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Condizioni e limiti dell’integrazione probatoria da parte del magistrato giudicante-(Nota al Cass. SS. UU. 18 dicembre 2006 n. 41281 della Dott.ssa Angela Allegria) –La previdenza.it

 

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La sentenza n. 41281/2006 è di particolare interesse perché affronta e risolve due questioni interpretative per anni controverse.

 

La prima riguarda la qualificazione o no della relazione di servizio della polizia giudiziaria come atto irripetibile, ai fini e per gli effetti dell’inserimento nel fascicolo per il dibattimento (art. 431, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale).

 

La seconda concerne la ricostruzione delle condizioni e dei limiti entro cui può essere esercitato il potere integrativo del giudice del dibattimento in materia di prova (articolo 507 del codice di procedura penale).

 

La soluzione adottata in specie sulla natura ripetibile della relazione di servizio consente alla Corte di affrontare l’altra questione sottoposta alla sua attenzione, ovvero quella relativa all’ambito dei poteri di iniziativa probatoria del giudice nel processo penale.

 

L’art. 507 cpp prende in esame la questione concernente l’assetto tra i poteri delle parti e l’iniziativa del giudice in campo probatorio attribuendo a questi il potere di integrazione probatoria ex officio. L’intervento del giudice su tale terreno costituisce una sorta di “intrusione nell’iniziativa” che, in via principale, è demandata alle parti in virtù del principio dispositivo incardinato nell’art. 190 cpp, tuttavia una ragionevole deroga a tale principio si rende necessaria per pervenire ad una “giusta” condanna a cui non si potrebbe giungere se l’istruttoria dibattimentale si rivelasse lacunosa ed incompleta.

 

In un contesto nel quale si passa da sistema di tipo inquisitorio nel quale vigeva il principio del “contraddittorio sulla prova”  che veniva assunta in una precedente fase istruttoria e poi valutata nel contraddittorio mentre la figura del giudice istruttore costituiva un organo d’accusa che aveva il potere di formulare un’ipotesi ricostruttiva del fatto e ricercava le fonti di prova necessarie a fondarla, ad un sistema di tipo accusatorio nel quale si parla di “contraddittorio per la prova” facendo riferimento all’art. 111 co. 4 Cost che dispone che “il processo penale è regolato dal contraddittorio nella formazione della prova”, ed i poteri del giudice istruttore sono stati assorbiti dal ruolo del pm, si deve stabilire se i poteri officiosi del giudice in campo probatorio costituiscono un “nostalgico” residuo del sistema inquisitorio o se essi siano a sostegno del principio della ricerca della verità come fine “primario ed ineludibile del processo”, come ribadito dalla Corte Costituzionale con sent. 3 giugno 1992 n. 255.

 

La questione concernente la natura dei poteri attribuiti al giudice dall’art. 507 si pone in relazione ad un duplice ordine di problemi: se tali poteri possano essere esercitati in rapporto a prove non tempestivamente dedotte dalle parti (come nel caso in cui il pm non abbia presentato la lista testimoniale entro il termine previsto a pena di decadenza dall’art. 468 cpp) e, più in generale, se l’attivazione di tali poteri necessiti o meno di un principio di attività probatoria svolta dalle parti.

 

La risposta a tali quesiti ha dato origine ad una sorta di “guerra di religione”, un dibattito che ha coinvolto dottrina e giurisprudenza.

 

Secondo un orientamento restrittivo, il quale fa riferimento ad un modello accusatorio “puro”, il potere ex art. 507 presenta un carattere di eccezionalità, in quanto la gestione dell’istruzione dibattimentale è demandata alle parti, sicché al giudice, il quale deve mantenersi rigorosamente neutrale rispetto alle prospettive individuali, è consentito un potere di intervento nell’acquisizione probatoria limitato all’integrazione delle tesi rimaste incomplete; non è quindi esercitabile se nessuna attività istruttoria è stata compiuta per essere stata dichiarata inammissibile la richiesta di prova testimoniale, come nel caso di omesso deposito della lista ex art. 468 ovvero di mancata indicazione delle circostanze su cui l’esame deve vertere.

 

Secondo un indirizzo intermedio, il potere di integrazione probatoria attribuito al giudice dall’art. 507 non è vincolato da preclusioni o decadenze, ma non può supplire alla totale inerzia delle parti; è quindi esercitabile a condizione che qualche prova sia stata acquisita, quantomeno sulla base della lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento.

 

Secondo un orientamento estensivo, il potere di assunzione di nuove prove non tollera alcuna limitazione, purché vi sia l’assoluta necessità ai fini dell’accertamento della verità. Aderendo a tale orientamento in dottrina si è sottolineato che il principio dispositivo possiede una forza espansiva dei poteri delle parti, ma non svolge una funzione preclusiva, con la conseguenza che i poteri officiosi del giudice, seppure residuali, delimitano il potere dispositivo sia “verso l’alto”, ovvero attribuendo al giudice la facoltà di escludere le prove irrilevanti, superflue e vietate dalla legge, sia “verso il basso”, consentendo di integrare le prove dedotte dalle parti, quando queste risultino insufficienti ad assicurare la funzione conoscitiva del processo.

 

Dal punto di vista giurisprudenziale nel 1992 le SS. UU. si erano pronunciate sulla questione con la Sent. 6 novembre 1993 n. 11227, c.d. sentenza Martin la quale aderisce all’orientamento estensivo ed afferma che la tesi restrittiva, secondo la quale al giudice è precluso il potere di ammettere prove che le parti avrebbero potuto chiedere ma non hanno chiesto, non è sorretta “né da argomenti letterali né sistematici”, argomenti che sorreggono invece la tesi estensiva. Infatti, dai lavori preparatori concernenti la genesi della direttiva 73, da cui l’art. 507 trae origine, fin dagli emendamenti proposti dall’allora Guardasigilli Morlino in relazione al testo della legge delega del 1974, emerge con chiarezza l’intenzione del legislatore di dare al giudice un potere in grado di ovviare all’inerzia delle parti in materia probatoria.

 

Inoltre la lettura estensiva dell’art. 507 ben si armonizza con il dettato dell’art. 603 cpp, non potendo riconoscersi che al giudice di appello, rinnovando l’istruttoria dibattimentale, competa un potere probatorio più ampio che gli consenta di ammettere prove che erano precluse al giudice di prima istanza: “altrimenti in alcuni casi si renderebbe necessario l’appello per completare il quadro probatorio, costringendo il giudice di primo grado ad una decisione non sorretta da elementi e quindi provvisoria”.

 

Tale pronuncia è stata consacrata dalla Corte Costituzionale con sent. 26 marzo 1993 n. 111  nella quale la Corte dichiara la infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 507 sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 76, 77, 101, 111 e 112 Cost. ed afferma che il potere istruttorio del giudice del dibattimento, di cui all’art. 507 non è affatto eccezionale, bensì suppletivo rispetto a quello delle parti. Il Giudice delle leggi afferma che una lettura in chiave limitativa del potere ex art. 507 contrasta con “la ricerca della verità” che rimane “il fine primario ed ineludibile del processo penale”. Infatti il metodo dialogico che presiede alla formazione della prova nel dibattimento, non può porsi come un ostacolo al pieno accertamento dei fatti, “altrimenti ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalità e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorietà dell’azione penale”.

