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GIAPPONE: DALLA LOST DECADE ALLO TSUNAMI di Silvano Carletti, Simona Costagl-Nel merito.iti

 

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giapponeUn disastro costoso - Il terremoto e la catastrofe nucleare hanno colpito il Giappone in una fase storica delicata, in bilico tra il rilancio economico e il prolungamento della “lost decade”. A due mesi dal peggiore terremoto mai avvenuto nel paese la valutazione dei danni è ancora incerta.

 

Secondo la Banca Mondiale i danni variano tra 122 e 235 mld di $ (2,5-4% del Pil), il doppio della spesa sostenuta dopo il terremoto di Kobe del 1995. L’FMI eleva la banda di oscillazione tra il 3 e il 5% del Pil (cinque volte la spesa post Kobe). Il disastro dell’11 marzo sarà comunque il più costoso al mondo dal 1965. In dollari correnti i danni sono superiori a quelli prodotti dall’uragano Katrina (USA 2005), dal terremoto di Northridle (USA 1994) e dal terremoto nello Schuan (Cina 2008). Gran parte dei costi sarà a carico delle famiglie e del Governo, mentre agli assicuratori privati farebbero capo circa 13-14 mld di $, quasi venti volte l’esborso sostenuto dopo Kobe (738 mln di $).

Gli effetti sul Pil sono ancora incerti: secondo la Banca Mondiale, dopo una iniziale flessione le spese per la ricostruzione dovrebbero rappresentare uno stimolo per almeno cinque anni.

 

Una crescita fragile

Dopo la caduta del Pil durante la crisi (-6,3% nel 2009, il dato peggiore tra le economie avanzate) nel 2010 il Giappone ha registrato la maggiore crescita degli ultimi venti anni (+3,9%), uscendo dalla crisi più velocemente degli altri paesi avanzati. Proprio alla fine di un anno così brillante il paese ha però ceduto alla Cina la seconda posizione al Mondo per ammontare di Pil.

 

Andamento del Pil giapponese

(var. % a/a)

tabella1

Fonte: elaborazione su dati FMI

 

La crescita del 2010 è in gran parte frutto di imponenti misure fiscali e di una forte ripresa delle esportazioni: la spesa pubblica è cresciuta del 2,3%, i consumi privati dell’1,8%, gli investimenti fissi lordi sono scesi per il quarto anno consecutivo (-0,2%). Le esportazioni in volume sono cresciute del 24% circa (dopo il -24,1% del 2009). Nel complesso, domanda interna e investimenti hanno contribuito per poco più della metà alla crescita complessiva (2,1%), mentre le esportazioni nette vi hanno contribuito per l’1,8%. Le stime dell’FMI indicano per il 2011 una crescita positiva (+1,4%, 0,2% meno delle stime pre-terremoto), ma inferiore alla media delle economie avanzate (+2,4%) e di quelle emergenti asiatiche (+5%).

Proprio la composizione della crescita post recessione è causa delle incertezze sul futuro, in uno scenario compromesso dai recenti avvenimenti. Lo sforzo necessario per la ricostruzione determinerà un’ulteriore crescita della spesa pubblica e del già enorme debito pubblico (nel 2010 il Giappone ha consolidato il suo primato nel rapporto debito-Pil: 220,3%). Nel 2011 l’FMI lo stima al 229,1% e, in assenza di correttivi oggi difficili da immaginare, al 250,5% nel 2016. Alla crescita recente avevano contribuito poi soprattutto le esportazioni, penalizzate dagli ultimi eventi. Queste rappresentano circa il 4,6% delle esportazioni mondiali e il 7,3% di quelle dei paesi avanzati, e rivestono un peso notevole soprattutto nel commercio con l’area asiatica; secondo la Banca Mondiale, un calo del Pil nipponico tra lo 0,25 e lo 0,5% causerebbe un calo delle esportazioni verso i paesi dell’est asiatico tra lo 0,75 e l’1,5%. Ma al di là del fattore numerico, la questione giapponese ha evidenziato la vulnerabilità di una catena produttiva globale nella quale il ruolo delle scorte è ridotto al minimo. In alcuni settori la velocità con cui la produzione ha rallentato (o si è bloccata del tutto) a causa della mancanza di produzioni intermedie made in Japan ha portato molti a rievocare l’effetto contagio sperimentato durante la crisi nata con i mutui sub-prime. Automobilistico ed elettronica sono i settori più penalizzati: due imprese giapponesi infatti controllano il 90% del mercato di una resina necessaria alla produzione di smartphone e apparecchi simili, e le batterie dell’iPod sono realizzate con un polimero prodotto da un’impresa giapponese che controlla il 70% del mercato.

