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Holding pubblica

 

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 di Davide Di Russo, Roberto Camporesi, Antonio Miele

Materia: società / partecipazione pubblica

 

 

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HOLDING PUBBLICA

 

 

I documenti rassegnati dalle Commissioni “Servizi pubblici” e “Governance delle partecipate” del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, intitolati “Costituzione di holding” e “Holding degli enti locali, attività finanziaria e modelli di governance”, forniscono lo spunto per esaminare, in sintesi, le potenzialità che lo strumento dell’holding presenta per l’ente locale, con uno sguardo anche ai riflessi della disciplina codicistica, in particolare, in materia di responsabilità da attività di direzione e coordinamento. 

 

Nel maggio 2010 le commissioni “Servizi pubblici” e “Governance delle partecipate” del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili hanno licenziato un documento, intitolato “Costituzione di holding”, seguito, nel marzo 2011, da altro intitolato “Holding degli enti locali, attività finanziaria e modelli di governance”.

I predetti interventi affrontano, nel complesso, il tema della fruibiltà di tale strumento organizzativo da parte di enti pubblici territoriali, adottando una prospettiva giuridica (valutando, cioè, l’ambito entro il quale all’ente territoriale è consentito – nel rispetto del principio di legalità - costituire e/o mantenere partecipazioni in una società holding; nonché quali siano i riflessi in merito alla disciplina applicabile, con riguardo, in particolare alla normativa del codice civile in materia di attività di direzione e coordinamento e/o alle possibilità offerte dai diversi modelli di governance messi a disposizione dal legislatore per il tipo societario della s.p.a.)  senza tuttavia trascurare un taglio “pratico”, così da tracciare una rassegna delle opportunità che lo strumento della holding consente all’ente pubblico in termini di gestione efficiente delle partecipazioni societarie e di  riduzione di costi.

I documenti offrono, quindi, lo spunto per esaminare - pur senza pretese di sistematicità – alcune questioni relative al tema della società partecipata da uno o più enti locali (in quanto tale, “pubblica”), la quale, a sua volta, detenga e amministri le partecipazioni possedute in società terze dai medesimi enti locali soci.

Il concetto di società pubblica rimanda alla figura di un ente societario (dunque, rivestito di forma privata) a partecipazione pubblica: il carattere pubblico, pertanto, afferisce al capitale dell’ente (ossia ai soggetti che lo partecipano) e non all’ente medesimo[1][1].

L’istituto si è affermato nel settore dei servizi pubblici locali, interessato da un deciso stimolo legislativo all’adozione del modello organizzativo societario (con preferenza per il tipo capitalistico) per la realizzazione delle finalità di esternalizzazione di alcuni segmenti dell’attività della pubblica amministrazione[1][2].

L’amministrazione pubblica, infatti, per il conseguimento dei propri scopi istituzionali, può esercitare attività economica per la produzione di beni e servizi non solo direttamente (e salva la possibilità di affidare in appalto il servizio) ma anche attraverso apposita società assoggettata al suo controllo.

Non è ozioso ricordare, in tale contesto, che la Relazione al codice civile del 1942,  a proposito della società a partecipazione pubblica chiarisce che “è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme nuove e possibilità realizzatrici”: l’accesso allo strumento societario da parte della pubblica amministrazione, dunque, dovrebbe sempre essere improntato a una migliore realizzazione degli obiettivi di interesse generale, posto che, in tanto si giustifica l’inquadramento  dei pubblici poteri entro una cornice privatistica[1][3], in quanto tale contesto sia funzionale alla realizzazione degli interessi della comunità.

Il ricorso alla struttura societaria può, in concreto, assumere una articolazione ancora più ramificata laddove l’amministrazione pubblica eserciti il controllo di una società che, a sua volta, diriga e coordini una o più società (ciascuna, verosimilmente, specializzata in un singolo settore) alle quali spetti in concreto lo svolgimento di attività operative, essendo riservato alla società direttamente controllata dall’amministrazione pubblica (la holding, appunto) l’indirizzo unitario – la direzione e il coordinamento – delle imprese partecipate.

Come rilevato dalla magistratura contabile, per gli enti di grandi dimensioni, che controllano direttamente una rete di società satellite, è particolarmente adeguata una riorganizzazione in chiave di gruppo, mediante costituzione di un apposito organismo societario, totalmente partecipato dall’ente locale (o dagli enti locali) e destinato alla titolarità e gestione delle partecipazioni dell’ente,  nonché investito del compito di coadiuvare e fornire servizi a tutte le aziende del gruppo, oltre che chiamato a coadiuvare gli organi politici nelle decisioni strategiche[1][4].

La holding pubblica, dunque, è un mezzo; ed è un mezzo attraverso il quale l’ente locale mira – come segnalato dai richiamati interventi del Consiglio Nazionale dei Commercialisti e degli Esperti Contabili – all’attuazione  della propria azione in modo coordinato e unitario e, nel contempo, all’organizzazione delle società partecipate secondo canoni di efficienza, efficacia ed economicità.

Una duplice finalità, insomma, di programmazione, da un lato, e di controllo, dall’altro, che in tanto potrà concretamente realizzarsi in quanto il soggetto cui sia attribuito il compito di amministrare la holding sia in possesso di competenze manageriali nel campo gestionale delle partecipate e, al contempo, l’ente locale sia soggetto istituzionale deputato a imprimere livelli di qualità ai servizi offerti dalle partecipate.