 

Riprendendo le argomentazioni affrontate nella Sentenza Martin, la Corte Costituzionale ha evidenziato che il diritto alla prova, pur rivestendo un ruolo centrale nel processo di parti, non può escludere la “introduzione ad iniziativa del giudice delle prove necessarie all’accertamento dei fatti, rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti o dalla quali siano decadute”. Una simile conclusione trova giustificazione nella previsione di numerosi poteri d’ufficio riconosciuti al giudice nella fasi dibattimentale (artt. 506, 508, 511, 511 bis) fra i quali spicca proprio quello fissato dall’art. 507.

 

Nonostante gli interventi delle SS. UU. e della Corte Costituzionale, non sono mancate pronunce contrarie da parte delle singole sezioni della Cassazione, le quali hanno restrinto i poteri officiosi del giudice escludendo che essi possano esercitarsi in caso di inerzia delle parti.

 

Si ricordino, ad esempio, la Cass. Sez. V, 1 dicembre 2004, n. 15631 e la Cass. Sez. I, 30 gennaio 1995, Rizzo, Cass. Sez. I 28 settembre 1995, Cass. Sez. I 8 luglio 2000, Cass. Sez. III 10 dicembre 1996, sentenze che “seppure talvolta accreditate come espressione del contrario orientamento, sono in realtà caratterizzate da peculiarità dei singoli casi che non consentono di ritenerle adesive dell’uno o dell’altro orientamento”.

 

Con sentenza 41281/2006, le SS. UU. riaffermano in toto l’impianto argomentativo della sentenza Martin alla luce dell’art. 111 Cost. in tema di “giusto processo” e dichiarano che il potere del giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 507, può essere esercitato pur quando non vi sia stata precedente acquisizione di prove che le parti avrebbero potuto chiedere e non hanno chiesto, ma sempre che l’iniziativa probatoria si necessaria e miri all’assunzione di una prova decisiva nell’ambito delle prospettazioni delle parti.

 

La riforma dell’art. 111 Cost. ha, infatti, solamente accentuato il principio fondante del processo accusatorio, ossia quello secondo il quale la prova si forma nel contraddittorio delle parti, ma non ha in alcun modo inciso sul principio dispositivo che, pur caratterizzando il processo accusatorio, non è stato integralmente recepito nel codice di rito, cosa che neppure è stata fatta per il processo civile, nel quale quel principio trova la sua più ampia applicazione.

 

La Corte svolge alcune considerazioni di tipo storico e comparatistico ricordando il sistema nordamericano all’interno del quale nel 1976 vi fu un’innovazione legislativa che consentì la nomina d’ufficio dell’esperto indipendente (expert witness) da parte del giudice ad opera della Rule 706 delle Federal Rules of Evidence del 1975 riguardante sia il processo civile che quello penale. Tale innovazione conferma normativamente una deroga del principio dispositivo che peraltro la giurisprudenza civile aveva già affermato, mentre permane ancora oggi nella giurisprudenza penale un certo rifiuto nell’applicazione della norma.

 

Si chiede la Suprema Corte: “Perché mai non dovrebbe essere considerato terzo un giudice scrupoloso che intende giudicare a ragion veduta e non con informazioni conoscitive insufficienti ben sapendo che è possibile colmare almeno una parte delle lacune esistenti? È questo potere (da esercitare solo in caso di assoluta necessità) un residuo del principio inquisitorio oppure vale a fondare un processo veramente «giusto»?”

 

In realtà l’attribuzione al giudice dei poteri officiosi in materia di prova, lungi dall’interferire sul principio di terzietà del giudice, ha la funzione di fondare un “giusto processo”, funzione che può essere perseguita colmando anche le eventuali lacune delle parti qualora il giudice non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o l’insufficienza del materiale probatorio.

 

Si legge nella Sent. 41281/2006: “senza neppure scomodare i grandi principi, in particolare quello secondo cui lo scopo del processo è l’accertamento della verità, si può ragionevolmente affermare che la norma mira esclusivamente a salvaguardare la completezza dell’accertamento probatorio, sul presupposto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti”.

 

A questo punto va rimarcata la differenza logico-concettuale tra l’ipotesi di incertezza probatoria all’origine dei poteri ex art. 507 e l’ambito in cui ricadono le situazioni contemplate dall’art. 530 co. 2 cpp, nel quale si impone al giudice di assolvere l’imputato quando la prova sia insufficiente e contraddittoria.

 

Nel caso dell’art. 507 si tratta di una valutazione afferente l’incompletezza del materiale probatorio a cui può essere posto rimedio essendo emersa in dibattimento una fonte che, astrattamente, consentirebbe l’integrazione del thema probandum, mentre nel caso delle ipotesi contemplate dall’art. 530 co. 2 si tratta di una regola di giudizio in base alla quale la prova, pur esaurientemente raccolta nel corso dell’istruttoria dibattimentale, si rivela inidonea a fondare la colpevolezza dell’imputato. Le due norme in esame hanno quindi un diverso oggetto.

 

Inoltre, l’attribuzione del potere ex art. 507 mira a dare concretezza al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, costituzionalizzato nell’art. 112, il quale comporta la necessità che il giudice possa e debba sempre verificare l’esercizio da parte del pm dei suoi poteri di iniziativa, come delle sue carenze od omissioni.

 

“Una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a vanificare il principio dell’obbligatorietà dall’azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione del pm”.

 

Ciò a differenza dei sistemi accusatori dei Paesi di commow law nei quali l’azione penale non è obbligatoria ed il pm può rinunciare ad essa anche per facta concludentia, ad esempio rinunciando ad ammettere alcune prove.

 

Presupposto per l’esercizio del potere officioso ex art. 507 è l’espletamento dell’istruttoria dibattimentale. L’espressione “terminata l’acquisizione delle prove” indica il limite temporale decorso il quale il giudice può esercitare il potere di integrazione probatoria, anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna precedente attività delle parti.

 

Pur recependo questa interpretazione sostenuta da dottrina e giurisprudenza, quest’ultima non si è tuttavia mostrata rigida nell’applicazione della regola temporale stabilita dall’art. 507. Si è, infatti, stabilito che l’assunzione di una testimonianza disposta ai sensi dell’art. 507 in un momento diverso rispetto a quello indicato dalla norma costituisce mera irregolarità la quale non è sanzionata né sotto il profilo della inutilizzabilità, né di quello della nullità di ordine generale ricollegabile all’art. 178 co. 1 lett. C cpp in quanto l’escussione di un teste, “anticipata” rispetto al termine dell’acquisizione delle prove, non incide sull’assistenza, sulla rappresentanza o sull’intervento dell’imputato.

 

La prova deve essere nuova, assolutamente necessaria e pertinente.

 

Secondo le Sezioni Unite e la Corte Costituzionale per “prova nuova” deve intendersi non solo la prova sopravvenuta o scoperta successivamente rispetto all’allegazione di parte a norma dell’art. 493 cpp, ma anche la prova non disposta precedentemente, preesistente o sopravvenuta, conosciuta o non conosciuta, purché risulti dagli atti.

 

Dalla lettera dell’art. 507 la prova deve essere “assolutamente necessaria”, deve cioè avere carattere di decisività, presupposto indefettibile “diversamente da quanto avviene nell’esercizio ordinario del potere dispositivo delle parti in cui si richiede soltanto che le prove siano ammissibili e rilevanti”.

