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LA CRESCITA DELLE REGIONI ITALIANE TRA MITI E REALTÀ

 

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di Bruno Soro

 

 

 

 

In un articolo apparso su La Stampa del 13 aprile 2011 (“Il vero sforzo che serve all’Italia”) il sociologo Luca Ricolfi ha scritto che “negli ultimi 10-15 anni, il Pil del Nord non è cresciuto più di quello del Sud, e anzi, in termini pro capite, il Mezzogiorno è cresciuto più del Nord”.


Il successivo e provocatorio intervento del 18 aprile, quello nel quale egli si è occupato del differenziale di crescita tra le regioni del Sud e quelle del Nord (“Nord e Sud il paradosso della crescita”), ha suscitato un acceso dibattito, al quale hanno partecipato, tra gli altri, il segretario nazionale della CISL Bonanni, gli economisti Bisin e Viesti, Fortis, e Mingardi ed i giornalisti Demarco e Giannino . Il dibattito si è concluso con una replica finale dello stesso Ricolfi, apparsa sempre su quello stesso quotidiano il 23 aprile (“Per lo sviluppo meno tasse alle imprese”).  

La tesi di Ricolfi che ha dato origine al dibattito ruota attorno all’idea di un’Italia divisa in due, con il Nord che crescerebbe più lentamente del Sud, in quanto gravato dal fardello della tassazione: un fardello che graverebbe più sulle imprese del Nord che su quelle del Sud. Essa si basa sull’osservazione che, con riguardo al decennio 1999-2009 il Pil pro capite del Sud sarebbe cresciuto “di quasi 0,7 punti in più di quello del Nord”. Tutta l’analisi di Ricolfi, e conseguentemente il dibattito che ne è seguito, ruota attorno a due ipotesi, delle quali, la prima, l’esistenza di una omogenea bipartizione Nord-Sud, è per molti aspetti fuorviante e la seconda, quella del confronto sui differenziali di crescita delle regioni italiane basato sui tassi di crescita del PIL pro capite, anziché (più correttamente), sui tassi di crescita del PIL, è del tutto ingannevole.

Anche senza scomodare la metafora delle “Tre Italie”, balzata all’onore delle cronache nella prima metà degli anni 80 grazie  ad una felice intuizione del sociologo Bagnasco, basta un semplice sguardo ai dati riportati sull’Annuario statistico regionale dell’Eurostat 2010 (che riporta i dati relativi al Pil pro capite del 2007 espressi in standard di potere d’acquisto), per constatare come la situazione regionale italiana non appaia poi così omogenea e si presenti suddivisa almeno in quattro diverse aree che non coincidono affatto con la classica bipartizione Nord-Sud. Alcune regioni del Nord, come la Valle D’Aosta, il Piemonte, la Liguria e il Trentino Alto Adige, unitamente alla Toscana e alle Marche sono accomunate nella stessa classe di reddito pro capite (quella tra i 25 e i 30 mila euro annui); il Lazio assieme alla Lombardia, al Veneto e all’Emilia Romagna figura nella classe di reddito più elevata (quella al di sopra dei 30 mila euro); l’Umbria e l’Abruzzo appartengono invece ad una classe di reddito inferiore rispetto alle precedenti (quella tra i 20 e i 25 mila euro), mentre tutte le regioni meridionali e le isole sono incluse nella classe di reddito compresa tra i 15 e i 20 mila euro.

Non occorre poi essere degli esperti economisti per sapere che mentre il PIL è un indicatore di dimensione (in quanto esprime la capacità di un’area di produrre beni e servizi finali), il PIL pro capite, è un indicatore di densità, che viene utilizzato per effettuare confronti omogenei tra aree di diversa dimensione. Inoltre, poiché le graduatorie costruite in base al PIL pro capite mutano nel tempo in seguito alle differenze esistenti tra i tassi di crescita di questo indicatore, vale la pena di sottolineare – anche in considerazione delle ripercussioni che ciò comporta al momento dell’analisi –, come il tasso di crescita del PIL pro capite sia (approssimativamente) uguale alla differenza tra il tasso di crescita del PIL e il tasso di crescita della popolazione. Ciò posto, non è affatto detto che in tutte le regioni la popolazione cresca, anzi, in alcune, come la Liguria, ma anche il Molise, la Basilicata e la Calabria, il tasso di crescita della popolazione è negativo. Ciò farà sì che il tasso di crescita del PIL pro capite appaia più elevato di quanto non sia giustificato dall’andamento dell’economia.

Un confronto omogeneo tra le regioni richiede pertanto che questi due tassi vengano analizzati separatamente. In questo caso, il quadro che emerge è sensibilmente diverso da quello ipotizzato da Ricolfi: tranne che per il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Lombardia e l’Abruzzo, regioni che presentano tassi di crescita del reddito inferiori alla media nazionale (ancorché in linea con quelli della maggior parte delle regioni meridionali), tutte le altre regioni dell’Italia Centro-Settentrionale hanno fatto registrare nel periodo 1998-20081 tassi di crescita del reddito più elevati sia rispetto alla media nazionale, e ciò che più conta, sia rispetto a tutte le regioni dell’Italia meridionale. Per contro, tutte le regioni meridionali (unitamente all’Abruzzo) hanno fatto registrare, sempre nello stesso periodo di tempo, tassi di crescita del reddito inferiori alla media nazionale. Ma ciò è esattamente l’opposto rispetto all’ipotesi su cui  è incentrata la sua analisi, condizionata dal fatto che egli non considera che nel calcolo dei tassi di crescita del PIL pro capite i tassi di crescita della popolazione,  se negativi,  si sommano ai tassi di crescita del reddito.
    
