giustizia Europea che in questi giorni leggo è altrettanto deviante.

Quando viene divulgato che la Corte nel 2006 ha precisato che “il diritto comunitario osta a una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o di colpa grave del giudice” NEI CASI “in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto ‘vigente’”, deve essere chiarito che questa formulazione è cosa ben diversa dal dire in una norma che il giudice risponde ANCHE, come una responsabilità ulteriore, per ogni violazione manifesta del “diritto”, semplicemente.

“Diritto vigente” è un canone che si autoqualifica e consente la immediata percezione del significato. Infatti, la Corte ha solo voluto precisare una corretta interpretazione della normativa in materia di responsabilità dei giudici, sottolineando il dato tecnico-giuridico in base al quale la colpa grave sussiste proprio nel caso in cui si commette una manifesta violazione del “diritto vigente”, come dire quando il giudice ha, grossolanamente, in maniera evidente, disapplicato una legge che vige, ignorandola: quindi, si rientra proprio nel concetto di colpa grave sopra illustrato.

Direi al legislatore di fermarsi a riflettere.

Articolo di Massimiliana Battagliese)

 

 

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