 

L’assunzione d’ufficio ex art. 507 presuppone l’assoluta impossibilità di decidere allo stato degli atti, è una valutazione ampiamente discrezionale e per questo può essere in concreto contestata. Ma il giudice ha l’onere di motivare tale assunzione di prove sicché, secondo la giurisprudenza, l’eventuale carenza giustificativa determina un vizio di motivazione passibile di determinare la nullità della sentenza. Tale ordinamento giurisprudenziale è stato criticato in dottrina in quanto rischia di vanificare ogni tipo di controllo sull’operato del giudice.

 

Il canone dell’assoluta necessarietà comporta quindi una più penetrante ed approfondita valutazione di pertinenza e rilevanza delle nuove prove, che è correlata alla più ampia conoscenza dei fatti di causa già acquisita.

 

Una parte della dottrina sostiene che la prova risulta assolutamente necessaria quando il suo grado di rilevanza risulta indispensabile perché il giudice possa superare l’incertezza probatoria ed emettere una giusta decisione, un’altra parte, la quale si riallaccia all’interpretazione maggiormente restrittiva dell’art. 507, afferma che nuove acquisizioni probatorie sono legittime solo in presenza di un elemento emergente per la prima volta nel dibattimento tale da incrinare la linearità della costruzione del fatto.

 

Inoltre il potere integrativo può essere esercitato solo nell’ambito delle prospettazioni e non per supportare probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice possa ipotizzare, giacché diversamente si finirebbe con il pregiudicare il basilare principio della terzietà del giudice.  (Cass. SS. UU. 30 ottobre 2003, n. 20, Andreotti).

 

Si legge nella sentenza per il delitto Pecorelli: “la corte di assise di appello, disancorandosi consapevolmente dalle ipotesi antagoniste prospettate dall’accusa e dalla difesa ed esimendosi dall’obbligo istituzionale di sciogliere i nodi del confronto dialettico sviluppatosi, sia sulle ipotesi che sulle prove, nel corso del giudizio di merito, ha deciso di sottoporre a verifica giudiziale un proprio «teorema»accusatorio, da essa formulato in via autonoma ed alternativa, in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione, anche rispetto ai problemi implicati nel caso giudiziario”.

 

Circa la tipologia delle prove assumibili è controversa la questione se il legislatore abbia voluto circoscriverle o meno.

 

Se si segue la lettera dell’art. 507 sono da escludere i mezzi di ricerca della prova (ispezione, perquisizione, sequestro probatorio, intercettazione), salvo che tendano alla ricerca di una cosa o di un documento la cui acquisizione sia per legge obbligatoria o la cui esistenza o collocazione risulta dagli atti.

 

Ma l’orientamento maggioritario sostiene che la formula impiegata dal legislatore non deve intendersi in senso riduttivo, perché sarebbe frutto di una mera svista del legislatore, come dimostrato sia dalla rubrica della norma (ammissione di nuove prove), sia dal contenuto dell’omologa previsione dell’art. 523 co. 6 cpp i quali si riferiscono entrambi all’assunzione di nuove prove, espressione comprensiva anche dei mezzi di ricerca della prova.

 

Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza, la quale sostiene che l’esercizio dei poteri ex art. 507 comprende tutti i mezzi di prova nuovi rispetto a quelli acquisiti ad iniziativa delle parti, ivi compresi i mezzi di ricerca della prova.

 

In conclusione la Suprema Corte si sofferma sulla posizione delle parti a fronte dell’esercizio del potere integrativo officioso da parte del giudice affermando: “resta integro il potere delle parti di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova – secondo la regola indicata nell’art. 495 cpp co. 2 (prova contraria) – la cui assunzione si sia resa necessaria a seguito dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio e, da diverso punto di vista, che l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir meno l’onere del Pubblico Ministero di provare il fondamento dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti”.

 

Dott.ssa Angela Allegria

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONI UNITE PENALI

 

Sentenza 17.10.2006 n. 41281

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. MARVULLI Nicola - Presidente -

 

Dott. LATTANZI Giorgio - Consigliere -

 

Dott. DE ROBERTO Giovanni - Consigliere -

 

Dott. CALABRESE Renato L. - Consigliere -

 

Dott. BRUSCO Carlo G. - rel. Consigliere -

 

Dott. CARMENINI Secondo Libero - Consigliere -

 

Dott. CANZIO Giovanni - Consigliere -

 

Dott. FIALE Aldo - Consigliere -

 

Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere -

 

ha pronunciato la seguente: sentenza

 

sul ricorso proposto da:

 

G.A. Nata a (OMISSIS);

 

Avverso la sentenza del Tribunale di Biella in data 7.3.2005; Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso; Udita in pubblica udienza la relazione svolta dal Consigliere Dott. Carlo Giuseppe Brusco; Udito il Pubblico Ministero nella persona dell’Avvocato Generale Dott. Esposito Vitaliano che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.

 

Fatto

 

1) La sentenza impugnata e i motivi di ricorso. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Biella ha proposto ricorso immediato per Cassazione avverso la sentenza 7 marzo 2003 del Tribunale di Biella, in composizione monocratica, che ha assolto G.A. Da plurime imputazioni concernenti il reato di cui all’art. 485 cod. pen. (quattro evasioni dagli arresti domiciliari commesse tra il 6 e il 31 maggio 2000).

 

Il Tribunale ha ritenuto che non fosse stata provata la responsabilità dell’imputato; il Pubblico Ministero infatti non aveva depositato la lista testimoniale e il giudice aveva respinto la richiesta di ammissione dei testi ai sensi dell’art. 507 c.p.p. Ritenendo inapplicabile questa norma nel caso di inerzia della parte;

 

inoltre era stata respinta la richiesta di inserimento nel fascicolo per il dibattimento delle relazioni di servizio redatte dagli organi di polizia giudiziaria.

 

A fondamento del ricorso il pubblico ministero ricorrente deduce:

 

• la violazione dell’art. 507 c.p.p.; in base all’orientamento della Corte costituzionale (sentenza 26 marzo 1993 n. 111) e a quello, assolutamente prevalente, della Corte di cassazione (ed in particolare delle sezioni unite: sentenza 21 novembre 1992 n. 17, Martin) l’interpretazione che il giudice di primo grado ha dato della norma indicata non può essere condivisa, secondo il ricorrente, perché trascura di considerare che il nuovo processo penale, pur essendo fondato sul principio dispositivo, ha pur sempre per fine ultimo la ricerca della verità; ciò giustificherebbe un’interpretazione non limitativa dei poteri officiosi del giudice anche nei casi di inerzia delle parti;

 

• la violazione dell’art. 431 c.p.p., comma 1, lett. B; l’accertamento compiuto dalla polizia giudiziaria sulla presenza della persona nella sua abitazione non costituirebbe infatti un atto di mera informativa ma conterrebbe un accertamento e la descrizione di una situazione di fatto suscettibile di modificazioni nel tempo e sarebbe quindi correttamente inquadrabile tra gli atti non ripetibili della polizia giudiziaria con la conseguente possibilità di acquisizione al fascicolo per il dibattimento.

