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I 150 DELL’UNITÀ D’ITALIA E LA DINAMICA ISTITUZIONALE ITALIANATRA SOCIETÀ CIVILE E CLASSE DIRIGENTEdi Fulco Lanchester

 

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(Professore Ordinario di Diritto Costituzionale italiano

e comparato – Sapienza Università di Roma)

Sommario: 1-Una celebrazione difficile 1.1- Le origini non controverse di una festa nazionale

1.2- Il “caso” di una ricorrenza divenuta problematica 1.3- Dal “Viva V.E.R.D.I.” ai

problemi di bilancio 2- La molteplicità di memorie e la carenza di condivisione delle stesse 3-

L’esperienza pre-unitaria 4- L’egemonia moderata e l’Unità nazionale 5- I primi cinquanta

anni di vicenda unitaria e l’indebolimento progressivo dello Stato liberale oligarchico 5.1- Il

periodo della Destra storica:1861-1876 5.2- La Sinistra ,il trasformismo e le opzioni

autoritarie:1876-1899 6- Il primo cinquantenario tra espansione interna ed esterna 7- Il

fascismo tra continuità e nuovi riti 8- La Costituzione repubblicana e la memoria divisa 9- Il

centenario 10- La transizione infinita tra crisi di regime e crisi di riallineamento 11-

Conclusioni.

1- Una celebrazione difficile

1.1- Le origini non controverse di una festa nazionale

Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II promulgò la legge 4671 del Regno di Sardegna con cui

assumeva per sé e per i successori il titolo di Re d'Italia1. Il successivo 21 aprile, con il primo

Testo della Conferenza tenuta il 21 febbraio 2011, Amphi Ettori, Campus Mariani, Université de Corse,

nell’ambito del ciclo di Seminari dedicati ai «150 ans de l’Italie ».

atto legislativo del nuovo Regno, si provvide, invece, a pubblicizzare la nuova formula di

intitolazione degli atti normativi "per grazia di Dio e volontà della nazione", che certificava la

natura del compromesso unitario fondato sullo Statuto Albertino, concesso dal Sovrano, ma

oramai aperto all'innovazione incrementale sulla base della rappresentanza parlamentare2. Il 5

maggio di quello stesso anno venne promulgata la legge istitutiva della Festa nazionale per

l’Unità d’Italia e lo Statuto del Regno 3, che si riallacciava alla precedente legge n.1187/1851

del Regno Sardo4.

1.2- Il “caso” di una ricorrenza divenuta problematica

La celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia ha confermato, proprio in questi giorni ed in

maniera palese, come il recupero di una simile ricorrenza sia altamente problematico.

Partiamo dalle origini recenti della questione, per poi risalire a quelle più risalenti, che

spiegano le ragioni delle tensioni e delle ambiguità. Nel 2007 il Governo di Romano Prodi, in

previsione dell’anniversario in questione, istituì il Comitato interministeriale per le

celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia5, presieduto dal Ministro dei Beni

culturali e vice-presidente del Consiglio dei Ministri Francesco Rutelli, nominando anche un

Comitato dei Garanti, presieduto prima dall’ex-Presidente della Repubblica Carlo Azeglio

Ciampi e poi - in seguito alle dimissioni dello stesso- dal Presidente dell’Istituto

dell’Enciclopedia italiana Giuliano Amato.6

L’esito delle elezioni del 2008 e la formazione del IV Governo Berlusconi aveva

obbiettivamente rallentato l’attività del Comitato e dell’Unità di missione, deputata alla

1 Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d'Italia. Ordiniamo

che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a

chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861 legge n.

4671 del Regno di Sardegna.

2 V. Legge 21 aprile 1861, n. 1 (Nuova formula per la intitolazione degli atti del Governo). Per la dinamica di

approvazione dello stesso tra le due Camere si v. G. Urtoller, Lo Statuto fondamentale del Regno d’Italia

annotato,Parte Prima:dello Stato e della Monarchia,Cesena,Gargano,1881, pp.184 ss.

3 V. legge 5 maggio 1861 n. 7 (Istituzione Festa nazionale per l'Unità d'Italia e lo Statuto del Regno); nel 1882

la celebrazione venne rinviata con legge al 18 giugno per la scomparsa di Giuseppe Garibaldi.

4L’art. 1 dichiarava la seconda Domenica del mese di maggio di ogni anno Festa dello Statuto; l’art. 2 prevedeva

che tutti i Municipi dello Stato dovessero celebrare “la predetta festa nazionale, presi gli opportuni concerti colle

Autorità ecclesiastiche per la funzione religiosa” e che vi dovessero intervenire “le Autorità civili e militari, la

Guardia nazionale, i Corpi tutti dell’Armata di terra e di mare, il Corpo insegnante, e gli Studenti”, mentre i

comuni avrebbero dovuto stanziare “ le spese occorrenti a tale Festa nel loro bilancio”.

5 v. G.U. 122 del 28 maggio 2007.

