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Non basta raggiungere l’accordo per estinguere il processo tributario, occorre pagare per chiudere i conti

Il giudice di appello tributario deve, nei casi di impugnazione di una sentenza dichiarativa di cessata materia del contendere, conseguente alla sottoscrizione di una conciliazione giudiziale, vagliare se si è verificato o meno il perfezionamento della fattispecie estintiva del giudizio e, in caso di riscontro negativo, valutare il merito del rapporto tributario dando atto della mancata estinzione del processo.

Questa è la conclusione contenuta nella recente pronuncia della Corte di cassazione, sentenza 11722 del 27 maggio.

 

Il responso fa chiarezza intorno all’annosa questione dei rimedi processuali relativi al difetto di pagamento delle somme derivanti dalla conciliazione convenuta tra contribuente e ufficio impositore. Precedentemente, si erano manifestati vari verdetti giudiziali a sfavore della parte pubblica.

 

Le “superate” conclusioni della giurisprudenza di merito

La Commissione tributaria Lombardia (sentenza 158/2002) aveva statuito che nel caso di conclusione del giudizio di primo grado con la declaratoria di estinzione del giudizio – per cessazione della materia del contendere – restava inibita la riforma della sentenza in quanto susseguente alla richiesta di entrambe le parti e indipendentemente dal mancato pagamento nel termine stabilito delle somme oggetto di conciliazione.

 

La pronuncia sottolineava come il processo verbale di conciliazione costituisse titolo per la riscossione delle somme dovute, in pratica rimarcando come l’Erario avesse il mezzo per ottenere quanto stabilito in via transattiva.

Il giudice di primo grado (sentenza 123/2004) riteneva altresì inammissibile il mezzo della revocazione a motivo del medesimo mancato pagamento, presentato avverso la sentenza con la quale la Ctp dava atto dell’accordo tra le parti (articolo 48, Dlgs 546/1992). Quindi, la natura formale di “sentenza” di estinzione del giudizio quale impedimento alla applicazione dell’articolo 395, n. 4, cpc, richiamato dall’articolo 64 del Dlgs 546/1992, costituiva ostacolo normativo, posto che il mancato versamento delle somme conciliate non è un errore di fatto e che le decisioni delle commissioni tributarie provinciali si fondano sull’avvenuta conciliazione e non sul successivo pagamento.

 

La sentenza 11722/2011 della Corte di cassazione

La lite sottoposta al vaglio della Suprema corte era relativa a un ricorso di ultima istanza avverso una decisione della Ctr Campania, sezione staccata di Salerno, che dichiarava inammissibile l’appello dell’ufficio.

 

Il giudice tributario d’appello campano era giunto a questa conclusione argomentando che, pur a fronte di una conciliazione non onorata, non fosse possibile esaminare il merito del rapporto tributario in appello in difetto di un vaglio similare in primo grado.

 

In pratica, secondo questa conclusione, mai il processo tributario poteva perdere un grado di giudizio e da qui l’inammissibilità dell’appello.

 

I giudici di piazza Cavour prima sottolineavano che questa deduzione doveva semmai condurre – nei limiti del disposto di cui agli articoli 353, 354 e 308 cpc – alla rimessione della causa in primo grado e non a una pronuncia di inammissibilità dell’appello, e poi che la motivazione della decisione de qua approfondiva l’obbligo di verificare il merito del rapporto tributario una volta constato l’effettivo mancato perfezionamento della conciliazione.

 

Questa conclusione veniva supportata mediante il richiamo alla pronuncia 3560/2009 della Suprema corte, laddove era stato rimarcato l’obbligo del giudice di primo grado di fissare una ulteriore udienza finalizzata al riscontro del rispetto degli obblighi del contribuente in tema di versamento delle somme conciliate e di prestazione di garanzia.

Antonino Russo

 

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