 

In conclusione il ricorrente chiede l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

 

2) L’ordinanza di rimessione alle sezioni unite. La sesta sezione di questa Corte, alla quale il procedimento era stato assegnato, ha, con ordinanza 13 giugno 2006, disposto la trasmissione degli atti a queste sezioni unite rilevando che su entrambe le questioni proposte con i motivi di ricorso sussiste contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

 

Quanto al primo tema di contrasto nell’ordinanza di trasmissione si sottolinea che – dopo che le sezioni unite (con la già citata sentenza 6 novembre 1992 n. 11227, Martin) avevano ritenuto che il potere del giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., potesse esercitarsi non solo quando non vi era stata precedente ammissione di prove ma altresì con riferimento a prove che le parti avrebbero potuto chiedere e non hanno richiesto – si sono formati due orientamenti divergenti nella giurisprudenza di legittimità. Il primo, maggioritario, si è posto sulla linea accolta dalle sezioni unite; secondo altre decisioni invece il potere officioso del giudice nel procedimento di formazione della prova può essere integrativo e sussidiario ma mai del tutto sostitutivo dei poteri propri delle parti.

 

In merito al problema relativo alla delimitazione del concetto di atti non ripetibili – con particolare riferimento alla possibilità di inquadrare in questa categoria le relazioni di servizio che riproducono attività di constatazione ed osservazione effettuate dalla polizia giudiziaria – la sesta sezione ha evidenziato una duplice e ricorrente divaricazione nella giurisprudenza di legittimità sostenendosi, in alcune decisioni, che le indicate relazioni costituiscono atti non ripetibili equiparabili a perquisizioni, sequestri ed ispezioni con la conseguente possibilità di acquisire questi atti al fascicolo per il dibattimento. Per converso il secondo e contrastante orientamento esclude invece questa possibilità affermando che le relazioni in questione costituiscono una mera constatazione ed acquisizione della notizia di reato, che può essere agevolmente ridescritta dall’operante nel corso del dibattimento, e non possono quindi essere acquisite all’indicato fascicolo.

 

Diritto

 

3) Gli atti non ripetibili in generale. Per ragioni di ordine logico è opportuno esaminare preliminarmente la questione relativa alla possibilità di acquisire al fascicolo per il dibattimento le relazioni di servizio. Dalla risposta a questo quesito discende infatti la rilevanza dell’altro quesito perché una risposta positiva (nel senso che la relazione di servizio di cui si tratta nel presente giudizio fosse ritenuta acquisibile e utilizzabile dal giudice) renderebbe privo di rilievo l’esame dell’altro tema proposto.

 

Su questo problema il contrasto nella giurisprudenza di legittimità è effettivo e risalente negli anni; anche dopo che le sezioni unite di questa Corte l’avevano risolto con la sentenza 28 ottobre 1998 n. 4, Barbagallo, rv. 212758 – affermando la possibilità di inserimento nel fascicolo per il dibattimento dei “verbali di sopralluogo e di osservazione e delle riprese fotografiche connesse” (in una decisione peraltro dedicata all’esame di altri temi) – la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è nuovamente divaricata soprattutto sul quesito se rientrino tra gli atti irripetibili le relazioni di servizio sulle attività di constatazione, osservazione, pedinamento, controllo ecc. mentre non v’è un effettivo contrasto sulla natura irripetibile degli atti che descrivono situazioni di luoghi, persone o cose soggette a modificazioni.

 

In particolare, per restare alle pronunzie più recenti, tra le decisioni che hanno seguito il percorso delle sezioni unite possono essere ricordate Cass., sez. 5^, 12 ottobre 2005 n. 39995, Gissi, rv.

 

232380; sez. 2^, 12 gennaio 2005 n. 2353, Are, rv. 230618; sez. 3^, 27 maggio 2004 n. 28930, Troncone, rv. 229494; mentre per l’orientamento opposto si sono espresse, tra le altre, Cass., sez. 6^, 8 giugno 2004 n. 39230, Aiuto, rv. 230375; sez. 1^, 23 ottobre 2002 n. 37286, Marucci, rv. 222537; sez. 1^, 13 giugno 2003 n. 30122, Ventaloro, rv, 225493.

 

A differenza del tema che verrà successivamente affrontato quello relativo all’individuazione dei criteri da seguire per affermare la natura non ripetibile di un atto della polizia giudiziaria riguarda direttamente il “giusto processo” nell’assetto derivante dall’innovato art. 111 Cost. Dopo la riforma introdotta dalla Legge Costituzionale 23 dicembre 1999, n. 2 e dopo l’entrata in vigore della Legge Attuazione 1 marzo 2001, n. 63.

 

L’inserimento del verbale di un atto della polizia giudiziaria nel fascicolo per il dibattimento, al di fuori dei casi previsti, costituisce infatti una deroga non solo al principio di oralità (che, pur caratterizzando il sistema accusatorio, non ha peraltro copertura costituzionale) ma in particolare al principio del contraddittorio nella formazione della prova perché consente che l’atto, formato nella fase procedimentale, venga utilizzato, previa lettura, per la decisione.

 

E’ vero che la legge di attuazione indicata non ha modificato l’art. 431 c.p.p. Ma questa norma va oggi interpretata alla luce della previsione contenuta nell’art. 111 Cost., comma 4 che impone il contraddittorio come regola per la formazione della prova mentre il comma successivo consente la deroga a questo principio solo nel caso di consenso dell’imputato, di provata condotta illecita e “per accertata impossibilità di natura oggettiva”.

 

Dal nuovo assetto della disciplina costituzionale sulla formazione della prova derivano quindi due conseguenze: 1) al di fuori degli altri casi indicati (consenso e provata condotta illecita) l’atto di cui si discute, per poter essere ritenuto non ripetibile, non deve essere rinnovabile in dibattimento per “accertata impossibilità di natura oggettiva”; 2) in caso di dubbio un’interpretazione costituzionalmente orientata non può che imporre una delimitazione degli atti acquisibili al fascicolo dibattimentale alle sole ipotesi nelle quali la rinnovazione sia effettivamente ed oggettivamente impossibile.

 

Va ancora precisato che la non ripetibilità degli atti della polizia giudiziaria riguarda l’irripetibilità originaria mentre l’ipotesi prevista dall’art. 512 c.p.p. Riguarda i casi di impossibilità sopravvenuta di ripetizione dell’atto e che la disciplina degli atti non ripetibili riguarda, oltre che gli atti della polizia giudiziaria e del Pubblico Ministero, anche quelli compiuti dal difensore come prevede la lett. E dell’art. 431 a seguito della modifica introdotta dalla L. 7 dicembre 2000, n. 397, art. 15.

 

4) Criteri per stabilire la natura non ripetibile dell’atto. Ciò premesso, non avendo il legislatore provveduto a individuare gli atti non ripetibili né ad indicare i criteri necessari per qualificare tale un atto del procedimento, sta all’interprete individuare questi criteri avendo presente la necessità di non incorrere in un duplice contrapposto errore: il primo errore è quello di fare riferimento al contesto in cui l’atto è stato compiuto perché in questo caso non esisterebbe atto ripetibile in dibattimento non essendo mai riproducibile il contesto in cui l’atto è stato formato (anche le dichiarazioni rese dalla persona informata sui fatti non sono ripetibili nel medesimo contesto).

 

Il secondo errore in cui potrebbe incorrere l’interprete è quello di fare esclusivamente riferimento alla possibilità di descrizione delle attività compiute perché, in questo caso, sarebbe ben difficile ritenere non ripetibili quegli atti che, fino ad oggi, dottrina e giurisprudenza hanno concordemente ritenuto tali (perquisizioni, sequestri, arresto, fermo ecc.). L’agente o l’ufficiale di polizia giudiziaria infatti ben potrebbe essere chiamato a descrivere nel dibattimento le attività svolte in queste occasioni.

