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Cpa: In caso di soccombenza spese pesanti per il ricorrente-Consiglio di Stato - Sezione V - Sentenza 23 maggio 2011 n. 3083

 

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Giuseppe Urbano (Guida al Diritto)

 

La sconfitta davanti ai tribunali amministrativi può costare cara in termini di condanna alle spese. L’articolo 26, comma 2, c.p.a. prevede che “Il  giudice,  nel  pronunciare  sulle  spese,  può  altresì condannare, anche d'ufficio, la parte  soccombente  al  pagamento  in favore dell'altra  parte  di  una  somma  di  denaro  equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su  ragioni  manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati”.

 

Sulla base di quest’ultima disposizione la Sezione V del Consiglio di Stato con la sentenza del 23 maggio 2011, n. 3083 ha condannato il ricorrente che aveva proposto un ricorso per revocazione ex articolo 395, n. 4. c.p.c. Il ricorso è stato dichiarato manifestamente inammissibile e la condanna di € 5.000,00 per ciascuna parte ai sensi dell’articolo 26, comma 2, C.p.a. si è aggiunta a quella relativa alle spese di lite, anch’essa di € 5.000,00 per ciascuna parte. Il ricorrente aveva invocato l’errore di fatto che consente il ricorso per revocazione in realtà per reiterare le censure e le prove già esaminate in sede di appello e sulle quali il giudice si era già espresso. Con ciò eludendo le maglie strette entro le quali è consentito il rimedio della revocazione.

 

 

La sentenza in commento fornisce un inquadramento dell’articolo 26, comma 2, c.p.a. nell’ambito delle disposizioni processuali relative alla condanna alle spese di giudizio.

 

 

Alcune di esse prevedono una condanna al pagamento di somme di denaro a tutela della controparte. Tra queste si possono annoverare quelle che riguardano le spese di lite (articoli 91 e 92 c.p.c.) e quelle relative alla responsabilità per lite temeraria (articolo 96, commi 1 e 2, C.p.c.). Nel primo caso, la parte vittoriosa viene rimborsata delle spese sostenute per essere stata costretta all’instaurazione del giudizio o per resistere in un giudizio infondato nei suoi confronti. Il secondo caso riguarda una fattispecie più grave: l’azione o la resistenza in giudizio nei confronti della parte vittoriosa integra un vero e proprio danno civile. In questo caso, dunque, la condanna presuppone l’esistenza effettiva di un danno e il nesso di causalità tra la condotta illecita processuale e il danno. Sotto il profilo soggettivo è richiesto qualcosa in più della semplice colpa: la “mala fede” o la “colpa grave”.

 

 

Altre disposizioni sono poste a tutela dell’interesse pubblico a non aggravare l’efficiente ed efficace svolgimento dell’azione giudiziaria. Così per esempio, l’articolo 246 bis del Codice dei contratti pubblici - introdotto dal recente articolo 4, comma 2, lett. ii), Dl n. 70/2011 – prevede una sanzione economica a carico di chi instaura un giudizio o vi resiste in modo pretestuoso. In questi casi, il gettito è conseguentemente devoluto all’erario.

 

 

L’articolo 26, comma 2, c.p.a., pur avendo presupposti applicativi analoghi a quelli previsti dall’articolo 246 bis del Codice dei contratti pubblici, ha una finalità diversa, essendo diretto a tutelare in prima battuta il privato leso dall’azione giudiziale dell’avversario. Solo in via mediata, la norma tutela anche l’interesse pubblico ad evitare giudizi inutili che paralizzano l’attività giudiziaria ostacolando la realizzazione del “giusto processo” attraverso il rispetto del valore della ragionevole durata del processo.

 

 

L’articolo 26, comma 2, C.p.a. ha carattere speciale rispetto alla disposizione più generale di cui all’articolo 96, comma 3, C.p.c.

Mentre quest’ultima, infatti, si limita a prevedere in modo generico la possibilità di condanna equitativa in caso di soccombenza, la prima disposizione ha un contenuto più determinato con particolare riferimento ai presupposti di applicazione: la decisione che giustifica la condanna deve essere fondata su “ragioni manifeste” o su “orientamenti giurisprudenziali consolidati”.

 

 

Rimane analoga, però, la natura giuridica. Secondo il Consiglio di Stato la norma prevede “un indennizzo” per “il danno lecito da processo”, cioè il pregiudizio che la parte vittoriosa ha subito in ragione del processo e della sua durata, anche se la controparte non sia soggettivamente rimproverabile. Ciò vale a distinguerla dalle altre tipologie di condanna già accennate (condanna alle spese della lite, condanna per lite temeraria, sanzione pubblica).

 

 

Non si tratta di mere disquisizioni teoriche. L’aver ricavato, infatti, un ruolo autonomo alla disposizione in questione rispetto a quelle già previste dall’ordinamento processuale, comporta in termini pratici la possibilità di cumulare le diverse tipologie di condanne.

 

Tra il semplice rimborso delle spese di lite e il risarcimento del danno per lite temeraria si colloca dunque la figura intermedia dell’indennizzo per danno lecito da processo. Una maggiore attenzione, in definitiva, dovrà essere prestata nel decidere se incardinare un giudizio o resistervi, se è ragionevolmente scontata la soccombenza.

 

 

 

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