6 V. ordinanza del PCM n. 3632,in G.U. n. 282 del 4 dicembre 2007 e decr. PCM in G.U. n. 118,22 maggio

2010. Al 9 luglio del 2010 la Composizione del Comitato dei garanti era la seguente: Giovanni Allevi, Gaetano

Armao, Maria Lucia Baire, Walter Barberis, Vittorio Bo, Roberto Bolle, Pietrangelo Buttafuoco, Pierluigi

Ciocca, Michele Coppola, Piero Craveri, Pasquale De Lise, Ernesto Galli della Loggia, Andrea Giardina, Louis

Godart, Stefano Lucchini, Francesco Margiotta Broglio, Claudio Martelli, Alberto Melloni, Fiorenza Mursia,

Lorenzo Ornaghi, Francesco Perfetti, Roberto Pertici, Andrea Riccardi, Elena Aga Rossi, Giovanni Sabatucci,

Giovanni Tassani, Gianni Toniolo, Marcello Veneziani

preparazione delle celebrazioni, che con ordinanza PCM n. 3772 del 19 maggio 2009 si era

trasformata in Unità tecnica di missione operante presso il Segretariato generale della PCM.

Venerdì 28 gennaio 2011, sulla base del terzo comma dell’art. 7 bis, aggiunto in sede di

conversione del decreto legge 30 aprile 2010, n. 64 sulla Fondazioni liriche7, il Consiglio dei

ministri aveva finalmente annunciato: che il 17 marzo sarebbe stato, solo per il 2011, festa

nazionale e che scuole ed uffici sarebbero rimasti chiusi (“il messaggero”, 28 Gennaio 2011);

che durante la notte tra il 16 e il 17 le città sarebbero state aperte alla notte tricolore; che in

quest'occasione in tutt'Italia sarebbe stato celebrato alle ore 07,00 il rito dell'alzabandiera; che

il Capo dello Stato avrebbe parlato al Parlamento riunito in seduta comune e si sarebbe recato

al Pantheon a rendere omaggio alla tomba del primo Re d'Italia; che, infine, il 2 giugno

sarebbe stata, come ogni anno ma in maniera più solenne, celebrata la festa della Repubblica.

A questo punto è iniziata una significativa (ma non nuova) controversia in argomento, che ha

fatto parlare di senso di debole appartenenza (“Corriere della sera”, 8 febbraio 2011) per

quanto riguarda il sentimento di identità nazionale8. In primo luogo ci si è accorti che,

nonostante il citato art. 7 bis avesse dichiarato il 17 marzo festa nazionale, dal testo della

legge di conversione era stato fatto sparire un esplicito richiamo alla L. 27 maggio 1949, n.

260, che ne avrebbe assicurato l’efficacia, facendolo così derubricare a solennità civile9; che

ciò sarebbe accaduto a causa di una richiesta fondata su motivazioni di bilancio del

sottosegretario all’Economia e finanze (Giuseppe Vegas) e che di questo se ne sarebbero

7 v. Legge di conversione: 29 giugno 2010, n. 100, G.U. n. 150 del 30 giugno 2010. L’art. 7 bis venne approvato

in Commissione al Senato come frutto per il primo comma di un emendamento presentato dal Governo e per il

secondo di una proposta della Commissione stessa.

8 Sul tema della festa v. I. Porciani, La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali

nell’Italia unita,Bologna, Il Mulino, 1997 e M. Ridolfi, Le feste nazionali, Bologna, Il Mulino,2003 e Idem ,La

festa del 2 giugno:rituali civili,spazi sociali e territorialità repubblicane,

www.insmli.it/pubblicazioni/102/RIDOLFI_06_an.pdf .

9 Per cui il giorno 2 giugno, data di fondazione della Repubblica, è dichiarato festa nazionale, mentre sono “

considerati giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere

determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa nazionale, i giorni seguenti:tutte le domeniche;il primo giorno

dell'anno;il giorno dell'Epifania (Festività soppressa dall'art. 1, L. 5 marzo 1977, n. 54 e ripristinata ai sensi

dell'art. 1, D.P.R. 28 dicembre1985, n. 792); il giorno della festa di San Giuseppe (Festività soppressa dall'art. 1,

L. 5 marzo 1977, n. 54.); il 25 aprile, anniversario della liberazione;il giorno di lunedì dopo Pasqua;il giorno

dell'Ascensione (Festività soppressa dall'art. 1, L. 5 marzo 1977, n. 54.); il giorno del Corpus Domini (Festività

soppressa dall'art. 1, L. 5 marzo 1977, n. 54.);il 1 maggio: festa del lavoro;il giorno della festa dei Santi Apostoli

Pietro e Paolo (Festività soppressa dall'art. 1, L. 5 marzo 1977, n. 54 e ripristinata, solo per il comune di Roma

(quale festa del Santo Patrono), ai sensi dell'art. 1, D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 792); il giorno dell'Assunzione

della B. V. Maria; il giorno di Ognissanti; il 4 novembre: giorno dell'unità nazionale (l'art. 1, L. 5 marzo 1977, n.