 

Va ancora ricordato che possono ritenersi superate le teorie che facevano riferimento, per individuare gli atti in questione, alla natura di “atto a sorpresa” o di “atto indifferibile” (gli atti che hanno queste caratteristiche possono talvolta essere ripetibili mentre atti a sorpresa o indifferibili non necessariamente hanno caratteristiche di irripetibilità).

 

Per verificare a quale nozione di ripetibilità abbia fatto riferimento l’art. 431 c.p.p. Occorre intanto procedere con un criterio di esclusione considerando che mai potranno essere considerate originariamente irripetibili le dichiarazioni che, nell’impianto accusatorio del nostro codice, costituiscono il tipico esempio di atto ripetibile con modalità narrative. Non è un caso che, ben prima della modifica dell’art. 111 Cost., sia stata abrogata l’originaria previsione del codice (art. 500 c.p.p., comma 4) che consentiva l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni assunte dal p.m. O dalla p.g. Nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto, utilizzate per le contestazioni. Nel bilanciamento tra i principi che si riferiscono alla genuinità dell’atto e al rispetto del contraddittorio nella formazione della prova in tema di dichiarazioni la prevalenza non poteva che essere attribuita al secondo principio (unica eccezione potrebbe essere oggi ritenuta quella delle dichiarazioni rese da persona in punto di morte).

 

La ripetibilità non può peraltro consistere nella mera possibilità di descrivere le attività compiute dagli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria. L’esame delle fattispecie concordemente ritenute appartenere alla categoria degli atti non ripetibili consente invece di affermare che questi atti sono caratterizzati dall’esistenza di un risultato ulteriore rispetto alla mera attività investigativa della polizia giudiziaria e dall’acquisizione di informazioni ulteriori derivate da questa attività; ma deve trattarsi di casi in cui questo risultato ulteriore non sia più riproducibile in dibattimento se non con la perdita dell’informazione probatoria o della sua genuinità.

 

Insomma si deve trattare di un risultato estrinseco rispetto alla mera attività d’indagine che, di per sé, può sempre essere ridescritta in dibattimento senza che alcuna informazione vada perduta.

 

Ciò appare evidente nel caso delle intercettazioni telefoniche (le cui trascrizioni sono peraltro inserite nel fascicolo per il dibattimento per espressa previsione normativa: art. 268 c.p.p., comma 7). Chi le ha materialmente eseguite potrebbe, in astratto, descrivere in dibattimento le attività svolte ed anche riferire il contenuto delle conversazioni intercettate, ma non potrebbe certo riprodurre le conversazioni captate: quello che in ipotesi potrebbe riferire sarebbe comunque diverso da quanto è stato captato e andrebbe dunque perduta un’informazione probatoria potenzialmente rilevante nel processo.

 

Per quanto riguarda altri casi di atti tipici comunemente ritenuti irripetibili (perquisizioni, sequestri, arresti ecc.) la costruzione è di meno immediata evidenza ma il concetto è analogo. Qualunque attività svolta dagli appartenenti alla polizia giudiziaria può essere ridescritta in forma narrativa nel contraddittorio delle parti ma se questa attività si è cristallizzata in un atto o in un fatto estrinseci alla mera attività investigativa il risultato dell’attività può essere descritto ma non riprodotto.

 

Così l’apprensione materiale in cui si concretizza il sequestro, la ricerca materiale del corpo di reato che si svolge nel corso della perquisizione, la concreta privazione della libertà personale nei casi di arresto o fermo: tutte attività ulteriori, diverse ed estrinseche rispetto a quelle investigative, che vengono cristallizzate in un verbale il cui contenuto informativo non sarebbe riproducibile in dibattimento o lo sarebbe ma con il risultato della perdita della genuinità e immediatezza che caratterizza la redazione del verbale che riproduce queste attività diverse ed ulteriori.

 

In parte diversa è la nozione di non ripetibilità riguardante la descrizione di luoghi, cose o persone di interesse per lo sviluppo delle indagini, o per la celebrazione del processo, che assume carattere di irripetibilità quando si tratti di situazioni modificabili per il decorso del tempo (carattere peraltro presente anche negli atti tipici non ripetibili) . In questi casi la non ripetibilità deriva non da un’assoluta impossibilità di descrizione delle situazioni modificabili ma dalla perdita di informazioni che deriva dalla possibilità di mutamento dello stato di luoghi, cose o persone che non renderebbe possibile, in caso di necessità, la ripetizione dell’atto.

 

In questi casi la non ripetibilità trova un’indiretta conferma normativa nelle disposizioni dell’art. 354 c.p.p., commi 2 e 3 (che abilita la polizia giudiziaria a compiere rilievi sullo stato delle cose, dei luoghi e delle persone nel caso di pericolo di alterazione, dispersione o modificazione), art. 360 c.p.p. (che abilita il Pubblico Ministero, in situazioni analoghe, a disporre accertamenti tecnici non ripetibili utilizzabili nel dibattimento) e art. 391 decies c.p.p., commi 2 e 3 (ove si fa espresso riferimento alla documentazione di atti non ripetibili compiuti dal difensore in occasione dell’”accesso ai luoghi” e agli accertamenti tecnici non ripetibili). Queste norme consentono infatti, in deroga alla disciplina ordinaria, di svolgere attività investigativa – la cui documentazione è utilizzabile in dibattimento – a soggetti che di regola non dispongono dei relativi poteri proprio perché in dibattimento non sarebbe più possibile dare luogo al corrispondente mezzo di prova se non con la perdita della genuinità e quindi dell’affidabilità dell’atto.

 

E la conferma che il concetto di non ripetibilità è strettamente ricollegato (anche) alla modificazione di cose, luoghi e persone si rinviene nel disposto dell’art. 117 delle disp. Att. c.p.p., che estende la disciplina dell’art. 360 c.p.p. Agli accertamenti che modifichino le situazioni indicate, e dell’art. 223 disp. Att. c.p.p. Che prevede una particolare disciplina per le analisi di campioni con l’espressa previsione di acquisizione al fascicolo per il dibattimento dei verbali di analisi non ripetibili e dei verbali di revisione di analisi.

 

In conclusione ciò che giustifica l’attribuzione della qualità di non ripetibilità ad un atto della polizia giudiziaria, del Pubblico Ministero o del difensore è la caratteristica di non essere riproducibile in dibattimento. Ma ciò non è sufficiente: nel bilanciamento di interessi tra la ricerca della verità nel processo e sacrificio del principio costituzionale relativo alla formazione della prova è necessario che l’atto abbia quelle caratteristiche di genuinità e affidabilità che possono derivare soltanto da quell’attività di immediata percezione cristallizzata in un verbale che inevitabilmente andrebbe dispersa ove si attendesse il dibattimento.

 

5) Le relazioni di servizio in particolare. Passando più specificamente al tema che forma oggetto del motivo di ricorso in esame va rilevato che il problema viene spesso impropriamente proposto come relativo alla verifica se le relazioni di servizio possano, o meno, essere considerate atti non ripetibili della polizia giudiziaria ai fini della possibilità del loro inserimento nel fascicolo per il dibattimento.

