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Gli studenti italiani scelgono spesso la loro università sulla base della vicinanza al luogo di residenza. Perché allontanarsi dalla famiglia è costoso e muoversi per frequentare l'ateneo migliore resta appannaggio di pochi privilegiati. La soluzione è un sistema di prestiti per finanziare gli studi, con rimborsi calibrati sui redditi futuri. Si introdurrebbero elementi di concorrenzialità tra atenei. E le università potrebbero disporre di più risorse per migliorare la propria offerta fissando liberamente le tasse di iscrizione. Le differenze con la proposta del governo.

 

Alla riforma dell’università manca una gamba. O, più esattamente, mancano molte gambe: quelle degli studenti che, scegliendo consapevolmente l’ateneo in cui iscriversi, sottopongono le università alla disciplina della concorrenza.

Allontanarsi dalla propria famiglia, tuttavia, è costoso, e muoversi per scegliere l’ateneo migliore potrebbe restare appannaggio di pochi privilegiati. C’è però un modo per evitare il perpetuarsi del privilegio: prendere oggi un prestito, per finanziare i propri studi, e rimborsarlo con il reddito a cui in futuro la laurea darà accesso. (1) Peraltro, con un sistema di prestiti per il finanziamento degli studi, le università potrebbero raccogliere maggiori risorse per migliorare la qualità della propria offerta, fissando liberamente le tasse di iscrizione, senza con questo escludere gli studenti con reddito familiare basso.

 

RIMBORSI IN FUNZIONE DEL REDDITO

 

Anche prescindendo dagli effetti pro-concorrenziali, la disponibilità di prestiti agli studenti è in sé una buona idea. Non è detto che il talento dei figli sia correlato al reddito dei genitori e non è quindi opportuno, per la società, che abbiano maggiori possibilità di studiare i figli dei più ricchi. D’altra parte, un’istruzione superiore di qualità è spesso la chiave per guadagnare redditi maggiori, e appare equo che colui che beneficerà dei secondi sopporti i costi della prima. Il finanziamento attraverso un prestito risolve la contraddizione tra il desiderio di svincolare l’accesso agli studi universitari dal reddito familiare e quello di farne pagare il costo a colui che maggiormente ne beneficerà: con un prestito, infatti, non sono i redditi correnti (dei genitori) a essere importanti, ma quelli futuri (del laureato).

Lo studente all’inizio della propria carriera universitaria è però, a buon diritto, molto incerto sui suoi redditi futuri e sarà perciò restio a caricarsi di un debito la cui rata di rimborso, fissata in anticipo, potrebbe assorbire una parte preponderante del suo reddito.

Una soluzione è rendere il rimborso una quota costante del reddito futuro: se (e fino a quando) il reddito sarà basso, altrettanto basso sarà il rimborso, e nessuno ne risulterà strozzato. Allo stesso tempo, però, per garantire che il debito venga alla fine rimborsato, il periodo in cui i rimborsi sono dovuti dovrà essere variabile: quanto più bassi saranno i rimborsi, tanto più lungo sarà quel periodo (al limite, per tutta la vita lavorativa); viceversa, chi avrà redditi elevati finirà prima di rimborsare il proprio debito.

Richiedere che il debito sia alla fine interamente rimborsato risponde a elementari criteri di equità e di convenienza (da parte di chi presta, che altrimenti non lo farebbe). Ma è anche importante per gli incentivi che induce. Se un reddito più basso desse diritto non solamente a pagare, in ogni periodo, di meno (per più tempo), ma anche a pagare di meno nel complesso, chi prende un prestito avrebbe meno incentivo a impegnarsi per guadagnare abbastanza da ripagarlo rapidamente, ci sarebbero più casi di mancato rimborso e il loro costo finirebbe per pesare sugli altri. Inoltre, coloro che pensano di avere migliori prospettive di reddito futuro, anticipando di dover sopportare il costo di coloro che non rimborseranno, deciderebbero di non prendere a prestito, e quindi lo farebbero solo coloro con redditi attesi più bassi, innescando un circolo vizioso e rendendo così non sostenibile il sistema di prestiti.

