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RINGIOVANIRE GLI ELETTI O GLI ELETTORI?di Roberto Cerreto-Nel merito.it

 

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ringiovanire eletti o elettoriNel Consiglio dei ministri del 15 aprile è stato approvato, su proposta dei ministri Meloni e Calderoli, un disegno di legge costituzionale volto a promuovere la partecipazione dei giovani alla vita economica, sociale, politica e culturale della Nazione.

 

Stando a quando reso noto dal ministro Meloni nella consueta conferenza stampa post-Consiglio, il ddl introduce, innanzitutto, un nuovo art. 31-bis della Costituzione, in base al quale la Repubblica valorizza, secondo criteri e modalità stabiliti dalla legge, il merito e la partecipazione attiva dei giovani alla vita sociale, politica e culturale della Nazione.

Come ha rilevato “a caldo” T.E. Frosini (www.loccidentale.it, 18 aprile), questa norma potrebbe fornire di “copertura” costituzionale eventuali leggi ordinarie volte a favorire i giovani, a scapito dei meno giovani (altrimenti il problema di costituzionalità non si porrebbe), sul presupposto che in Italia i primi siano oggi ingiustamente penalizzati. L’intenzione di per sé è lodevole. Ma se l’obiettivo è questo, la formulazione avrebbe potuto essere più incisiva. Per restare al parallelo con le pari opportunità uomo-donna, suggerito dallo stesso Frosini, bisogna ricordare che l’art. 51 Cost. si è dimostrato insufficiente a legittimare “discriminazioni positive” a favore delle donne finché non vi fu aggiunto, nel 2003, il periodo finale sulla promozione “con appositi provvedimenti” delle “pari opportunità tra donne e uomini”.

Ma l’intenzione, come si diceva, è senz’altro lodevole.

Il ddl in questione non si limita però alle norme di principio. Esso modifica, infatti, l’elettorato passivo per Camera e Senato, equiparandolo all’elettorato attivo e abbassandolo perciò a 18 anni (contro gli attuali 25) per essere eletti deputati e a 25 (contro i 40 di oggi) per l’elezione a senatore.

I requisiti di età per votare ed essere eletti alle elezioni politiche sono oggetto di riflessioni ricorrenti. In linea di massima, si può ritenere che in Parlamento vi sia un consenso potenziale abbastanza ampio sull’abbassamento (di alcuni) dei requisiti attuali. Il problema è, ovviamente, quali requisiti sia opportuno abbassare, e di quanto. Il ddl del Governo, ad esempio, non incide sull’elettorato attivo, ma si limita a modificare quello passivo (riducendolo addirittura di 15 anni per il Senato).

Ora, poiché la legge elettorale delle Camere, com’è noto, caratterizza in modo decisivo la forma di governo, non si dovrebbe prescinderne quando si valutano le norme (anche formalmente, oltre che sostanzialmente) costituzionali sull’elettorato. E proprio la legge elettorale rende a mio avviso inutilizzabili tre argomenti, in apparenza molto forti, che vengono spesso invocati per sostenere l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo, cioè la strada scelta dal ddl in questione.

Il primo: non si vede perché a 18 anni si possa essere eletti sindaci o presidenti di provincia o, addirittura, di regione, ma non deputati. Un possibile perché, in realtà, si vede bene: perché i sindaci e i presidenti di provincia e di regione sono scelti dai cittadini, che possono valutarne le qualità personali e la maturità per ricoprire una certa carica. Per i deputati questo non è al momento consentito dalla legge elettorale.

Secondo argomento a favore, evocato dallo stesso ministro Meloni nella conferenza stampa di presentazione del ddl: in Germania, Regno Unito e Spagna l’età minima per l’ingresso in Parlamento è fissata a 18 anni (e anche in Francia si va in questa direzione). È vero. Ma – a prescindere dai limiti intrinseci a qualunque comparazione, che, per essere decisiva, dovrebbe prendere in considerazione un numero elevato di Paesi, e confrontare non un solo dato normativo, ma tutti quelli ad esso connessi, a cominciare, nel caso di specie,  proprio dalla legge elettorale nel suo complesso – in nessuno di questi Paesi la totalità dei parlamentari è eletta con il sistema delle liste bloccate. Maggior valore comparativo ha, invece, l’argomento utilizzato da Lupo nel suo articolo del 21 gennaio scorso: nessuna democrazia al mondo prevede uno scarto di 7 anni nella composizione dell’elettorato delle due Camere (e, del resto, non lo prevedeva neanche la nostra Costituzione, perché quando fu approvata la maggiore età si conseguiva a 21 anni, non a 18): la comparazione, dunque, dovrebbe indurre a rivedere piuttosto i requisiti dell’elettorato attivo.

Il terzo argomento, impiegato da Rosina e Balduzzi nel loro articolo del 27 gennaio, è il seguente: abbassare l’età per l’elettorato passivo promuove il merito, perché “la scelta del più adatto a ricoprire un ruolo va basata sulla valutazione delle capacità, indipendentemente dall’età”. Affermazione di principio certamente condivisibile. Ma perché mai, se un sistema basato sulla cooptazione non premia il merito tra gli over 25, dovrebbe funzionare meglio, cioè in modo meritocratico, tra gli under 25? Il motivo non si capisce, forse perché non c’è…

Se, allora, si intende davvero promuovere la partecipazione politica dei giovani alla vita della Nazione e, al tempo stesso, favorire l’adozione di politiche legislative più attente alle esigenze dei giovani, bisogna forse scegliere una strada in parte diversa, cioè quella di consentire a tutti i maggiorenni di votare per eleggere entrambe le Camere. E’ evidente, infatti, che questo indurrebbe tutti i parlamentari, senatori compresi, e i partiti politici a tenere in maggiore considerazione il giudizio degli elettori più giovani. Del resto – come ricorda, tra gli altri, Pietro Ignazi nel suo classico saggio sui partiti italiani – fu proprio il voto ai diciottenni (per l’elezione della Camera) nel 1975, in seguito all’abbassamento della maggiore età, a produrre un “massiccio ricambio elettorale”. Inoltre, come già ricordava Lupo nell’articolo citato, la coincidenza del corpo elettorale ridurrebbe, seppur di poco, il rischio di maggioranze diverse nelle due Camere. E questo, finché non si procede alla riforma del bicameralismo paritario, è comunque un bene.

 

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