 

La questione è però impropriamente proposta perché il problema non è quello della denominazione dell’atto ma del suo contenuto. La nozione di atto non ripetibile non ha natura ontologica ma va ricavata dalla disciplina processuale. Ciò che rileva è il tipo di informazione contenuto nell’atto redatto dalla polizia giudiziaria:

 

se contiene un tipo di accertamento che non sarà possibile compiere nuovamente nel dibattimento, secondo i criteri indicati, l’atto dovrà essere considerato non ripetibile – e quindi inseribile nel fascicolo per il dibattimento indipendentemente dalla sua denominazione (la necessità di fare riferimento al contenuto dell’atto per verificare se la relazione si riferisca effettivamente ad attività non ripetibili è stata di recente ribadita da Cass., sez. 1^, 12 aprile 2005 n. 14664, Palermo, rv. 231328).

 

Quindi, anche per le relazioni di servizio, perché possano essere ritenute non ripetibili non sarà sufficiente che contengano informazioni su attività d’indagine che, per loro natura, possono essere descritte in dibattimento ma è necessario che contengano la descrizione di un’attività materiale svolta, ulteriore rispetto a quella investigativa e non riproducibile, ovvero la descrizione di luoghi, cose o persone che, parimenti, possono essere ritenute non ripetibili perché soggetti a modificazioni secondo i criteri in precedenza indicati.

 

Anche nel caso delle relazioni di servizio si potrebbe affermare che queste attività materiali e questi rilievi potrebbero essere ripetuti in dibattimento con la descrizione narrativa delle attività svolte da parte di chi le ha compiute e con la ricostruzione verbale della situazione di luoghi, persone e cose da parte di chi ha compiuto i rilievi. Ma non è così: il narrante può descrivere ciò che ha compiuto o ciò che ha visto ma non compiere nuovamente un’attività che si è concretizzata in un risultato oggettivo estrinseco che non può essere nuovamente compiuto (non solo il sequestro, la perquisizione, l’arresto ecc. ma altresì il rilievo dei luoghi, la descrizione della cosa soggetta a modificazioni ecc.);

 

può ridescrivere una situazione ma non riprodurla come è stata “fotografata” nell’immediatezza. In questi casi la mancata acquisizione dell’atto condurrebbe alla perdita di un’informazione certamente più genuina della descrizione che potrebbe farsene in dibattimento e che si può rivelare essenziale per l’esito del processo.

 

Ma questa perdita dell’informazione probatoria non si verifica nei casi in cui la relazione di servizio (o altro atto della polizia giudiziaria) si limiti a descrivere attività investigative consistenti in osservazione, constatazione, pedinamenti, accertamento della presenza di persone e di loro attività come contatti, spostamenti ecc. ovvero si limitino a descrivere le circostanze di tempo e di luogo in cui è stata acquisita la notizia di reato. In questi casi non v’è alcuna “impossibilità di natura oggettiva” alla riproduzione narrativa in dibattimento delle attività svolte; non v’è alcun risultato estrinseco in cui si sia concretizzata l’attività d’indagine che non possa essere riprodotto in dibattimento; non esiste alcuna perdita di informazioni probatorie genuine.

 

Per esemplificare: il pedinamento può essere descritto in dibattimento da chi l’ha compiuto che potrà riferire, per esempio, delle attività svolte e delle persone con cui il pedinato ha avuto contatti. Se il pedinato verrà osservato mentre consegna sostanza stupefacente ad un terzo saranno l’arresto e il sequestro della sostanza che non potranno essere riprodotti in dibattimento non la descrizione dell’attività investigativa precedentemente svolta e delle modalità di acquisizione della notizia di reato.

 

Del resto in che cosa si differenziano queste “relazioni di servizio” dall’informativa di reato prevista dall’art. 347 c.p.p. E della cui natura di atto ripetibile (salvo per quelle parti che possano farsi rientrare nella nozione in precedenza indicata) nessuno ha mai dubitato? Anzi nella redazione del nuovo codice il legislatore ha avuto presente proprio il vecchio “rapporto” quale elemento discriminante atto a sottolineare l’affermazione del sistema accusatorio nella formazione della prova pervenendo a mutarne la denominazione e ritenendo conclamata la non acquisibilità al fascicolo per il dibattimento.

 

Sarebbe poi singolare consentire che la polizia giudiziaria, con una mera scelta terminologica (qualificando come “relazione di servizio” un’informativa di reato) divenisse arbitra della possibilità di derogare al principio della formazione della prova nel contraddittorio delle parti.

 

I casi in cui le relazioni di servizio si limitino a descrivere le attività di indagine rientrano dunque tra le attività ripetibili proprio perché la ripetizione si esaurisce con la descrizione narrativa di questa attività; tra l’altro, proprio per contrastare il pericolo di perdita dell’informazione probatoria derivante dal decorso del tempo e dall’attenuarsi dei ricordi, è previsto che il testimone possa essere autorizzato a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti (art. 499 c.p.p., comma 5).

 

Se però, nel corso di queste attività, sorge la necessità di documentare una situazione modificabile dei luoghi, delle persone o delle cose i relativi rilievi possono assumere natura di atti non ripetibili e (per questa sola parte) divenire inseribili nel fascicolo per il dibattimento. Parimenti se l’attività d’indagine è accompagnata da rilievi fotografici, fonografici o cinematografici (alla cui collocazione tra i documenti potrebbe essere di ostacolo la circostanza che non preesistono al procedimento; ma la soluzione è controversa: v. da ultimo Cass., sez. 5^, 20 ottobre 2004 n. 46307, Held, rv. 230394, che ha ritenuto che queste rappresentazioni siano acquisibili come documenti) anche queste attività di documentazione devono essere ritenute non ripetibili proprio perché non possono essere riprodotte in dibattimento se non con una descrizione narrativa che non riproduce quanto descritto nel rilievo fotografico, fonografico o cinematografico con conseguente perdita dell’informazione probatoria (oltre che della sua genuinità).

 

6) La redazione dei verbali degli atti non ripetibili. Va a questo punto affrontato un problema ulteriore: l’art. 431 c.p.p., comma 1, lett. B parla di “verbali” di atti non ripetibili (e allo stesso modo si esprime la lett. C per gli analoghi atti del Pubblico Ministero e del difensore). Le relazioni di servizio non sempre vengono redatte con la forma del verbale anche per la (prevalente) funzione di atto interno all’amministrazione che le medesime svolgono.

 

Ma è chiaro che i casi che interessano sono quelli nei quali la relazione di servizio, per il suo contenuto, assume anche un’efficacia esterna. E dunque occorre fare riferimento alla norma che disciplina la documentazione dell’attività di polizia giudiziaria: l’art. 357 c.p.p.. E da questa norma è possibile ricavare un’ulteriore conferma di quanto si è fin qui detto: la relazione di servizio che descrive le attività di indagine in nulla differisce dall’annotazione prevista dal primo comma e come tale mai potrà essere acquisita al fascicolo per il dibattimento. La documentazione delle altre attività per le quali è richiesta la redazione del verbale potrà essere acquisita in presenza delle caratteristiche ricordate (quindi sempre per quelle previste dalla lett. D – perquisizioni e sequestri – e solo in presenza di caratteristiche di modificabilità nell’ipotesi della lett. f).

