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Apposizione illegittima del termine e dimissioni. Quale ordine nella cognizione del giudice del lavoro?   

 

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Se le dimissioni del lavoratore a tempo determinato escludano il diritto alla reintegrazione in servizio ed  al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 32 comma 5° L. 4 novembre 2010 n. 183 («collegato lavoro») una volta accertata o non controversa l’illegittima apposizione del termine 

di

Lorenzo Maratea

Avvocato del Foro di Napoli

 

La questione che si affronta è se le dimissioni del lavoratore, assunto con contratto a tempo determinato, rassegnate ante tempus rispetto alla data di estinzione del rapporto possano, in ogni caso, escludere l’applicazione delle tutele che l’ordinamento prevede in rapporto all’improprio ricorso alla manodopera a termine.  In specie, quello che ci si chiede è se il prestatore dimissionario, possa vedersi ugualmente riconosciuto il diritto ad essere riammesso in servizio ed a percepire il ristoro  previsto dalla legge citata in epigrafe, nell’ipotesi in cui il giudice del lavoro comunque accerti la natura illegittima del termine apposto al contratto[1]. Le considerazioni che seguono fondano in larga misura sull’applicazione della teoria della presupposizione che valorizza le situazioni di fatto o di diritto (dotate di carattere obiettivo) che possano essere considerate come presupposto comune alle parti, avente valore determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale[2]. Un simile approccio, come è ovvio, implica non tanto la tendenziale apertura verso un’indagine introspettiva circa il comune volere dei contraenti, quanto la ricostruzione di una volontà teorica del lavoratore, rapportata cioè all’ipotesi in cui, a parità di condizioni, le dimissioni, anziché collocarsi nel quadro di un rapporto a tempo determinato, si fossero situate nel contesto di uno a tempo indeterminato. Nella difficoltà di enucleare una convincente regola generale, non si può non riconoscere, in via preliminare, che l’intera problematica in esame sia strettamente legata ad un profilo di carattere processuale relativo all’ordine di trattazione delle questioni; è infatti evidente che l’attribuzione alle modalità estintive del rapporto di una (eventuale) valenza condizionante rispetto al diverso e distinto thema della legittimità/illegittimità del termine abbia come principale ricaduta quella di rendere superfluo l’esame di tale secondo aspetto una volta che il giudice accerti il consenso del lavoratore alla cessazione del rapporto (in qualunque modo sia esso espresso)[3]. Ciò a parere di chi scrive non può ritenersi giuridicamente fondato in ragione di una considerazione di fatto prima ancora che di diritto. Il lavoratore che rassegni “prematuramente” le proprie dimissioni dal contratto a termine manifesta il proprio sopravvenuto disinteresse verso un rapporto destinato comunque ad esaurirsi entro un prefissato lasso di tempo. Pare scarsamente persuasivo, già  in punto di logica, pretendere di dimostrare a partire da tale atto, un disinteresse verso il protrarsi di accordo (in fatto inesistente al momento tanto della stipula, quanto della conclusione del contratto) diverso sotto il profilo temporale, avente cioè la caratteristica saliente del non essere limitato temporalmente. L’opportunità di un riferimento alla presupposizione è di tutta evidenza: il lavoratore assunto a termine non può non considerare come “un dato”, ossia come un evento futuro e certo, il verificarsi dell’estinzione del rapporto alla data fissata in contratto, e ciò qualunque intimo convincimento egli nutra circa la legittimità del termine. In questo senso è allora più che convincente la metafora (utilizzata in dottrina) dell’“effetto moviola”, immagine nella quale si riflette la necessità per il giudice di ricostruire la vicenda delle dimissioni sottraendo mentalmente il dato della illegittimità del termine ed ipotizzando come il lavoratore si sarebbe comportato in assenza della violazione commessa dal datore con la previsione del termine nullo[4]. L’impossibilità di escludere categoricamente un comportamento di segno opposto da parte del lavoratore nel caso di ipotetica costituzione ab initio del rapporto come a tempo indeterminato fonda e giustifica la conclusione che l’ordine di trattazione delle questioni (stabilito nel rito civile dall’art. 276 c.p.c.) non possa che essere fissato in maniera tale da escludere valenza dirimente al profilo delle modalità estintive del rapporto.  In particolare, deve essere escluso  che fra l’apprezzamento della volontà del lavoratore di concludere l’esperienza di lavoro a tempo determinato, da un lato, e accertamento circa la validità del termine dall’altro,  il primo profilo rappresenti un prius. Preliminarmente il giudice non potrà che porsi il problema della validità del termine apposto al contratto. In questa direzione si muove anche parte della giurisprudenza di merito[5]. Prova principale a sostegno di quanto si va qui sostenendo emerge dall’assetto stabilito dal codice civile per la declaratoria di nullità del contratto. Come, ancora, un giudice di merito ha avuto modo di stabilire[6] in rapporto ad un caso di scioglimento per mutuo dissenso (dunque sorretto dalla volontà convergente del lavoratore), il Giudice non ha potuto non valorizzare l’irrilevanza del “mero trascorrere del tempo” come “elemento sintomatico della volontà del lavoratore di rinunciare all'azione di nullità del termine ed al conseguente ripristino del rapporto di lavoro”[7]. La sentenza, lungi dall’elidere ambiti materiali di operatività della risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro ex art. 1372 c.c., ne subordina la stabilità dell’effetto  invece alla presenza di comportamenti significativi delle parti, che denotino la volontà concorde di entrambe di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro fra loro (così Cass. 2.12.2002 n. 17070). In assenza di tale prova che (tanto nel caso della risoluzione del rapporto per mutuo consenso, quanto nel caso delle dimissioni) potrebbe, per esempio, ritenersi implicita nella conclusione del rapporto seguita dalla successiva acquisizione da parte del prestatore di posizioni lavorative stabili ed ugualmente o meglio retribuite, non vi è ragione di negare spazio alla applicazione della teoria della presupposizione[8]. Competerà al giudice di merito, valutate le circostanze del caso e ricostruita la volontà teorica del lavoratore sulla base delle risultanze di fatto, decidere la questione della conversione del rapporto di lavoro e quella, correlata, della titolarità degli emolumenti a titolo risarcitorio indicati dalla legge, fermo il potere di modulare il quantum da riconoscere in funzione delle caratteristiche peculiari del caso.  Con riferimento a tale ultimo profilo, quello cioè che emerge dal già citato art. 32, l’impiego del termine “risarcimento” operato dal legislatore rende ancora più certe le conclusioni qui raggiunte. La natura illecita della condotta datoriale (tale qualificazione pare appunto implicita, a tacer d’altro, nella scelta del legislatore di fare uso del termine “risarcimento”) fa sì che le dimissioni del lavoratore potrebbero essere considerate come fattore suscettibile di elidere il diritto al ristoro solo a condizione che si riconoscessero nell’atto abdicativo del lavoratore i tratti propri del consenso dell’avente diritto; una simile soluzione non convince atteso che per acconsentire validamente all’atto illecito è necessario che l’avente diritto oltre ad avere piena titolarità della posizione giuridica in questione, abbia altresì piena consapevolezza e possibilità di dominio materiale degli accadimenti indotti dall’altrui condotta antigiuridica. Le dimissioni rassegnate ante tempus rispetto alla cessazione naturale di un rapporto di lavoro illegittimamente a termine non segnalano alcuna acquiescenza giuridicamente rilevante rispetto al contegno datoriale, dato che non esprimono alcuna signoria del lavoratore rispetto al corso del rapporto. Il consenso atto a raggiungere l’effetto ora descritto non può che essere solo quello proprio di un soggetto in grado, realmente, con la propria volontà di determinare l’agente cui la condotta sia materialmente ascrivibile, a porre, come a non porre, in essere l’atto illecito. La volontà del lavoratore, proprio perché debole sul fronte della durata del rapporto (materia tradizionalmente gestita in modo gelosamente unilaterale dal datore di lavoro) esula dallo schema secondo cui volenti non fit iniuria il che conferma la bontà di quegli approcci che negano la concludenza  di talune modalità estintive del rapporto a termine (si allude a quelle presupponesti il consenso del prestatore) rispetto all’applicazione delle tutele contro illegittimo ricorso al “tempo determinato” nel rapporto di lavoro.         

