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Il decreto sviluppo e la tutela dei beni culturali-Come scardinare un ‘sacro principio’ senza colpo ferire (art. 4 comma 16 del decreto legge 70 del 2011)-LeggiOggi.it

 

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Alessandro Ferretti

 

E’ di questi giorni l’approvazione in Consiglio dei Ministri del c.d. Decreto Sviluppo (decreto-legge n. 70 del 2011, pubblicato sulla G.U. – Serie Generale n. 110 del 13 maggio 2011) che tanti commenti e polemiche ha sollevato anche con riferimento ai beni culturali.

 

Al riguardo, l’impatto mediatico di maggior risonanza è stato suscitato dall’inserimento della previsione relativa alla concessione delle spiagge italiane, per novant’anni [poi ridotti a venti], ai proprietari degli stabilimenti balneari. Tanto è vero che il neo ministro per i Beni e le Attività culturali, Giancarlo Galan, si è affrettato a far diramare il 6 maggio un comunicato stampa rassicurante, diretto a confermare il rispetto dei vincoli di tutela del patrimonio culturale e paesaggistico delle coste e delle spiagge. Insomma, Galan ha espresso un deciso no alla paventata cementificazione delle spiagge, oggetto di disciplina all’interno del Decreto Sviluppo.

 

Ciò che il ministro non ha fatto è quello di segnalare che all’interno del decreto citato si è sostanziato il mutamento di una norma fondamentale contenuta nel Codice dei beni culturali (D. Lgs. n. 42/2004) e che riguarda una delle condizioni essenziali per considerare un bene tutelato come bene culturale.

 

Infatti, le norme di tutela contenute nel Codice si applicano, salvo poche eccezioni (come ad esempio le ipotesi di sussistenza dell’interesse culturale per il riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ex articolo 10, comma 3, lett. E) del Codice dei beni culturali), a quei beni che non siano opera di autore vivente o che abbiano almeno cinquanta anni.

 

Questo limite temporale, frutto di un compromesso tra quelle che potremmo definire le ragioni della “proprietà” e quelle della “tutela”, è fissata da tempo nel nostro ordinamento giuridico.

 

La stessa legge Rosadi (l. n. 364 del 1909), di cui da poco si è celebrato il centenario come brillante esempio di efficacia di una norma di “tutela culturale”, prevedeva il limite dei cinquanta anni, successivamente riportato nella legge Bottai (1089/1939), nel T.U. dei beni culturali ( D. lgs. n. 490/1999) ed, infine, nel Codice del 2004.

 

In quest’ultimo caso, per giunta, il legislatore italiano aveva blindato i beni immobiliari di appartenenza pubblica, assoggettandoli automaticamente ad una disciplina di salvaguardia per il solo fatto di avere più di cinquanta anni, fatta salva una successiva ricognizione di assenza di interesse culturale.

 La presunzione di culturalità del bene immobiliare pubblico avente più di cinquanta anni è talmente radicata nel quadro di tutela dei beni culturali, tanto da prevedere l’impossibilità di alienare questo patrimonio, salvo la successiva verifica da parte degli organi territoriali del MiBAC sulla sussistenza o meno dell’interesse culturale del bene.

 

Questo quadro normativo ha creato un circuito ormai consolidato tra MiBAC, enti pubblici territoriali e istituzioni religiose, tanto da impedire qualsiasi intervento sul bene senza una preventiva valutazione del Ministero, anche in assenza di un effettivo provvedimento di tutela, ma sulla base della semplice presunzione di culturalità del bene immobile avente più di cinquanta anni.

 

Il Decreto Sviluppo cancella questa situazione con un semplice tratto di pena e, a quanto pare, senza colpo ferire, visto il silenzio che sta accompagnando questa modifica sostanziale del panorama del patrimonio immobiliare pubblico con presunta valenza culturale.

 

Scendendo nel dettaglio della modifica, l’articolo 4 – intitolato “costruzione delle opere pubbliche” – del D.L. 70/2011 prevede al comma 16 una serie di modifiche dell’articolato del Codice dei beni culturali al fine di “riconoscere massima attuazione al Federalismo Demaniale e di semplificare i procedimenti amministrativi relativi ad interventi edilizi” in quei comuni che adeguano gli strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici regionali. In particolare, limitatamente al patrimonio immobiliare appartenente a soggetti pubblici e assimilati (come gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti e le onlus) il requisito temporale attestante la presunzione di culturalità del bene è portato da cinquanta a settanta anni.

 

Conseguentemente, è cassato di fatto l’obbligo di verifica di interesse culturale per i beni immobili pubblici che non abbiano più di 70 anni (in questo senso è da leggere oggi il comma 1 dell’articolo 12 del D. Lgs. n. 42/2004). Parimenti, viene innalzato da 50 a 70 anni il limite del divieto di vendere (rectius alienare) i beni immobili pubblici che non siano stati sottoposti a verifica di interesse da parte del Ministero per i beni e le attività culturali.

 

Chiude il quadro delle innovazioni relative al patrimonio culturale, non solo pubblico, ma anche privato, la cancellazione dell’obbligo di denuncia del trasferimento della detenzione dei beni immobili a carico del proprietario, in base all’articolo 59, comma 1 del Codice. Pertanto viene meno una forma di controllo della circolazione del patrimonio immobiliare di pregio che nella normativa ante decreto era persino accompagnato dalla configurazione di reato per chi non avesse adempiuto a tale obbligo di denuncia.

 

Come si può apprezzare, l’intervento del Decreto Sviluppo è di chiara sostanza sulla tutela dei beni culturali (che nella stragrande maggioranza sono di proprietà pubblica e di soggetti assimilati quanto a regime giuridico – gli enti ecclesiastici) che di colpo vede dilatarsi il confine temporale di riferimento – portato a 70 anni -, incrinando il potere di controllo delle Soprintendenze sia sugli interventi di manutenzione e restauro da effettuare sui beni di comuni, province, regioni, diocesi, parrocchie, fondazioni ecc., sia sulla circolazione degli stessi.

 

Colpisce che il primo intervento di sostanza effettuato con il benestare, o perlomeno con il silenzio, del neoministro Galan sia un chiaro segno di cedimento della tutela del patrimonio pubblico che da oggi sentiamo un po’ meno protetto.

 

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