Tre gli aspetti che meritano essere segnalati circa l’influenza che la (ormai non più giovane) riforma del diritto societario è in grado di esercitare sulla percorribilità, da parte dell’ente pubblico, dell’opzione holding.

In primo luogo, il d.lgs 6/2003 ha introdotto espressamente la possibilità di costituire una società per azioni "per atto unilaterale” (art. 2328 c.c.), di modo che può configurarsi una società di capitali che abbia un unico socio[1][5], cui è consentito lo svolgimento di attività imprenditoriale fruendo del beneficio della responsabilità limitata; il che rende intuitivamente appetibile per il singolo ente locale la costituzione di una società per azioni holding, totalitariamente partecipata, alla quale conferire le proprie partecipazioni societarie.

La scelta a favore del tipo di s.p.a., poi, dà accesso alla pluralità di modelli di  amministrazione e controllo (tradizionale, dualistico, monistico) offerti all’autonomia societaria ex art. 2380 c.c.[1][6].

In secondo luogo, la ridefinizione dello schema della società a responsabilità limitata, nel senso di una decisa valorizzazione dell’autonomia statutaria, può rendere tale forma organizzativa (sinora pressoché inutilizzata, a favore del modello della s.p.a.) appropriata alla holding pubblica, perché in grado di assicurare un notevole grado di elasticità e, quindi, di adattabilità alle diverse esigenze del caso concreto.

Quale che sia il tipo societario prescelto, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili suggerisce che lo statuto della holding strutturi la governance prevedendo, per l’amministratore delegato, funzioni operative di gestione in attuazione del budget, oltre che di intervento nell’assemblea delle partecipate; per il presidente del consiglio di amministrazione, funzioni di raccordo istituzionale tra l’ente socio e l’organo preposto alla sorveglianza attiva della società e al controllo interno.

Inoltre, si avverte l’opportunità che lo statuto dell’ente socio preveda espressamente che quest’ultimo si avvale, come modello organizzativo, di una società holding a intero capitale pubblico incedibile per la gestione delle società partecipate; holding che deve risultare qualificata come espressione dello stesso ente locale, così da poter intervenire anche in accordi o convenzioni sottoscritti con i soci delle partecipate per il governo della società.

In aggiunta, è più che mai auspicabile che l’ente socio adotti un apposito regolamento di indirizzo e controllo della holding e, di riflesso, delle monadi del gruppo, diretto a regolare le materie non  per disciplinate in via legislativa, definendo le competenze rispetto alle diverse decisioni da assumere.

È opportuno, poi, che la costituzione della holding venga supportata da un business plan per l’analisi degli aspetti economici patrimoniali e finanziari connessi alla costituzione e alla successiva attività della holding, in particolare evidenziandone la sostenibilità economica (con previsione delle eventuali perdite di esercizio e delle strategie per farvi fronte), e finanziaria (anche in termini di capacità di reperire risorse aggiuntive sul mercato), oltre a indicare i riflessi per il bilancio dell’ente socio derivanti dalla costituzione della holding.

Il terzo e più rilevante aspetto connesso alla riforma del diritto societario è rappresentato dall’innesto di una disciplina sui gruppi societari, suscettibile di trovare applicazione anche rispetto a quelli che vedono un ente pubblico in posizione apicale, posto che gli artt. 2497 e segg. c.c. introducono una pluralità di regole in materia, le quali interessano, tra l’altro, la responsabilità della capogruppo (“società o ente”)[1][7] che eserciti attività di direzione e coordinamento  “nel perseguimento di un interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale della società” soggetta a tale attività.

È noto che, in assenza di espressa definizione legislativa, l’art. 2497-sexies c.c. individua – quali fattispecie presuntive dell’attività di direzione e coordinamento, ai fini dell’applicazione della responsabilità in questione - l’obbligo di redigere il bilancio consolidato del gruppo e/o l’esercizio di un controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c., ossia la titolarità della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria ovvero sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria, ovvero uno stato di sovraordinazione indotto da particolari vincoli contrattuali.

Se è indubbio che la normativa trovi applicazione nei gruppi verticisticamente controllati da una holding pubblica, resta controverso se sia configurabile analoga responsabilità a carico dell’ente pubblico holding, il quale, invece di conferire in apposita società le proprie partecipazioni, si ponga direttamente al vertice della piramide organizzativa di gruppo, per porre in essere in prima persona un’attività astrattamente riconducibile alla direzione e coordinamento di società, mediante un’unità organizzativa interna preposta alla gestione delle partecipazioni possedute.

A favore della soluzione negativa milita il dato testuale, posto che l’art. 2497 c.c., nell’affermare la responsabilità di chi eserciti attività di direzione e coordinamento con  riferimento agli enti che “agiscono nell’interesse imprenditoriale”, parrebbe, a priori, escludere dal proprio ambito di operatività lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali, in quanto enti esponenziali della società deputati a soddisfare i bisogni delle comunità rappresentate (le cui attività imprenditoriali eventualmente esercitate, dunque, assumono necessariamente carattere accessorio e marginale rispetto alle altre loro attività)[1][8] e, comunque, insuscettibili di agire “in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale” delle società controllate[1][9].

Mentre, in senso contrario, si sostiene che, poiché la disciplina di cui agli artt. 2497 e segg. c.c. è stata introdotta a presidio dell’interesse dei soci e dei creditori, tale strumento di garanzia andrebbe riconosciuto, al di là del dato letterale, anche nel caso i principi di corretta gestione fossero violati nel perseguimento di un interesse non imprenditoriale.