54, ha disposto che la celebrazione della festa dell'unità nazionale abbia luogo la prima domenica di novembre e,

pertanto, il 4 novembre cessa di essere considerato festivo); il giorno della festa dell'Immacolata Concezione; il

giorno di Natale; il giorno 26 dicembre”.

Sono, invece, considerate solennità civili, agli effetti dell'orario ridotto negli uffici pubblici e

dell'imbandieramento dei pubblici edifici:l'11 febbraio: anniversario della stipulazione del Trattato e del

Concordato con la Santa Sede; il 28 settembre: anniversario della insurrezione popolare di Napoli

Per l’art. 4 della legge in questione “ Gli edifici pubblici sono imbandierati nei giorni della festa nazionale, delle

solennità civili e del 25 aprile, 1 maggio e 4 novembre”.

accorti in ritardo gli uffici della Camera dei deputati10. Di qui la ripresa di un contenzioso che

era rimasto formalmente coperto (ma latente) nel momento della discussione del già citato e

controverso atto normativo di base dedicato alle Fondazioni liriche 11 e che nelle ultime

settimane si è gonfiato oltre ogni misura, divenendo esemplare dello stato di scollamento in

cui ci si appresta a commemorare l’evento fondativo dell’ordinamento statuale italiano.

1.3- Dal “Viva V.E.R.D.I.” ai problemi di bilancio

Una leggenda storica non confermata racconta che, durante gli anni dell’occupazione

asburgica, sui muri di Milano sarebbero apparse scritte inneggianti a Vittorio Emanuele Re

d’Italia sulla base dell’acronimo del cognome del celebre compositore Giuseppe Verdi. E’ in

proposito singolare che proprio la Legge sulle fondazioni liriche abbia dato stura al grido

alternativo “Viva i Verdi”, indicando la necessità di lavorare, rispettando le esigenze di

copertura finanziaria di cui al quarto comma dell’art. 81 Cost..

In questa linea il presidente della Confindustria Marcegaglia ha, infatti, sostenuto che il 17

marzo si farebbe meglio a commemorare l'Unità d’Italia lavorando; Giuliano Amato,

presidente del Comitato per le celebrazioni dell'evento unitario ed ex presidente del Consiglio,

si è detto d'accordo in un articolo sul Sole 24 ore (6 febbraio 2011); il leghista Roberto

Calderoli, ministro per la semplificazione, ha espresso un parere conforme, mentre i principali

sindacati si sono nuovamente divisi anche su questo argomento, dopo aver battagliato ancora

recentemente sui temi dei contratti, della rappresentatività e della riconversione dello Stato

sociale.

Nel corso di un successivo Consiglio dei ministri (9 febbraio) il ministro della Pubblica

istruzione Maria Stella Gelmini (Popolo della Libertà proveniente da Forza Italia) ha fatto

sapere di essere sfavorevole alla chiusura delle scuole per la data indicata, mentre il leader

della Lega Nord e ministro per le riforme istituzionali Umberto Bossi ha dichiarato che la

“festa sarà percepita in modo diverso a seconda dei luoghi” (eufemismo per dire che al Nord

10 Vegas aveva sollevato il problema dell’aggravio finanziario derivante dalle retribuzioni maggiorate nel giorno

festivo su cui si è soffermata anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. n. 146-2008 sul compenso

aggiuntivo per festività coincidenti con domenica per i dipendenti pubblici).

11 V. N. Cottone,È legge il decreto sulle fondazioni liriche, in “Il sole 24 ore”,29 giugno,2010; ma la storia del

decreto e della sua conversione sono estremamente complesse e rivelatrici della crisi del sistema poltiico e dei

rapporti tra le forze presenti in Parlamento. Non soltanto il decreto aveva sollevato dubbi nel Capo dello Stato

(v. A. Bandettini, Napolitano non firma il decreto

e chiede chiarimenti a Bondi , in ”La repubblica”,29 aprile 2010 ), ma in sede di conversione dello stesso alla

Camera dei deputati le opposizioni avevano prima effettuato l’ostruzionismo, per poi trattare (unica resistente

l’IDV mettendo a rischio la visione televisiva dei mondiali di calcio dei deputati costretti in aula) su alcuni

emendamenti,tra cui l’art. 7 bis(v. R. Masci, Nell’ostruzionismo Di Pietro resta solo,Pd e UDC concordano

modifiche al provvedimento. L’IDV accusa gli alleati:non siete in buona fede,in “La stampa” 25 giugno 2010.

non verrà celebrata), contrapponendosi al ministro della Gioventù Giorgia Meloni e a quello

della Difesa Ignazio La Russa (entrambi PdL di provenienza AN). A complicare la situazione,

in un'area di confine estremamente sensibile ai dati simbolici, il presidente della provincia di

Bolzano Durwalder (SVP) ha dichiarato che non celebrerà alcunché, perché parte di “una

minoranza austriaca”, mentre lo stesso partito di raccolta della popolazione altoatesina di

lingua tedesca ha provveduto trattare i voti dei propri parlamentari in cambio dello

spostamento o della cancellazione di alcuni simboli nazionalisti italiani in Alto Adige (v. "La

Stampa" 7 febbraio 2011). Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha risposto piccato a

Durwalder che il Presidente della provincia di Bolzano rappresenta anche la minoranza

italiana (“La Repubblica”, 12 febbraio 2011), mentre Calderoli - ripreso da La Russa sul

federalismo - ha sostenuto che il provvedimento sarebbe incostituzionale perché – appuntoprivo

della copertura finanziaria ex art. 81 Cost..