Un quadro analiticamente più efficace per formulare ipotesi circa l’evoluzione economica delle regioni italiane2 è forse quello che emerge dal grafico di dispersione sotto riportato. Esso consente infatti di distinguere quattro diversi gruppi di regioni: quelle virtuose, nelle quali sia il reddito che la popolazione crescono a tassi superiori alla media; quelle semi-virtuose, nelle quali il reddito è cresciuto ad un tasso superiore alla media mentre la popolazione è cresciuta ad un tasso inferiore; quelle semi-declinanti, nelle quali la crescita del reddito è risultata inferiore alla media, ma la popolazione è cresciuta ad un tasso superiore alla media, e infine, le regioni in declino, nelle quali sia il reddito che la popolazione sono cresciuti a tassi inferiori alla media. Sulla base di questa classificazione, e ad eccezione del Piemonte e della Liguria (due regioni che prima della crisi stavano iniziando ad uscire da una situazione trentennale di declino), tutte le regioni meridionali figurano nel quadrante in basso a sinistra, vale a dire tra le regioni «declinanti». La Valle d’Aosta, la Lombardia e l’Abruzzo, compaiono nel quadrante delle regioni «semi-declinanti», mentre tutte le altre, ad eccezione del Friuli Venezia Giulia (che ha fatto registrare un tasso di crescita della popolazione positivo, ma inferiore alla media nazionale per cui compare al margine del quadrante delle regioni «semi-virtuose»), figurano nel quadrante in alto a destra, quello delle regioni «virtuose».

Chiaramente, l’esercizio di scomposizione del PIL pro capite nelle sue due determinanti è lecito unicamente qualora si ipotizzi che i due fenomeni, la crescita economica e l’evoluzione demografica, siano tra di loro indipendenti: un’ipotesi, questa, che non regge ad un’indagine più approfondita sulla dinamica demografica. Nel caso di un sistema aperto, come è quello regionale, il tasso di crescita della popolazione andrebbe infatti scomposto nella somma di tre tassi: il tasso «naturale», che risente delle trasformazioni legate a fenomeni socio-economici di lungo periodo; il «tasso migratorio interno», che registra i flussi da e per le regioni italiane, il «tasso migratorio esterno», che registra i flussi migratori da e per l’estero. A differenza del primo, si ha ragione di credere che questi ultimi due tassi risentano dell’andamento ciclico dell’economia, per cui non si può escludere la loro endogeneità rispetto alla crescita economica. La questione rilevante diviene pertanto la seguente: quali sono i fattori che concorrono a determinare le differenze tra i tassi di crescita delle economie regionali?

La crescita delle regioni italiane (1998-2008)
graf1

Per rispondere a questa domanda, gli studiosi dell’Economia dello sviluppo hanno elaborato un ventaglio di teorie che spaziano da quelle più formali, che risentono dell’influenza degli studi del Premio Nobel Robert Solow, che a loro volta si suddividono in alcuni filoni di pensiero, tra cui le recenti teorie della crescita endogena, a quelle meno formali, che si rifanno ai lavori di grandi economisti del calibro di William Beckerman e Nicholas Kaldor, propugnatori della crescita trainata dalle esportazioni; di Edward F. Denison e Angus Maddison, fondatori del filone di pensiero che si ispira alla contabilità della crescita; di Moses Abramovitz, e la sua teoria del catching up; del Premio Nobel Douglass C. North e il filone che si ispira al ruolo che le istituzioni esercitano sulla crescita economica; a Richard R. Nelson e Sidney G. Winter, che hanno elaborato una teoria evoluzionistica, fino a Nicholas Georgescu-Roegen, fondatore della cosiddetta bioeconomia. Come si vede, quando ci si addentri nella fase delicata dell’analisi, quello che Elhanan Helpman, uno dei massimi studiosi della materia, definisce “Il mistero della crescita economica” (il Mulino, Bologna 2008), ricondurre la spiegazione delle differenze tra i tassi di crescita unicamente al “fardello della tassazione che graverebbe sulle imprese del Nord” ci sembra a dir poco riduttivo.

1. La situazione resta sostanzialmente identica se si considera il periodo 1999-2009, preso in esame da Ricolfi, che include il dato relativo all’annus horribilis della crisi economica, crisi che, come si evince dall’ultima colonna della tabella sopra riportata, ha colpito in maggior misura proprio le regioni maggiormente industrializzate.
2. Rinvio tutti coloro che fossero interessati ad approfondire gli aspetti teorici della questione al mio saggio apparso sulla rivista Economia Internazionale/International Economics, vol. LXI, n. 2-3 del 2008, pagine 539-68.

 

 

 

 

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