Diversamente opinando, i soci e creditori avrebbero a disposizione i soli rimedi di diritto comune e solo nei confronti delle persone fisiche responsabili e non anche contro l’ente che esercita la direzione e il coordinamento[1][10].

In tale ottica, considerato che l’attività di direzione e coordinamento non postula necessariamente la titolarità di una partecipazione di controllo, potendo discendere anche – “al di fuori delle ipotesi previste dell’art. 2497-sexies” - da un contratto tra le società coinvolte ovvero da clausole statutarie inserite negli statuti delle sottoposte (art. 2497-septies c.c.)[1][11], la connessa responsabilità può ammettersi anche nel caso in cui al vertice del gruppo societario, in luogo della holding pubblica, vi sia direttamente l’ente pubblico territoriale, il quale svolga in prima persona l’attività di holding attraverso un’influenza concretizzata mediante il potere di nomina e revoca degli amministratori[1][12].

Fino a includere, tra i soggetti astrattamente responsabili ex art. 2497 c.c., il rappresentante dell’ente pubblico che emetta l’ordine, poi attuato dalla società, contrario ai principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale[1][13].

Il d.l. 78/2009, all’art. 19, con norma di interpretazione autentica dell’’art. 2497,  comma 1, c.c., ha chiarito, quantomeno, che per enti suscettibili di esercitare attività di direzione e coordinamento, devono intendersi quei “soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economico finanziaria”.

Il Consiglio dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili pone l’accento sul riferimento al carattere imprenditoriale dell’attività nell’ambito della quale la partecipazione deve essere detenuta e alla natura economico-finanziaria della finalità di detenzione della partecipazione, per sottrarre anche gli enti territoriali dall’ambito dell’art. 2497 c.c..

In ogni caso, la negazione, in capo all’ente pubblico territoriale dell’idoneità a essere titolare di un “interesse imprenditoriale” non vale, di per sé, a escludere la soggezione alla responsabilità per attività di direzione e coordinamento, quantomeno a titolo di concorso: l’art. 2497, comma 2, c.c., infatti, stabilisce che risponde in solido chi abbia comunque preso parte al fatto lesivo e, nei limiti del vantaggio conseguito, chi ne abbia consapevolmente tratto vantaggio.

Può comunque ipotizzarsi, pertanto, la responsabilità dell’ente pubblico che induca l’organo amministrativo della società controllata a violare i principi di corretta gestione, nei confronti di soci e creditori di quest’ultima, nella misura in cui si dimostri una sua partecipazione al fatto lesivo o il conseguimento consapevole di un vantaggio.

Non va peraltro sottovalutato che la responsabilità in questione – che opera nei confronti dei soci e creditori della società consorella – viene esclusa se l’atto dannoso per la singola “monade” del gruppo viene neutralizzata da benefici indiretti o potenziali derivanti al gruppo nel suo insieme[1][14].

La holding partecipata da enti pubblici territoriali, in quanto società in mano pubblica, è interessata da una serie di disposizioni[1][15] ispirate al contenimento dei costi delle attività riconducibili alla sfera pubblica, da un lato, e al rispetto dei principi comunitari di concorrenza, non discriminazione e trasparenza al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato.

Vengono in rilievo, in particolare, le disposizioni che tendono a restringere i campi di operatività della società pubblica.

La tendenza è stata inaugurata dall’art. 13 del c.d. Decreto Bersani[1][16], il quale prevede, al comma 1, che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di servizi strumentali all’attività di tali enti, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, con divieto di svolgere prestazioni (lavori, servizi e forniture) a favore di altri soggetti pubblici o privati né in affidamento diretto né con gara, e di partecipare a altre società o enti.

Le società strumentali, poi, non possono affiancare ulteriori attività a quelle svolte funzionalmente nell’interesse dell’ente pubblico che le partecipa (comma 2).

I divieti hanno carattere imperativo: contratti conclusi in violazione dei commi 1 e 2 sono nulli, in forza di quanto previsto dal comma 13[1][17].

Nel settore delle società strumentali[1][18], dunque, il Decreto Bersani nega a priori la legittimità dello schema organizzativo consistente nell’esercizio in via mediata, da parte di amministrazioni pubbliche regionali e locali, di attività di impresa attraverso le società operative, coordinate e dirette, perché totalmente partecipate, dalla capo-gruppo (holding), a sua volta controllata dall’amministrazione pubblica: e ciò in quanto la società partecipata dal soggetto pubblico, se svolge servizi strumentali, non può partecipare ad altre società o enti[1][19].

Inoltre, la norma – che ha carattere eccezionale[1][20] – ammette espressamente la costituzione di società a capitale pubblico o misto con oggetto la gestione di servizi pubblici locali nonché l’assunzione di partecipazioni da parte di tali società; nonché, ed è quel che qui maggiormente interessa, la possibilità per società pubbliche che svolgono l'attività di intermediazione finanziaria prevista dal TUB (Testo Unico Bancario – d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), di partecipazione ad altre società o enti.

Tale ultimo aspetto – rileva il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili - consente, di riflesso, l’accesso, per l’ente pubblico, allo schema dell’holding il cui oggetto sociale sia circoscritto alla detenzione e gestione delle partecipazioni dell’ente stesso, posto che, nel concetto di attività di intermediazione finanziaria viene ricompresa quella di “assunzione di partecipazioni”, ai sensi dell’art. 106 TUB, vigente alla data di entrata in vigore dell’art. 13, Decreto Bersani.