Venerdì 18 febbraio il Consiglio dei ministri ha,finalmente, approvato un decreto legge, su

proposta del Presidente del Consiglio, che “assicura la dovuta solennità e la massima

partecipazione dei cittadini alle celebrazioni del 17 marzo 2011, già dichiarato festa

nazionale, confermando che la giornata sarà festiva a tutti gli effetti previsti dalla legge”.12

Come aveva lasciato trapelare già nei giorni scorsi il Ministro della difesa La Russa, solo per

quest’anno “ troveranno applicazione gli effetti economici e gli istituti giuridici e contrattuali

previsti per la festività soppressa del 4 novembre (che solo per quest’anno non esplica i

predetti effetti) così da compensarne gli oneri”.

La delibera è stata approvata con l’astensione di Bossi e Calderoli e con l’assenza di Maroni,

mentre alcuni rappresentati del PDL (Gelmini e Sacconi) hanno approvato il provvedimento,

seppur obtorto collo. Questo è stato, infatti, considerato da Calderoni una vera e propria follia

dal punto di vista economico e incostituzionale da quello giuridico per mancanza di copertura.

D’altro il Decreto legge in oggetto non soltanto ha evitato l’imbarazzo di un voto

parlamentare sulla mozione Franceschini, prevista dopo il cosiddetto “decreto

Milleproroghe”, ma soprattutto sarà fatto decadere “a celebrazione avvenuta”, facendo in

modo di neutralizzare i dissensi interni alla maggioranza e la necessità di ricorrere all’aiuto

dell’opposizione.

Sono questi solo alcuni scampoli della polemica (non ancora conclusa) sul terzo

cinquantenario dell'Unità nazionale italiana (su cui è intervenuto anche in maniera desolata

l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, v. “Corriere della sera”,10 febbraio

12 Comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri,18 febbraio

2011(http://www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/dettaglio.asp?d=62322).

2011), che hanno riportato in auge la problematica di Ernest Renan13 relativa alla volontà

dello stare insieme ed ai ricordi che la giustificano.

Ma non solo: sono venute alla luce anche tutte le contraddittorie stranezze di una

commemorazione che una tantum provvede a rispolverare le radici monarchiche

dell’ordinamento (ma ricordo che lo stesso Statuto veniva festeggiato la prima domenica di

giugno di ogni anno soprattutto nelle caserme e nelle scuole14), perché Repubblica15 e

Resistenza, eventi fondanti per l’attuale regime, non paiono più sufficienti (o come ha

dichiarato per il 25 aprile l’esponente della Lega Nord Borghezio, di parte), mentre all’interno

della comunità politica, soprattutto parti del ceto politico e della classe dirigente stanno

divenendo sempre più centrifughi e pericolosi per la coesione sociale e della comunità

politica.

La peculiarità della situazione è confermata dal fatto che prima si è dimenticato che già esiste

la festa del 4 novembre (Anniversario della vittoria della prima guerra mondiale, divenuta

successivamente Festa delle Forze armate e poi Festa dell'Unità nazionale), che è stata

spostata alla prima domenica di novembre e, adesso, la stessa viene utilizzata come

provvisorio ponte finanziario.

In realtà il ceto politico si sta presentando, come ha ricordato più volte Giuliano Amato,

ancora una volta diviso all’appuntamento con i simboli dell’Unità nazionale. La vera aula

parlamentare rischia di essere quella del palco del Festival di San Remo, all’interno del quale

Roberto Benigni ha effettuato una trascinante commemorazione dell’inno nazionale. Lo

stesso Presidente della Repubblica, che sta meritoriamente cesellando con il bulino in una

situazione difficilissima perché il 17 marzo sia un avvenimento unitario, attende come

salvifico il contributo dello stesso Pontefice alla celebrazione (probabilmente attraverso un

messaggio), in modo da riequilibrare la posizione fortemente polemica della Lega Nord, che

si connette con proposte alternative dell’articolazione centro-periferia.

2- La molteplicità di memorie e la carenza di condivisione delle stesse

13 v. E.Renan,Qu’est-ce qu’une nation?,(1882 ),in Discours et conferences,Paris,Lévy,1887 per cui “une nation

est donc une grande solidarité, constituée par le sentiment des sacrifices qu'on a faits et de ceux qu'on est disposé

à faire encore. Elle suppose un passé ; elle se résume pourtant dans le présent par un fait tangible : le

consentement, le désir clairement exprimé de continuer la vie commune. L'existence d'une nation est (pardonnezmoi

cette métaphore) un plébiscite de tous les jours, comme l'existence de l'individu est une affirmation

perpétuelle de vie.”(p.307)

14 E’ significativo che nella bibliografia nazionale le segnalazioni in merito siano concentrate per la massima

parte nel periodo precedente il primo conflitto mondiale e che terminino sostanzialmente nel 1922.