 

In questi casi se la relazione riguarda atti non ripetibili nel senso indicato e contiene tutti gli elementi previsti per la redazione del verbale indicati nell’art. 136 c.p.p. Non possono esservi dubbi sulla possibilità di utilizzazione dell’atto risolvendosi, il problema accennato, in una questione nominalistica.

 

Se invece l’atto non contiene questi elementi è la stessa disciplina codicistica che ci fornisce la soluzione: l’art. 142 c.p.p. Precisa infatti in quali casi il verbale deve essere ritenuto nullo (se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto). Con la conseguenza che, in questi casi, l’atto non potrà essere acquisito al fascicolo per il dibattimento anche se contiene la documentazione di atti non ripetibili.

 

7) Conclusioni sul secondo motivo di ricorso. In base ai principi enunciati possono in parte ricomporsi anche le divergenze che si sono riscontrate sulla natura non ripetibile di atti di vario genere compiuti dalla polizia giudiziaria (se si tratta di atti di privati – per es. querele e denunce – il problema della irripetibilità originaria neppure si pone trattandosi di atti ripetibili in forma narrativa) dovendosi escludere che la categoria degli atti non ripetibili costituisca un numerus clausus.

 

Si pensi al verbale di constatazione della polizia tributaria che non potrà essere considerato atto irripetibile salvo che per quelle parti che documentino situazioni modificabili (per es. la consistenza del magazzino, le risultanze di documentazione contabile che non viene sequestrata o altre situazioni soggette a variazioni per opera del tempo o delle persone) e analogamente per quanto riguarda i verbali relativi alle infrazioni in materia di lavoro e quelle in materia di circolazione stradale.

 

La natura di atti non ripetibili dovrà invece essere riconosciuta agli accertamenti e rilievi planimetrici o volumetrici (per es. a seguito di un incidente stradale o nel caso di rilevazione di violazioni urbanistiche), alle rilevazioni tecniche su luoghi, cose e persone (per es. per accertare la presenza di tracce di sparo o di sostanze stupefacenti) in tutti i casi in cui vi sia possibilità di mutamento delle situazioni rilevate.

 

In conclusione deve ritenersi corretta la soluzione adottata dal giudice e ribadita nella sentenza impugnata: la relazione di servizio della quale era stato chiesto l’inserimento nel fascicolo per il dibattimento descriveva una mera attività di indagine esauritasi con la sua esecuzione che poteva agevolmente (e senza perdita di alcuna informazione probatoria) essere descritta in dibattimento; né esisteva alcun situazione di luoghi, cose o persone modificabile per il decorso del tempo. Non poteva quindi essere acquisita e utilizzata senza il consenso delle parti.

 

8) I poteri di iniziativa probatoria del giudice. Accertato che il giudice ha correttamente escluso che l’atto in questione potesse entrare a far parte del fascicolo per il dibattimento occorre ora affrontare la questione – che forma oggetto del primo motivo di ricorso – relativa all’ambito dei poteri di iniziativa probatoria del giudice nel processo penale.

 

La sesta sezione di questa Corte ha rilevato come, dopo la più volte ricordata sentenza Martin di queste sezioni unite (le cui conclusioni sono state condivise dalla Corte costituzionale), sia periodicamente riemerso, nella giurisprudenza di legittimità, un orientamento di segno opposto che restringe i poteri officiosi del giudice escludendo in particolare che questi poteri possano esercitarsi nei casi di inerzia delle parti.

 

L’analisi della giurisprudenza di legittimità dimostra peraltro come gli orientamenti effettivamente dissenzienti rispetto a quello delle ss.uu. Siano assolutamente episodici: per quanto consta in realtà questi precedenti sono costituiti dalla sentenza sez. 5^, 1 dicembre 2004 n. 15631, Canzi, rv. 232156 e dalla più risalente sez. 1^, 30 gennaio 1995, Rizzo, rv. 201939. Altre decisioni (sez. 1^, 28 settembre 1995, Di Lena, rv. 202864; sez. 1^, 8 giugno 2000, Fiderno, rv. 216595 e sez. 3^, 10 dicembre 1996, Adragna, rv. 207461), pur talvolta accreditate (anche nell’ordinanza di rimessione a queste sezioni unite) come espressione del contrario orientamento, sono in realtà caratterizzate da peculiarità dei singoli casi (peculiarità che, nell’economia di questa decisione è irrilevante esaminare) che non consentono di ritenerle adesive dell’uno o dell’altro orientamento.

 

Ciò premesso occorre osservare, come prima riflessione sul tema, che è comunemente riconosciuto che il nuovo codice, pur richiamandosi ad un modello processuale che fa riferimento al cd. “processo di parti” non abbia peraltro inteso accogliere integralmente il principio dispositivo che pur caratterizza questo tipo di processo. Del resto questo principio neppure è integralmente accolto nel processo civile – tipico processo di parti nel quale il principio dispositivo trova la sua più ampia applicazione – nel quale il giudice è dotato (art. 115 c.p.c.) di ampi poteri officiosi nella disponibilità delle prove, sia pure nei soli casi previsti dalla legge, peraltro numerosi ed incisivi (interrogatorio non formale delle parti: art. 117;

 

ispezione di persone e di cose: art. 118 c.p.c.; nomina di consulente tecnico: art. 191 c.p.c.; richiesta d’informazioni alla p.a.: art. 213 c.p.c.; assunzione di testi de relato: art. 257 c.p.c., ecc.).

 

Coerentemente quindi l’art. 507 c.p.p. Conferma come questa opzione nel processo penale non sia stata piena e incondizionata. E può anche ricordarsi – a conferma della compatibilità del sistema accusatorio con le deroghe al principio dispositivo – che è relativamente recente un’innovazione legislativa che ha consentito, nel sistema nordamericano, la nomina d’ufficio dell’esperto indipendente (expert witness) da parte del giudice (ad opera della Rule 706 delle Federal Rules of Evidence del 1975 riguardante sia il processo civile che quello penale) confermando normativamente una deroga del principio dispositivo che peraltro la giurisprudenza civile aveva già affermato (nella giurisprudenza penale permane ancor oggi un certo rifiuto nell’applicazione della norma).

 

Il problema è dunque quello di individuare l’ambito di applicazione dei poteri officiosi di natura probatoria del giudice e, in questa ottica, deve anzitutto rilevarsi che sull’assetto codicistico non ha influito la recente riforma dell’art. 111 Cost. Che ha accentuato esclusivamente quello che costituisce il principio fondante del processo accusatorio – la formazione della prova nel contraddittorio delle parti – ma nulla ha innovato sul principio dispositivo che, pur essendo uno dei principi cui si ispirano i sistemi accusatori, non li caratterizza in modo così decisivo come i criteri che riguardano la formazione della prova.

 

Occorre anche precisare che nella cultura giuridica europea continentale il principio dispositivo è stato visto come un antidoto non tanto alla sopravvivenza di poteri officiosi del giudice che, in sede di decisione, si trovi nell’impossibilità di adottare un giudizio equo e consapevole quanto al classico esempio del giudice inquisitore rappresentato (ancor oggi nei paesi dove sopravvive) dall’istituto del giudice istruttore previsto anche dal nostro ordinamento previgente.