E, peraltro – osserva sempre il Consiglio - occorre tener presente che le holding comunali (ma la considerazione non può che essere estesa anche a quelle provinciali e regionali), quando costituite per conseguire la massima efficienza nella governance delle partecipazioni dell’ente locale, non si pongono in una situazione di “invasione” dei mercati attraverso la detenzione delle partecipazioni dell’ente locale, così da non rappresentare un rischio di distorsione concorrenziale; quindi, rispetto a tali società (beninteso, se holding aventi a oggetto la mera governance delle partecipazioni) non sussiste la possibilità, neppure in astratto, di violare il principio a presidio del quale l’art. 13 del Decreto Bersani è stato emanato.

Del resto, la deroga a favore delle società pubbliche che svolgono l'attività di intermediazione finanziaria è stata introdotta in sede di conversione del Decreto Bersani proprio per escludere dal divieto ivi previsto le società finanziarie regionali, perché ritenute, ontologicamente, società strumentali necessarie al perseguimento delle finalità di gestione della attività della Regione stessa; “non dobbiamo dimenticare che una delle aree strategiche d’affari fondamentali per le società in questione è proprio costituita dall’intervento finanziario, recato anche mediante attività di venture capital, a sostegno degli star up imprenditoriali delle piccole e medie imprese del territorio regionale. Trattasi di interventi che si concretizzano, sovente, non tanto nella concessione di prestiti o finanziamenti ma  a medio e lungo termine con pesanti vincoli di garanzia e di restituzione, bensì sotto forma recati anche mediante  lo strumento della partecipazione azionaria, nelle imprese di cui la finanza regionale interviene a sostenere l’iniziativa di star up o di sviluppo e di rilancio strategico[1][21].

L’esenzione, peraltro, ha carattere parziale, perché circoscritta al divieto di detenere partecipazioni e non, ovviamente, alle ulteriori attività finanziarie, soprattutto se dirette al pubblico in regime di attività imprenditoriale (ossia proprio ciò che la norma intende precludere alle società partecipate dagli enti pubblici).

Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili si premura di chiarire – con dovizia di argomentazioni – che deve escludersi a priori che l’abrogazione dell’art. 113 TUB, con soppressione dell’elenco ivi previsto e contestuale introduzione degli elenchi di cui agli artt. 106-107 TUB, abbia potuto influire sulla deroga di cui all’art. 13, Decreto Bersani, a favore delle società strumentali che svolgono attività di intermediazione finanziaria intesa come attività di assunzione e gestione delle partecipazioni societarie degli enti pubblici soci; la quale deroga permane ancorché la holding non sia in possesso dei requisiti per l’iscrizione degli elenchi di cui agli artt. 106 e 107  TUB[1][22].

La tutela della concorrenza e del mercato è la finalità che ispira, pure, la l. 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) nella parte in cui, all’art. 3, commi da 27 a 29, vieta a tutte le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (quindi non più solo Regioni ed  enti locali), la costituzione di società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”; così come di assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. È sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale”; e, di riflesso, sono consentite anche società partecipate che svolgono attività strettamente necessarie alle finalità istituzionali delle amministrazioni pubbliche[1][23].

Il mantenimento delle partecipazioni “non vietate” e l’assunzione di nuove deve essere autorizzato dall’organo consiliare con delibera motivata, da trasmettersi alla sezione competente della Corte dei conti (art.19, 2° comma, lett. a, l. 23 luglio 2009, n. 102)[1][24].

Le amministrazioni devono dismettere le partecipazioni in società “vietate” entro il 31 dicembre 2010[1][25], nel rispetto di procedure ad evidenza pubblica. Il termine ha natura perentoria[1][26].

L’art. 3, comma 27, della Finanziaria 2008 è stato modificato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, che, all’art. 71, comma 1, lett. b), ha soppresso le parole “o indirettamente”.

La modifica parrebbe quindi consentire alle amministrazioni pubbliche di detenere partecipazioni anche in società aventi a oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, purché, appunto, in via indiretta e, quindi, tramite holding costituite ad hoc.

Soluzione che appare ragionevole, considerato che, per l’ente pubblico, la dismissione di partecipazioni non è sempre concretamente realizzabile: si pensi a partecipazioni in società non competitive sul mercato che, intuitivamente, non sono collocabili presso investitori privati e che avrebbero, pertanto, quale unica alternativa, la messa in liquidazione[1][27].

Il che non sempre risulta funzionale all’interesse dell’ente locale, costretto a liquidare un’impresa redditizia.

Secondo la magistratura contabile[1][28], tuttavia - in forza dell’art. 3, comma 27 - l’oggetto sociale della holding deve sempre e comunque rispettare i limiti predefiniti dalla delibera adottata dall’ente locale ai fini della ricognizione delle società partecipate e, dunque, la holding non potrà che detenere partecipazioni che non siano in contrasto con le previsioni dell’ente; il che finirebbe per precludere alla holding (e, quindi, all’ente “indirettamente”) di detenere partecipazioni non strettamente necessarie alle finalità istituzionali dell’ente o di interesse generale.