15 La festa del 2 giugno ,spostata nel 1977 alla prima domenica di giugno e ripristinata nel 2001,venne

festeggiata “una tantum” in occasione del quarantennale nel 1986.

Andiamo però alla radice del problema, al di là delle soluzioni più o meno raffazzonate che

sono state recuperate e che, probabilmente, non toglieranno nulla alla riflessione

sull’avvenimento. L’incertezza italiana contemporanea su se e come celebrare le proprie

origini come Stato nazionale unitario nasce dal fatto che i ricordi sono molti (troppi) e

divaricati; e che la condivisione degli stessi non è incontroversa (anzi per alcuni impossibile),

mentre la coesione nazionale si è ridotta nell'ambito delle varie aree del paese in relazione ai

fenomeni di globalizzazione, internazionalizzazione e integrazione che colpiscono in maniera

differenziata l'area europea negli ultimi decenni. Un simile stato di fatto è aggravato dal

mancato riallineamento del sistema partitico dopo la crisi di regime del 1992-93 e dallo

sviluppo di partiti regionali (soprattutto al nord, ma anche al sud), che contestano la stessa

comunità politica o richiedono una articolazione profondamente differente del tipo di Stato

sulla base di una ricostruzione del passato alternativa a quella tradizionale.

Ciò che sta accadendo costituisce senza alcun dubbio un sintomo allarmante sul livello di

coesione nazionale ed una conferma della mancanza di qualsivoglia egemonia politicoculturale

all’interno dell’ordinamento, su cui costruire la richiesta identità nazionale. D’altro

canto lo stesso accanimento a celebrare rischia di indebolire, più che rafforzare, la coesione

residua.

Al fine di non essere schiacciati da interpretazioni miopi, c’è però da chiedersi, seppur in

maniera sintetica, quali siano le origini di questo fenomeno, che colpisce, con l’Italia, in

maniera più pronunciata alcuni ordinamenti rispetto ad altri, e quali siano prognosi e terapie

in materia.

A questo scopo ritengo che sia indispensabile inquadrare opportunamente un simile problema

nell'onda lunga della storia costituzionale italiana, inglobando la stessa storia della

Costituzione repubblicana. Il problema della legittimazione istituzionale del nostro sistema

politico-costituzionale può essere analizzato sulla base del classico rapporto tra società civile,

classe dirigente (di cui il ceto politico costituisce una parte) ed istituzioni, individuando l'onda

lunga della storia nelle invarianze e nei problemi che si pongono praticamente.

Non è certo una scoperta che l’ordinamento politico costituzionale italiano sia sempre stato

caratterizzato da una relativa debolezza della comunità politica, del regime e delle sue

autorità, se si utilizzano le classiche categorie di David Easton.16 Il livello della comunità

politica identifica l’ambito analitico che definisce la volontà di stare assieme formando una

comunità riunita attorno a valori ed istituzioni comuni; quello del regime indica invece le

16 V. D. Easton, A systems Analysis for Political Life, New York, Waleyand, 1965.

norme,in valori, le regole del gioco e le strutture d’autorità in cui agiscono i soggetti

politicamente rilevanti, mentre le autorità individuano coloro che legittimamente esercitano il

potere politico all’interno dell’ordinamento.

Emilio Gentile nel suo recente volume dal titolo impressivo Né stato,né nazione. Italiani

senza meta17 ha evidenziato la crisi del sistema politico costituzionale complessivo sia per

quanto riguarda l’identità che le istituzioni politiche.

A mio avviso, l’aspetto determinante della questione non sta, tuttavia, tanto se esista una

identità della comunità politica (al di là del regime che la caratterizza), perché il tempo ha

dimostrato che è esistita e tuttora persiste, ma quale sia la forza e la qualità della stessa,

corroborate dai soggetti che si pongono alla base dell’ordinamento e che ne costituiscono la

classe dirigente ed il ceto politico. James Bryce lo aveva già messo in evidenza all’inizio del

secolo scorso quando aveva parlato di elementi centripeti ed elementi centrifughi nell’ambito

degli ordinamenti18, seguito circa venticinque anni dopo dalla stessa categorizzazione di Carl

Schmitt amico-nemico19.