 


 

 

 


 

[1] L’estraneità al thema decidendum dell’illegittimità del termine potrebbe anche situarsi a monte della causa stessa, derivando per esempio da una dichiarazione confessoria resa in via stragiudiziale  del datore.  

[2] V. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2001, p. 914. 

[3] Vale infatti notare che alcun tratto differenziale abbia realmente ragione di essere tracciato fra l’ipotesi di soluzione del vincolo per mutuo consenso e dimissioni.

[4] V. Corte Appello di Firenze 15/10/2007, in D&L, 2008, con nota di A. D. Conte, "Illegittimità del termine ed effetto "moviola": orientamenti della giurisprudenza verso una tutela "integrale", p. 547.  

[5] Ci si riferisce alla sentenza resa dalla Corte d’Appello di Firenze in data 15 ottobre 2007 in cui è stabilito che “l'istituto della presupposizione quale elemento determinante della volontà trova applicazione anche in materia di dimissioni da un rapporto di lavoro a tempo determinato successivamente dichiarato illegittimo; pertanto, l'atto di dimissioni, determinato dalla erronea rappresentazione della sussistenza di un valido rapporto a termine , non ha alcun effetto qualora venga dichiarata l'illegittimità del termine e quindi la sussistenza tra le parti di un assetto contrattuale del tutto diverso da quello rappresentato dal lavoratore al momento di presentazione delle dimissioni”.

[6] V. Tribunale di Bologna, 30 novembre 2010, n. 387, G.U. dott. Sorgi.

[7] Secondo la citata pronuncia, l’imprescrittibilità dell'azione di nullità del contratto impedisce dì attribuire all'inerzia dell'avente diritto un significato abdicativo dei propri diritti.

[8] Diverso il discorso per quelle ipotesi in cui il disinteresse verso il rapporto sia ascrivibile a condotte omissive o commissive del datore di lavoro corrispondenti alla nozione di “giusta causa” di dimissioni. In tale ipotesi, sarebbe addirittura paradossale conferire al datore un vantaggio derivante dalla commissione di condotte illecite.     

 

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