Il modello organizzativo della holding, resta comunque opzione percorribile per lo svolgimento di attività strettamente necessarie alle finalità istituzionali dell’amministrazione[1][29] e per la produzione di servizi di interesse generale[1][30].

E, a tal riguardo, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili ammette il ricorso allo strumento dell’holding da parte dei Comuni, segnalando che secondo la classificazione imposta dall’art. 3 comma 27 della Legge finanziaria 2008, tali società si configurano come “strumentali” all’ente e particolarmente adatte al perseguimento delle finalità del medesimo, in quanto strumenti di governance necessari a una corretta azione dell’ente locale attraverso le proprie partecipate; e che, peraltro, l’holding comunale, in quanto società strumentale, è tenuta ad adottare una struttura della governance secondo le regole imposte per l’in house providing e non può operare che con gli enti locali soci.

Altra disposizione a venire in rilievo è l’art. 14, comma 32 del d.l. 78/2010[1][31], il quale circoscrive la possibilità di costituzione di una holding comunale, introducendo un limite dimensionale collegato alla popolazione, in quanto, “fermo restando quanto previsto dall’art. 3, commi 27, 28 e 29” della Finanziaria 2008, preclude ai Comuni fino a 30.000 abitanti di possedere partecipazioni societarie[1][32], posto che viene ad essi fatto divieto di costituire  nuove società con obbligo di mettere in liquidazione quelle già costituite e/o cedere le partecipazioni in queste detenute[1][33].

Per espressa previsione, i Comuni la cui popolazione non superi i 30.000 abitanti possono sottrarsi al raggio di applicazione della disposizione associandosi tra loro per superare la soglia in questione e, quindi, costituire società a partecipazione paritaria o proporzionale al numero di abitanti.

La disposizione non si applica nel caso in cui le società già costituite abbiano, al 31dicembre 2013, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi, non abbiano subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio; non abbiano subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il Comune sia stato gravato dell’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime[1][34].

Sempre l’art. 14 comma 32 del d.l. 78/2010, stabilisce il limite di una sola partecipazione per i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti, con obbligo di dismissione delle partecipazioni ulteriori.

I limiti e gli obblighi sanciti dall’art. 14 comma 32 del d.l. 78/2010, non si estendono alle società che svolgono servizi pubblici locali, in quanto soggette alla specifica normativa di cui all’art. 23-bis, d.l. 25 giugno 2008, n. 112 convertito dalla l. 6 agosto 2008, n. 133 e successive modificazioni, e al d.p.r. 7 settembre 2010, n. 168[1][35].

L’art. 14 comma 32 del d.l. 78/2010, dovrebbe stimolare i Comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti a conferire tutte le proprie azioni o quote in una holding partecipata con altri Comuni, in modo da superare, nel totale, la soglia dei 30.000 abitanti, e i Comuni tra i 30.000 e 50.000 abitanti a costituire una holding cui conferire tutte le proprie partecipazioni; tale modalità di aggregazione è coerente con la ratio della norma, rinvenibile nella riduzione delle spese degli apparati amministrativi degli enti locali, attraverso processi obbligatori di aggregazione per l’esercizio in forma associata mediante convenzioni o unioni (comma 28).

La carrellata che precede conferma, anche alla luce delle considerazioni del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, che la holding pubblica, ossia la holding partecipata da enti pubblici, rappresenta, per gli enti pubblici medesimi, un modello di governo delle proprie partecipate (ossia un sistema complesso per l’amministrazione delle partecipate, vale a dire,  in buona sostanza, per l’esercizio dei diritti di socio), in un’ottica di efficienza e di riduzione dei costi generali connessi a queste ultime; l’organizzazione a mezzo holding consente, infatti, di pervenire all’accentramento della gestione contabile e finanziaria, dei processi di controllo e amministrazione (audit, comitati di controllo ex d.lgs 231/01), degli uffici legali, appalti e forniture, nonché al consolidato fiscale e alla riduzione del numero di amministratori, fino alla individuazione di un amministratore unico in luogo dei consigli di amministrazione nelle controllate di secondo livello[1][36].

Gli amministratori della holding potranno sfruttare una “visione d’insieme”, per organizzare il portafoglio delle partecipazioni societarie conferite dall’ente o dagli enti soci, in modo da definire il ruolo strategico di ciascuna monade del gruppo (anche in considerazione della relativa rilevanza socio-politica di ciascuna partecipata) agevolando gli enti soci all’assunzione delle decisioni di competenza.

La visione di insieme della governance della holding assicura, quindi, una direzione e coordinamento che altrimenti, l’ente locale, non saprebbe assicurare, a causa delle diverse competenze istituzionali attribuite ai propri organi e ai tempi propri dell’esercizio di funzioni pubblicistiche, fisiologicamente incompatibili con la necessità di assumere decisioni tempestive.

Senza contare che per gli amministratori delle partecipate il referente sarà il management della holding, al quale dovranno rispondere non più esclusivamente in termini “politici”, ma soprattutto in termini economico-finanziari.

Lo strumento holding appare inoltre idoneo a consentire il superamento delle asimmetrie informative che si verrebbero a creare fra società e organi dell’ente locale (tra chi ha le informazioni e chi assume le decisioni), in assenza del diaframma “professionale” costituito dalla holding stessa.