Una simile questione era, d’altro canto, ben presente, già pochi anni dopo la proclamazione

del Regno, anche allo stesso Massimo d'Azeglio, politico e letterato di prima grandezza, che,

nella prefazione al volume di Ricordi, databile attorno al 1866, affermò, com’è noto, che "il

primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pur troppo si

va ogni giorno verso il polo opposto: pur troppo si è fatta l'Italia, ma non si fanno gli

italiani"20. Si badi bene, il giudizio non era che non ci fossero italiani, ma che la loro identità

come comunità politica fosse debole e che dovesse essere rafforzata, sviluppando in maniera

opportuna gli elementi eminenti della classe dirigente. D'Azeglio, richiamando in maniera

singolare la figura di un aristocratico innovatore del “nuovo mondo” come George

Washington e la preferenza dello stesso per i gentlemen, individuava l'esigenza di un ceto

politico adeguato alla bisogna sulla base del classico apologo della nave21 e dell'esigenza che

chi sa deve governare e chi non sa ubbidire, anticipando la posizione apparentemente

meritocratica di Gaetano Mosca.

Le ragioni della debolezza dell’identità italiana possono essere verificate nel rapporto tra

istituzioni, ceto politico nell'ambito della dinamica classe dirigente e la società civile proprio

in quattro momenti topici del percorso effettuato dallo Stato italiano e dal sentimento

17 V. E. Gentile, Né stato,né nazione.Italiano senza meta. Roma, Laterza, 2010.

18V. J. Bryce, The Action ff Centripetal and Centrifugal Forcesv on Political Constitutions,in “Studies in History

and in Jurisprudence”,cit., vol.I, pp. 255 ss.

19 V. C.Schmitt, Der Begriff des Politischen, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1933.

20 V. M.Taparelli D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze, Barbera, 1891, p.5.

21 V. F. Lanchester, Introduzione a La barra e il timone, a cura di F. Lanchester, Milano, Giuffrè, 2009.

nazionale. Il momento iniziale coincide appunto con il 1861 ed in sostanza con le parole di

D'Azeglio, che già prefigura il disincanto degli anni Ottanta del secolo XIX.

Il secondo con il 1911, data di celebrazione del primo cinquantennio unitario, anno della

guerra di Libia, ma soprattutto anno che precede l'allargamento del suffragio ed apre - con le

convulsioni del primo conflitto mondiale, del dopoguerra e del fascismo- alla fine dello Stato

liberale oligarchico ed al fallimento della brevissima esperienza liberale-democratica. Il terzo

con il 1961, anno di celebrazione del primo centenario, in un periodo di espansione

economica e di decisione riformistica che precede il centro-sinistra. Il quarto, infine, si

connette con il presente centrifugo dove gli elementi di formazione della stessa comunità

politica sembrano contestati all’interno degli accennati processi di devoluzione, integrazione,

internazionalizzazione e globalizzazione.

Solo su questa base mi sembra sia possibile fornire un giudizio un giudizio sul livello del

senso di identità ed il suo variare nel tempo.

3- L’esperienza pre-unitaria

Partiamo proprio da D'Azeglio e dalla sua celeberrima frase, comparandola con l'affermazione

di un celebre cultore di government come Lowell, che nel 1896 sostenne esservi stato in Italia

e in Germania un ritardo nella formazione dello Stato e non della Nazione.22 Si tratta di

posizioni che sembrano solo apparentemente in forte contraddizione.

A ben vedere non c’è inconciliabilità tra le due impostazioni. D'Azeglio nell' Ettore

Fieramosca o La disfida di Barletta (1833)23 aveva evidenziato, sul piano letterario ma anche

politico, la presenza del sentimento di identità nazionale, idealizzando uno scontro tra italiani

e francesi del 1503. Ciò che più di trenta anni dopo egli aveva- invece- voluto sottolineare

come sincero liberale, fratello di Luigi Taparelli D'Azeglio uno dei più strenui sostenitori del

potere temporale della Chiesa e di Pio IX, era invece la necessità che vi fosse una adeguata

classe dirigente ed un corrispondente ceto politico all’interno dell’ordinamento. Nel capitolo

II dei citati Ricordi, oltre all'idealizzazione dell’esempio ascetico del padre24, egli evidenziò la

necessità di un ceto politico appropriato e nello stesso tempo il timore che il processo di

mutamento della società tradizionale potesse far pendere la bilancia o verso il despotismo o

verso l’anarchia. La critica di D’Azeglio alla Russia di Alessandro, che aveva eliminato la

22 V. A.L. Lowell, Governments and Parties in Continental Europe,Bostn-New York, Hougton -Mifflin, 1897, pp.

146 ss.

23 V. M. Taparelli D’Azeglio, Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta, Torino, Pomba, 1833.

24 Nel testamento il padre aveva, infatti, invitato la moglie a non vestire gli abiti del lutto nel caso di una sua

morte in battaglia perché "ella deve tenere a grandissima fortuna per essa e per me ch'io abbia potuto dar la vita

pel Re e pel mio paese".

servitù della gleba, e agli Usa di Lincon, che avevano iniziato la guerra civile contro lo

schiavismo, descriveva sia la prospettiva del liberalismo illuminato, ma prudente che aveva

egemonizzato il processo unitario nel decennio dei portenti, sia il pericolo di disincanto che la

realtà unitaria avrebbe comportato di lì a poco. C’era anche da un lato la consapevolezza,

presente ugualmente in Tocqueville, dei pericoli cui il modello europeo poteva essere

soggetto sulla base degli esempi sopraddetti;dall’altro l’attenzione per il dato internazionale.