 

Il giudice istruttore, in realtà, costituiva un organo d’accusa mascherato da giudice terzo e le sue iniziative erano prevalentemente dirette ad acquisire gli elementi per fondare l’accusa nel giudizio;

 

aveva il potere di formulare egli stesso un’ipotesi ricostruttiva del fatto (nella prassi talvolta formulava anche i capi d’imputazione) e ricercava le fonti di prova necessarie a fondarla. Tutte attività che, nel codice vigente, sono state opportunamente trasferite al pubblico ministero (va anche ricordato che in alcuni paesi dove sopravvive – per es. in Francia – il giudice istruttore svolge altresì la funzione di garantire un esercizio indipendente dell’azione penale che il P.M., organo dell’esecutivo, non può svolgere).

 

Ma l’art. 507 ha un diverso ambito di applicazione e, soprattutto, un diverso scopo: quello di consentire al giudice – che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone – di ammettere le prove che gli consentono un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire. Senza neppure scomodare i grandi principi (in particolare quello secondo cui lo scopo del processo è l’accertamento della verità) può più ragionevolmente affermarsi che la norma mira esclusivamente a salvaguardare la completezza dell’accertamento probatorio sul presupposto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti.

 

Ciò consente di eliminare anche l’equivoco secondo cui l’acquisizione d’ufficio delle prove da parte del giudice fa venir meno la sua terzietà. Il giudice istruttore del precedente ordinamento poteva non apparire terzo (e in parte non lo era) perché formulava ipotesi ricostruttive e indagava per averne conferma non diversamente dall’organo dell’accusa; ma perché mai non dovrebbe essere considerato terzo un giudice scrupoloso che intende giudicare a ragion veduta e non con informazioni conoscitive insufficienti ben sapendo che è possibile colmare almeno una parte delle lacune esistenti? E’ questo potere (da esercitare solo in caso di assoluta necessità) un residuo del principio inquisitorio oppure vale a fondare un processo veramente “giusto”? C’è un altro equivoco da superare: che questa limitazione del principio dispositivo nuoccia alla difesa dell’imputato o mini il principio della parità delle parti. Certo possono esservi pubblici ministeri che omettono di depositare la lista testi (per inerzia o per un erroneo convincimento di poter provare diversamente l’ipotesi di accusa: questo processo ne è un esempio) ma è forse statisticamente più significativa la percentuale di difensori negligenti che non utilizzano tutti gli strumenti a loro disposizione per un’efficace difesa dei loro assistiti. E l’art. 507 ha dunque anche la funzione di evitare che si pervenga a condanne ingiuste.

 

Dal punto di vista dell’adeguamento ai principi costituzionali (ricordiamo comunque che il sistema accusatorio non è costituzionalizzato; sono costituzionalizzati alcuni principi fondamentali del sistema accusatorio) e dello scopo della norma è quindi evidente che all’art. 507 può essere dato il significato più ampio conforme alla formulazione letterale della norma. Senza dimenticare che questo assetto si inserisce in un sistema caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale che impone una costante verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero, e quindi anche delle sue carenze od omissioni.

 

Una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a vanificare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero. E ciò spiega anche la differenza con quanto avviene nei sistemi accusatori di coimon law – nei quali le deroghe al principio dispositivo sono inesistenti (o assolutamente eccezionali) – essendo, questa disciplina processuale, ricollegata alla disponibilità dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero che può rinunziare ad essa, di fatto, anche con la mancata richiesta di ammissione delle prove.

 

Va ancora osservato che le limitazioni che il diverso orientamento vorrebbe introdurre (che vi sia stata assunzione delle prove e non vi sia stata inerzia delle parti) neppure vengono accennate nella Legge Delega, direttiva 73 che parla genericamente di “potere del giudice di disporre l’assunzione di mezzi di prova” mentre sia la relazione al progetto preliminare che quella al progetto definitivo confermano l’inesistenza di limitazioni (nel solo progetto definitivo è stato introdotto il limite temporale peraltro neppure connotato da caratteristiche di perentorietà).

 

Per quanto riguarda in particolare il limite temporale, è da rilevare che l’affermazione, contenuta in alcune isolate decisioni (e in alcuni commenti), che la formulazione della norma non consentirebbe di applicare il principio dell’ammissione d’ufficio delle prove perché la norma fa riferimento allo spazio temporale successivo alla “acquisizione delle prove” costituisce un’evidente forzatura apparendo ovvio che la norma si riferisce al caso normale in cui acquisizione di prove vi sia stata ma sarebbe privo di senso inserirvi un divieto quando acquisizione di prove non vi sia stata o quelle proposte non siano state ritenute ammissibili.

 

Più ragionevole, ma non condivisibile, è la tesi che configura il divieto come una sorta di sanzione per l’inerzia della parte ma anche questa opzione incontra le obiezioni di cui si è detto: la formulazione letterale della norma contrasta con questa interpretazione e i limiti in cui, nel nostro sistema processuale, sono stati accolti i principi del sistema accusatorio non consentono di escludere un’iniziativa di ufficio del giudice diretta ad acquisire le informazioni necessarie per la sua decisione.

 

Deve quindi essere confermato l’orientamento espresso da queste sezioni unite con la già citata sentenza Martin del 1992 (e condiviso anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 26 marzo 1993 n. 111) nella quale opportunamente si rilevava, a conferma della correttezza dell’orientamento di ritenere il potere del giudice esercitabile anche in caso di inerzia delle parti, che nel giudizio di appello al giudice è consentito (art. 603 c.p.p., comma 3) di disporre d’ufficio la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in tutti i casi previsti dai commi precedenti e quindi anche nel caso di prove che, benché conosciute, non erano state assunte.

 

V’è ancora, in questa sentenza, un’importante precisazione che consente di evitare che l’esercizio del potere in esame avvenga in modo troppo esteso o addirittura arbitrario: l’iniziativa deve essere “assolutamente necessaria” (sia l’art. 507 che il 603 usano questa espressione) e la prova deve avere carattere di decisività (altrimenti non sarebbe “assolutamente necessaria”) diversamente da quanto avviene nell’esercizio ordinario del potere dispositivo delle parti in cui si richiede soltanto che le prove siano ammissibili e rilevanti.

 

Può ancora aggiungersi che questo potere andrà esercitato nell’ambito delle prospettazioni delle parti e non per supportare probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice possa ipotizzare. La formulazione di un’ipotesi autonoma e alternativa da parte del giudice costituisce infatti (v. Cass., sez. un., 30 ottobre 2003 n. 20, Andreotti) “violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione”.

 

E’ infine superfluo sottolineare che, a seguito dell’iniziativa officiosa, resta integro il potere delle parti di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova – secondo la regola indicata nell’art. 495 c.p.p., comma 2 (prova contraria) – la cui assunzione si sia resa necessaria a seguito dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio e, da diverso punto di vista, che l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir meno l’onere del Pubblico Ministero di provare il fondamento dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti.

 

9) Conclusioni, Consegue alle considerazioni svolte l’accoglimento del ricorso limitatamente al primo motivo con il conseguente annullamento della sentenza impugnata e rinvio al giudice che l’ha pronunziata che dovrà quindi provvedere sulla richiesta di esercitare i poteri d’ufficio previsti dall’art. 507 c.p.p. Senza che vengano in considerazione decadenze o inerzie in cui le parti siano incorse.

 

P.Q.M.

 

La Corte Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, annulla l’impugnata sentenza e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Biella.

 

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2006.

 

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2006

 

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