La holding, infatti, può configurarsi come il punto di confluenza delle informazioni delle partecipate,  per una razionale assunzione delle scelte in base agli indirizzi e alla specifiche autorizzazioni degli enti locali soci, che accedono alle informazioni attraverso il budget della holding, la cui approvazione da parte dell’ente locale si configura come l’atto principale della programmazione economico-finanziaria e patrimoniale per applicare le strategie di interesse dell’ente locale stesso; nonché attraverso il bilancio consolidato del gruppo predisposto dalla holding.

Occorre avvertire, peraltro – sempre alla luce delle considerazioni svolte dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili – che, in tanto la holding potrà rappresentare un efficace strumento di governance delle partecipazioni degli enti soci, in quanto venga elaborato e adottato un apposito regolamento per il controllo delle partecipate; regolamento che, secondo i suggerimenti dei Commercialisti e degli Esperti Contabili, dovrà prevedere che l’organo consiliare dell’ente pubblico esprima il proprio indirizzo al Sindaco del Comune (o al Presidente della Provincia) in vista della partecipazione di quest’ultimo all’assemblea della holding avente per oggetto l’approvazione del budget e delle relative modifiche, le operazioni di investimento e di finanziamento non previste nel programma annuale,  la vendita o l’acquisto di partecipazioni in società ed enti, non previsti nel budget, l’approvazione del bilancio d’esercizio e della relazione consuntiva; nonché in vista della nomina degli amministratori della società partecipate, mediante apposita delibera consiliare ai sensi dell’art. 42 comma 2, lett. m), TUEL.

 

 

 

di Davide Di Russo*, Roberto Camporesi**, Antonio Miele***

 

 


 


[1][1] La definizione è rinvenibile in Ibba, Società pubbliche e riforma del diritto societario, in Rivista delle società, 2005, 1 e segg., ove si puntualizza che nel concetto di società pubblica possono essere ricomprese, oltre a quelle a partecipazione totalitaria, maggioritaria o minoritaria di un ente pubblico, anche quelle società che, pur non partecipate da uno o più enti pubblici, ne subiscono l’influenza.

[2][2] Si allude alla disciplina dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, nella versione risultante dagli artt. 112-120, d.lgs. 267/2000 e successive modificazioni.

 

*     Commercialista e Revisore dei Conti in Torino, Presidente Commissione “Governance delle Partecipate” – CNDCEC  - www. d.dirusso@sintesierisorse.it

**   Commercialista e Revisore dei Conti in Rimini, Componente Commissione “Governance delle Partecipate” – CNDCEC – www.rcamporesi@boldriniassociati.com

*** Avvocato in Torino

 

[3][3] La società partecipata dall’ente pubblico è soggetta alla disciplina comune nella sua integrità, salvo le eccezioni espressamente previste da leggi speciali.

[4][4] Cfr. Corte dei conti, sezione autonomie, 18 settembre 2008, n. 13; in dottrina, Galgano, Il nuovo diritto societario, Padova, 2003: “Va in ogni caso segnalata la possibilità di costituire un esteso gruppo di società, con una holding a partecipazione comunale o pluricomunale e più controllate operante per la gestione dei singoli servizi pubblici […] potrà anche essere concepita come holding di coordinamento tecnico finanziario di una pluralità di società controllate, ciascuna delle quali specializzata in un singolo settore

[5][5] La costituzione è però condizionata all’esecuzione integrale del conferimento da parte dell’unico socio (art. 2342, comma 2, c.c.), operando, in difetto, il meccanismo dell’art. 2325, comma 2, c.c. (responsabilità illimitata dell’unico socio per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui è stato titolare dell’intero capitale); inoltre, a tutela del terzo che venga a contatto con la società, gli amministratori, o in via alternativa il socio stesso, devono però depositare presso il Registro delle imprese una dichiarazione contenente le generalità dell'unico socio entro trenta giorni dall'iscrizione del trasferimento di azioni del libro soci, facendo altresì menzione della data di iscrizione (art. 2362 c.c.); conseguenza della mancata pubblicità è, anche in tal caso, la perdita del beneficio della responsabilità limitata.

Anche per la s.r.l. unipersonale, il socio unico risponde illimitatamente delle obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui è stato titolare dell’intero capitale, se non siano stati integralmente eseguiti i conferimenti o non si sia provveduto alla pubblicità di cui all’art. 2470 c.c. (che prevede l’iscrizione presso il registro delle imprese di una dichiarazione contenente le generalità dell’unico socio). L'art. 2250 c.c. fa poi obbligo di indicare l'esistenza di un unico socio negli atti nella corrispondenza della società.

[6][6] Va detto che il documento dell’Ordine Nazionale dei Commercialisti e degli Esperti Contabili manifesta una netta preferenza per il modello tradizionale di governance, ritenendo il sistema dualistico inadeguato alle esigenze di realizzazione di un controllo analogo per le società in house, stante il diaframma – rappresentato dal consiglio di sorveglianza – che viene a frapporsi tra azionista pubblico e organo gestorio

[7][7] Nonché di finanziamenti infra-gruppo, obblighi di trasparenza, pubblicità, diritto di recesso.

[8][8] Di tale avviso, Galgano, Direzione e coordinamento di società, Bologna 2005, 80

[9][9] Così Guaccero, Alcuni spunti in tema di governance delle società pubbliche dopo la riforma del diritto societario, in Riv. soc., 2004, 850

[10][10] Favorevole a un’applicazione in senso estensivo della disciplina, Caprara, Attività di direzione e coordinamento di società: la responsabiltà dell’ente pubblico, in Società, 2008, 557

      [1][11] Dal che deve desumersi che può aversi controllo societario ai sensi dell’art. 2359 c.c. senza che vi sia, in concreto, direzione e coordinamento e, per altro verso, può darsi direzione e coordinamento senza che vi sia controllo ex art. 2359 c.c..