Ma soprattutto D’Azeglio rimarcava la necessità dell’assestamento del regime con la

costruzione di un assetto istituzionale in cui classe dirigente e ceto politico potessero agire

convenientemente.

In una simile prospettiva l’interpretazione di D’Azeglio non differiva, dunque, da quella di

Lowell, influenzata dalla letteratura italiana degli anni Ottanta e Novanta del secolo XIX sul

cosiddetto parlamentarismo, e poteva rinviare ai problemi immani della fondazione di un

nuovo assetto istituzionale, con la fusione - annessione del vecchio regime all’interno del

contesto dello Statuto Albertino .

In questo quadro lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna nacque come il frutto del

superamento della monarchia consultiva sardo-piemontese e come accesso ad una monarchia

costituzionale pura25. Alle sue spalle si ponevano non tanto le rivoluzioni inglese (due),

americana e francese, ma sopratutto il costituzionalismo della restaurazione (Francia 1814 e

poi 1830; il Belgio 1831; il costituzionalismo tedesco meridionale e prussiano) e la stessa

esperienza costituzionale italiana post-1789.

Ci si dimentica troppo spesso che nel 1848 si ebbe la prima esplosione del suffragio

universale maschile (Francia, Svizzera e, poi, nella Germania imperiale del 1871) e che la

febbre invase tutta Europa ed anche l’Italia (dalla Sicilia, che aveva preceduto il movimento

nel gennaio, agli altri Stati, tra cui il Regno sabaudo). Ma alla base del costituzionalismo

statutario si posero non solo le esperienze internazionali (preferenza per il gradualismo

equilibrato inglese, rifiuto per il razionalismo istituzionale francese nella versione giacobina

della sovranità popolare, avversione per il principio monarchico della restaurazione), ma

soprattutto quelle italiane, derivanti dalla peculiarità di una area geografica divisa

territorialmente e, soprattutto, caratterizzata dalla presenza del potere temporale della Chiesa

cattolica. Fin quando il Papato non respinse definitivamente le ipotesi di congiunzione al

movimento nazionale, la prospettiva moderata si mosse sulle vie confederali e di

25 V. P. Colombo, I presupposti dello statuto albertino. dai moti del 1821 alle riforme del 1847, in Historia

Constitucional (revista electrónica), n. 3, 2002. (http://hc.rediris.es/03/index.html)

preservazione della legittimità tradizionale, poi avvenne la svolta, anche per impedire che

soluzioni più drastiche di rottura potessero avere accesso.

Il compromesso unitario si basò sulla soluzione monarchico-rappresentativa disegnata in

maniera generica dallo Statuto. Le alternative del 1848 furono invero varie. Nell’Europa

continentale (mentre la Gran Bretagna proseguiva il suo peculiare ed esemplare sviluppo tra

Great Reform Bill del 1832 e, poi, Representation Act del 1867, che tanta influenza avrebbe

avuto sui benpensanti moderati) accanto all’ipotesi reazionaria sembrò messa in pericolo

dalla rivoluzione anche quella borghese di tipo crematista. L’allontanamento di Metternich

parve aver chiuso l’epoca della restaurazione, ma anche quella della monarchia borghese di

Luigi Filippo e la stagione classica del parlamentarismo26. Dopo Cavignac la II Repubblica

francese, che aveva già da tempo superato la questione della formazione dello Stato e della

Nazione, affrontò la questione della democratizzazione con l’estensione del suffragio

universale maschile e scelse la forma di governo presidenziale, degenerando rapidamente nel

plebiscitarismo del II Impero di Luigi Napoleone. In Germania a Francoforte la Costituente

approvò, invece, la Carta dei diritti fondamentali, poi il compromesso “piccolo tedesco”.

Questione nazionale, instaurazione dello Stato di diritto legislativo e democratizzazione,

dunque, finirono per sovrapporsi, mentre in Francia le divergenti posizioni presenti furono il

prodromo della deriva plebiscitaria e carismatica di Luigi Napoleone e poi del II Impero.

In Italia la questione nazionale e quella istituzionale ondeggiarono invece tra preservazione e

rottura del principio di legittimità tradizionale, tra tipo di Stato federale, confederale

accentrato, tra forma di governo monarchico-costituzionale e forma di governo parlamentare

su base fortemente censitaria, per arrivare all’estremo simbolico della Repubblica romana del

1849 con l’affermazione della sovranità popolare e del suffragio universale maschile.

La soluzione che scaturì dai due lustri del portento (1848-1859) fu quella monarchicorappresentativa

dello Statuto, capace di adeguarsi alle contraddizioni di una scelta derivante

dalle fratture tra laici e cattolici,tra nord e sud, tra città e campagna, tra progressisti e

moderati, tra rivoluzionari e conservatori.