Il prestito dovrebbe dunque far sì che (a) gli ex-studenti paghino in proporzione al proprio reddito, e risultino perciò assicurati dal rischio che il rimborso ne assorba una quota esorbitante; (b) coloro che guadagneranno di più finiscano di rimborsare prima il proprio debito; (c) ciascuno resti responsabile del proprio debito, fino ad averne completato il rimborso.

 

LO SCHEMA DEL CONTRATTO

 

Un contratto di questo tipo difficilmente verrebbe offerto da una banca, che vorrà evitare l’incertezza circa l’orizzonte temporale con cui rientrerebbe in possesso di quanto ha prestato, e comunque richiederebbe un tasso di interesse elevato per farsene carico. Lo Stato invece ha una maggiore capacità di sopportare rischi di scadenza e può offrire il contratto senza ricarico.

La proposta che qui si avanza è formulata nell’ipotesi che il contributo finanziario da parte dello Stato sia minimo o nullo, per esplorarne la fattibilità sotto vincoli di bilancio stringenti. È peraltro semplice, e probabilmente necessario, incorporare elementi di sussidio a carico del bilancio pubblico. Questi, anche prescindendo da considerazioni distributive, trovano una giustificazione nella differenza tra il beneficio privato e quello sociale dell’istruzione superiore. Si tratta di un aspetto sul quale bisognerà tornare.

Lo schema potrebbe in estrema sintesi funzionare così (per numerosi dettagli e qualificazioni, necessari a tenere in conto varie complicazioni qui trascurate per motivi di spazio, si veda il documento completo):

 

1.       Tutti gli studenti iscritti a un corso di laurea triennale o specialistico che soddisfino alcuni requisiti di merito e di età possono ottenere un prestito di 6mila - 10mila euro l’anno, per un numero di anni pari alla durata del corso. L’ammontare massimo del prestito può essere aumentato per la frequenza a corsi universitari in cui le tasse di iscrizione siano particolarmente elevate;

2.       Alla fine del periodo di studio lo studente avrà accumulato un debito D, pari ai prestiti ricevuti, capitalizzati con un tasso di interesse privo di rischio (per concretezza, il 2 per cento reale);

 

    Il prestito è inizialmente erogato da una banca, ma è successivamente rilevato dallo Stato, che lo rimborsa alla banca. Il ruolo della banca è quello di un agente di pagamento; le banche concorrono tra loro per fornire il servizio. In alternativa al sistema bancario, si potrebbero coinvolgere le Poste.

    A partire da un anno dopo la fine del corso di studi (o dopo l’abbandono dell’università), l’ex-studente comincia a rimborsare il suo debito, attraverso un prelievo fiscale addizionale, effettuato direttamente dallo Stato, pari al 10 per cento della parte del suo reddito che supera una soglia minima. La soglia può essere quella attualmente prevista per il pagamento delle imposte (corrispondente a circa 8mila euro), oppure una più elevata: maggiore è il sussidio che si volesse offrire agli studenti più poveri, maggiore dovrebbe essere la soglia minima. Il prelievo continua fino a quando la somma dei prelievi annuali, scontati al 2 per cento, è pari a D;

    Se i redditi sono bassi, si allunga il periodo in cui avviene il rimborso. Potrebbe succedere che il reddito sia sotto la soglia minima per un periodo di tempo così lungo da rendere sostanzialmente impossibile il recupero del credito nell’arco della vita lavorativa (per esempio, nel caso di disabilità permanente o di morte prematura); è verosimile che una certa frazione dei prestiti non verrà interamente restituita. Di tale frazione può farsi carico lo Stato, oppure si può prevedere che i rimborsi riscossi siano in media sufficienti a compensare l’erario anche per quelli non recuperati a causa di morti, gravi disabilità permanenti, profili di reddito eccezionalmente bassi o evasione totale.

 

Per alcune considerazioni su questa proposta, e per un confronto con quella del governo, si rinvia a un secondo articolo.

 

(1) Questo articolo, sebbene redatto indipendentemente, ha molti punti in comune con quanto scritto da Andrea Ichino sul Sole-24Ore del 27 maggio 2011.

 

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