[11][12] Si ricordi che l’art. 2449 c.c. consente, mediante apposita previsione statutaria, allo stato o all’ente pubblico socio di s.p.a. non quotata la facoltà di nominare un numero di amministatori e sindaci (ovvero consiglieri di sorveglianza) proporzionale alla partecipazione societaria, con connesso esclusivo potere di revoca.

[12][13] cfr. Romagnoli, L’esercizio di direzione e coordinamento di società da parte di enti pubblici, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2004, 214 e segg.

[13][14] Per un puntuale esame delle possibili ipotesi nell’ambito di un gruppo capeggiato da una holding pubblica, Romagnoli, L’esercizio di direzione e coordinamento di società da parte di enti pubblici, cit., 217 e segg.

[14][15] Il quadro giuridico che ne risulta è del tutto disorganico e privo di sistematicità, composto da una pluralità di disposizioni speciali che il legislatore ha introdotto in ossequio a esigenze di natura contingente.

[15][16] d.l. 4 luglio 2006, n. 223 - “Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”, convertito in l. 248/2006

     [1][17] I soggetti indicati nella norma dovevano cessare le attività non consentite mediante cessione a terzi, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, oppure attraverso lo scorporo, costituendo, se necessario, una separata società.

La Finanziaria 2007 ha eliminato l’obbligo di collocare sul mercato le costituende società con la procedura prevista dal d.l. 31 maggio 1994, n. 332, convertito dalla l. 30 luglio 1994, n. 474 e ha riconosciuto la validità dei contratti conclusi dopo l’entrata in vigore del decreto a condizione che la procedura di aggiudicazione fosse perlomeno indetta, ancorché non perfezionata.

Il termine per la cessione delle attività non consentite, più volte prorogato, è stato da ultimo rinviato al 4 gennaio 2010 (ex art. 20, comma 1-bis, l. 29 febbraio 2009, n. 14).

[16][18] Sono strumentali le società create o partecipate per svolgere attività rivolte alla stazione appaltante e non nei confronti del pubblico; cfr. Cons. Stato, 14 aprile 2008, n. 1600

[17][19] In questi termini, Di Russo-Miele, La holding locale, in Di Russo – Falduto (a cura di), Governo, controllo e valutazione delle società partecipate dagli enti locali, Torino, 2009, 49

[18][20] La norma ha superato il vaglio di costituzionalità; la Consulta (Corte cost., 1 agosto 2008, n. 326 in Foro it., 2010, I, 786), nel riconoscere la legittimità costituzionale dell’art. 13 del Decreto Bersani, ha chiarito che la disposizione effettua una distinzione tra attività amministrativa “di natura finale o strumentale” alla pubblica amministrazione e “attività di erogazione dei servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza”. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento devono essere diverse per “evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali”  e possano provocare una “distorsione della concorrenza”. Conseguentemente, l’art. 13 del Decreto Bersani ha come obiettivo di “separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione.

In merito alla capacità che la norma riesca a perseguire finalità inerenti alla tutela della concorrenza la Corte ha considerato,  in primo luogo, che le disposizioni che “impediscono alle società in questione di operare per soggetti diversi dagli enti territoriali soci o affidanti, imponendo di fatto una separazione societaria, e obbligandole ad avere un oggetto sociale esclusivo non appaiono irragionevoli, né sproporzionate, rispetto alle esigenze indicate, in quanto mirano ad assicurare la parità nella competizione, che potrebbe essere alterata dall'accesso di soggetti con posizioni di privilegio in determinati mercati”. In secondo luogo “il divieto di detenere partecipazioni in altre società o enti è volto ad evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, le attività loro precluse” nel territorio nazionale. Quindi la disposizione non vieta in assoluto di detenere partecipazioni, ma vieta la detenzione di partecipazioni “in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse”.

[19][21] Bassi, Le società strumentali delle regioni e degli enti locali: qualche puntualizzazione a due anni dalla disciplina speciale, in Appalti e contratti, 2009.

      [1][22] In particolare, si fa notare che il legislatore, con l’art. 13 del Decreto Bersani non ha inteso fare riferimento ad una specifica attività “riservata” dal TUB, ma unicamente una serie di attività –  tutte riconducibili in via funzionale alla detenzione di partecipazioni – che potevano trovare una più semplice individuazione tramite il richiamo espresso del testo unico bancario che, in allora, le elencava.

[20][23] La l. 131/2003 identifica come essenziali quelle concernenti il funzionamento degli enti locali e il soddisfacimento dei bisogni primari della comunità.

      [1][24]  In merito, Corte dei conti, sez. contr. reg. Lombardia, 8 luglio 2008, n. 48, in Giurisdiz. amm., 2008, III, 679; la magistratura contabile ha chiarito che l’elemento discriminante è l’oggetto delle società, per cui è necessario che i competenti organi amministrativi delle amministrazioni pubbliche effettuino una ricognizione delle partecipazioni delle società a qualunque titolo in mano pubblica, in modo da verificare che le stesse rispondano, o meno, ai requisiti fissati dalla Finanziaria 2008.