 

Esportazioni giapponesi verso i paesi dell’Est asiatico

(in % del totale verso l’area)

tabella2

Fonte: elaborazione su dati Banca Mondiale

 

Ad essere penalizzati sono soprattutto Thailandia, Corea, Cina e Filippine, per i quali il Giappone rappresenta il principale fornitore di componenti e beni capitali per l’elettronica, ma problemi (soprattutto nell’automotive) hanno cominciato a emergere anche negli USA, che nel 2010 hanno importato 1,2 mld di $ di componenti giapponesi.

 

I vincoli delle banche

In Giappone le sorti del sistema bancario ed economico sono fortemente intrecciate: uno dei fattori che hanno depresso l’economia del paese è la lentezza con cui i maggiori gruppi bancari hanno ridotto il peso dei crediti non recuperabili. Allo stesso tempo la prolungata debolezza ha evitato alle banche giapponesi il coinvolgimento nella crisi finanziaria.

Sul piano contabile il sistema bancario giapponese appare oggi risanato. Il consuntivo degli ultimi anni è positivo. Nei bilanci chiusi a marzo 2010 i profitti lordi aggregati hanno sfiorato i 30 mld $, con un andamento positivo anche nei successivi trimestri. Com’è tipico delle banche giapponesi, gli indicatori di profittabilità sono modesti: i profitti lordi difficilmente salgono oltre lo 0,5% dell’attivo, mentre l’incidenza media sul patrimonio è intorno al 6%.

 

Profilo dei maggiori gruppi bancari giapponesi

(Sett. 2010)

tabella3

(*) Mitsubishi UFJ Financial Group;

(**) Sumitomo Mitsui Financial Group

Fonte: elaborazioni su bilanci e The Banker

 

L’impatto immediato di terremoto e tsunami dovrebbe risultare limitato: l’esposizione creditizia verso le aree più colpite è inferiore al 4% del totale (meno dell’1% per le banche maggiori ma significativa per alcune banche regionali). Il sistema bancario nipponico soffre comunque di un eccesso di raccolta rispetto alla domanda di finanziamenti. Il rapporto prestiti/depositi (inferiore all’80% a marzo 2010) è da anni in discesa, e la responsabilità è quasi interamente dei gruppi bancari maggiori (al 120% nel 2001). Il più importante gruppo giapponese (il MUFG) è 9° al mondo per totale attivo, ma 2° per depositi raccolti.

Impiegare la raccolta all’interno del paese è difficile: le imprese hanno pochi progetti d’investimento, ampia liquidità (metà delle quotate è virtualmente priva di debiti) e si finanziano per lo più tramite emissione di titoli. Anche la domanda di credito delle famiglie è debole, per la prolungata stagnazione economica e l’invecchiamento della popolazione.

Per compensare la carente domanda interna di credito, le banche hanno rivolto gli impieghi a titoli di stato e attività estere. A fine 2010 il portafoglio di titoli di stato delle banche ammontava in media a oltre un quinto dell’attivo totale (oltre 100 trilioni di yen) e conferma le banche giapponesi come i principali detentori di JGB (Japanese Government Bond). I rendimenti molto bassi1 espongono le banche a un rischio di tasso molto superiore alla norma, che le banche maggiori tentano di mitigare riducendo la durata media del portafoglio (circa 2 anni). Secondo la Banca Centrale un aumento dei rendimenti di 100 pb per tutte le scadenze causerebbe una perdita di circa il 10% del patrimonio tier 1 per le banche maggiori, e di oltre il 30% per le regionali, il cui portafoglio di titoli di stato ha generalmente una scadenza media più alta (3,5 anni).

L’altro canale verso cui le banche giapponesi indirizzano le risorse è l’estero. Negli ultimi anni i gruppi maggiori sono stati molto attivi: nel 2008 Nomura ha rilevato le attività di Lehman Brothers in Europa, Medio Oriente e Asia; MUFG ha acquisito il 21% di Morgan Stanley e ha rilevato l’intero portafoglio di project finance (oltre 6 mld di $) della Royal Bank of Scotland; Mizuho ha investito sia in Merrill Lynch sia in Black Rock, il più grande asset manager del mondo. Le banche giapponesi stanno anche accrescendo i loro finanziamenti all’estero (soprattutto in Asia).

 

* Le opinioni espresse dagli autori non coinvolgono l’istituto di appartenenza.

1. Il rendimento del JGB a dieci anni si è attestato all’1,3% (era inferiore all’1% ad agosto 2010). Per scadenze inferiori a un anno il JGB rende tra 0,12 e 0,16%.

 

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