Con tale attività i suddetti organi devono pronunciarsi “caso per caso con una motivata delibera ad hoc” indicando la sussistenza dei requisiti, o in mancanza degli stessi, gli opportuni provvedimenti da adottare

[21][25] La scadenza originaria del 30 giugno 2009 è stata prorogata dall’art. dall’art. 71, comma 1, lettera e), l. 18 giugno 2009, n. 69

[22][26] Tuttavia, la Corte costituzionale (1 agosto 2008, n. 326, cit.) ha precisato che “le pubbliche amministrazioni, entro il termine fissato per legge, devono avviare la procedura di dismissione, ma non obbligatoriamente completarne l’iter. E ciò per evitare svendite o speculazioni dei soggetti privati nella determinazione del prezzo di acquisto della partecipazione o della società in mano pubblica.” Si rende così necessario la redazione di un “accurato programma che scandisca i tempi e le modalità delle previste dismissioni.

[23][27] In tal senso, Di Russo-Miele, La holding locale, cit., 49

[24][28] Corte dei conti, sez. contr. Reg. Lombardia, 14 settembre 2010, n. 874, in www.corteconti.it

[25][29] Secondo la magistratura contabile (cfr. Corte dei conti, sez. contr. Molise, 23 luglio 2009, n. 32), è legittima la costituzione di società e/o l’assunzione di partecipazioni in mancanza delle quali non vi sarebbe altro modo per perseguire l’interesse istituzionale dell’ente.

[26][30] La Commissione Europea, nel rielaborare il concesso di “servizi di interesse economico generale” di cui all’art. 86, Trattato CE, ha definito il servizi di interesse generale come quelli che “le autorità pubbliche ritengono che debbano essere garantiti, anche qualora il mercato non sia sufficientemente incentivato a provvedervi da solo”, ossia i servizi che le autorità pubbliche – in base alla sensibilità politiche di ogni Stato membro – ritengono di dover fornire in ogni caso.

[27][31] convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, come modificato dall’articolo 1, comma 117, della l. 13 dicembre 2010 n. 220 (Finanziaria 2011), a sua volta modificato in sede di conversione del d.l. 29 dicembre 2010 n. 225 (c.d. “mille proroghe”)

[28][32] Corte dei conti, sez. contr. Reg. Lombardia, 13 ottobre 2010, n. 1002, in www.corteconti.it ha chiarito che l’art. 14, comma 32, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 incide sul piano numerico operativo delle partecipazioni, sulla base della soglia demografica dell’Ente, mentre l’art. 3, comma 27, Finanziaria 2008, incide sulle finalità istituzionali perseguibili dall’Ente attraverso la partecipazione societaria; pertanto, l’inciso “fermo restando quanto previsto dall’art. 3, commi 27, 28, 29 della legge 24 dicembre 2007, n. 244” si risolve in una “clausola di salvaguardia della normativa e può solo significare che, entro i limiti numerici delle partecipazioni che ciascun ente può detenere in base alle disposizioni dell’art. 14, comma 32, le stesse dovranno, in ogni caso, essere conformi ai canoni previsti dall’art. 3, comma 27 della legge finanziaria dell’anno 2008

[29][33] Il termine per le dismissioni, originariamente previsto per il 31 dicembre 2011, è stato prorogato al 31 dicembre 2013 in sede di conversione del d.l. 29 dicembre 2010 n. 225 (c.d. “mille proroghe”), che ha modificato in tal senso il comma 117 dell’articolo 1 della legge 13 dicembre 2010 n. 220. Le modalità attuative della disposizione, nonché ulteriori ipotesi di esclusione dal relativo ambito di applicazione, devono essere determinate con decreto del Ministro per i Rapporti con le Regioni, di concerto con i Ministri dell’Economia e delle Finanze e per le Riforme per il Federalismo, da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione.

[30][34] ex art. 14, comma 32, l. 30 luglio 2010 n. 122, come modificato in sede di conversione del d.l. 29 dicembre 2010 n. 225

[31][35] In tal senso, Corte dei conti, sez. contr. Reg. Puglia, 8 luglio 2010, 56, in www.corteconti.it: “il rapporto tra la norma posta dall’art. 14, comma 32 del d.l. 78/10 e la norma dell’art. 23 bis, comma 8, lett. a) del d.l. 112/08 deve essere ricostruito in termini di specialità in quanto mentre la prima ha ad oggetto, indistintamente, tutti gli enti societari partecipati dai Comuni, la seconda si riferisce alle sole società in house affidatarie di servizi pubblici locali. Pertanto in applicazione del principio di specialità il Collegio ritiene che le società in house che gestiscono servizi pubblici locali rimangono soggette al regime transitorio stabilito dall’art. 8, lettera a) del D.L. 112/08

[32][36] Peraltro, il documento “Aspetti regolamentari delle società "in house"” del maggio 2010, elaborato dalle commissioni dell’area enti pubblici “Servizi pubblici” e “Governance delle partecipate” del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, ha ritenuto più adeguato un organo di amministrazione collegiale in relazione alla natura della società e agli interessi rappresentati: “Al fine di garantire efficacia al controllo del socio sarà opportuno introdurre in statuto alcune limitazioni al potere degli organi delegati (Presidente, Comitato esecutivo e amministratori delegati), atteso che i segnali provenienti dal legislatore sembrano favorire la collegialità della gestione in capo ai consigli di amministrazione, a scapito della figura dell'amministratore delegato, e ancor più di quella del Comitato Esecutivo.”

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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