4- L’egemonia moderata e l’Unità nazionale

Le alternative esistevano, dunque, formalmente, ma l’unica realistica fu quella sabauda,

appoggiata da un ceto politico sufficientemente consapevole. Nel 1848 lo Statuto Albertino

venne apparentemente concesso come in altri ordinamenti italiani. L’uso dell’avverbio deriva

26 Sull’origine del concetto v. F. Lanchester, La rappresentanza in capo politico e le sue trasformazioni, Milano,

Giuffré, 2006, pp.71 ss.

dal fatto che la stessa concessione derivava dall’esigenza di non farsi superare dagli

avvenimenti. Il vecchio ceto politico sardo-piemontese consigliò, in febbraio, il Sovrano di

provvedere in correlazione con i tempi e nel marzo si ritirò in buon ordine. I tempi, si direbbe

anche oggi, non erano più quelli di una volta27. I liberali più accorti erano consapevoli dei

pericoli del momento e, ad es., tutti gli interventi del Cavour su legge elettorale e Costituente

furono conseguenti28. Le alternative democratiche erano, infatti, presenti e differenziate, come

quelle più retrive. Chi analizzi le posizioni del movimento rivoluzionario lombardo può infatti

toccare con mano la divaricazione tra il moderatismo di un Casati e la radicalità di Cattaneo ,

così come in Toscana o nell’Emilia. Le vicende della Repubblica romana ed in suoi

precedenti con l’assassinio di Pellegrino Rossi e la fuga a Gaeta di Pio IX costituiscono di

tutto ciò una ulteriore conferma, al di là della esemplarità del testo costituzionale in cui si

proclamava, appunto, la sovranità popolare, mentre le truppe francesi erano già in

Campidoglio.

Lo Statuto, annunziato nel febbraio e concesso nel marzo 1848, fu immediatamente oggetto di

discussione. Non solo per quanto riguardava la sua natura intrinseca, ma anche gli istituti. Nel

giugno nel 1848 le Camere del Regno Sardo furono poste di fronte al plebiscito di

unificazione lombardo29 e misero in conto sia la Costituente, ovvero la ridiscussione dello

stesso testo costituzionale, sia le concrete soluzioni che nel medesimo erano contenute.

Oggetto del dibattito tra il giugno ed il luglio di quell’anno furono, da un lato, la legge

elettorale sia per quanto riguardava l’estensione del suffragio, sia per quanto atteneva al tema

del sistema elettorale in senso stretto. La forma di governo monarchico costituzionale

originaria assunse convenzionalmente caratteristiche parlamentari (che nel tempo sono state

considerate da alcuni come pseudo-parlamentari), mentre si discuteva della modifica del

Senato vitalizio di nomina regia.

La questione della natura dello Statuto (stante la mancanza regole espresse per la sua

modificazione) divenne un tema su cui prima il ceto politico e l’opinione pubblica e, poi, la

dottrina, si soffermarono.

Se lo Statuto era stato concesso dal Sovrano dicevano alcuni, e non vi era indicazione sulle

procedure di revisione, allora solo il Sovrano avrebbe potuto modificarlo. Altri sosteneva che

la modifica era impossibile vista l’irrevocabilità della concessione da parte del Monarca,

27 v. G. Rebuffa, Lo Statuto albertino, Bologna, Il Mulino, 2003.

28v. Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour raccolti per ordine della Camera dei deputati,

Torino, Botta, 1863, vol. I; vol. II, 1864.

29 V. G.Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno d’Italia, Firenze, Civelli,1898; G. Urtoller, Lo Statuto

fondamentale del Regno d’Italia annotato, Parte Prima:dello Stato e della Monarchia,cit.

mentre - al di là di coloro che richiedevano la Costituente- ovvero la ridiscussione unilaterale

del patto (il potere costituente è come noto il più libero dal fine)- la parte più responsabile

individuava nel potere legislativo (ovvero nel Parlamento) l’istituzione che avrebbe potuto

modificare la Carta.

Ovviamente le tradizioni costituzionali in campo avevano del potere legislativo una differente

concezione: quella di derivazione britannica, che riuscì ad affermarsi nel processo unitario,

vedeva nel parlamento un organo complesso in cui convergevano le due Camere ed il

Sovrano, mentre quelle di derivazione francese lo vedevano concentrato tendenzialmente in

modo esclusivo nelle Camere , se non addirittura solo in quella di derivazione popolare. La

soluzione, sponsorizzata dal Cavour, del Parlamento come organo complesso sulla base della

recezione della storia costituzionale britannica (penso all’impulso di vera e propria cultura

costituzionale da parte di Cavour, perché D’Ondes Reggio traducesse in Italiano l’opera di

Hallam30) venne sostenuta proprio dal Cavour già nel biennio (1848-49) e poi da Zanardelli

31. Essa si consoliderà dopo la duplice sconfitta militare (Custoza - luglio 1848 e Novara -

marzo 1849). Parte della classe dirigente piemontese (cavourriani in testa) e la monarchia

(Vittorio Emanuele II) non solo non retrocessero dalla prospettiva liberale moderata, ma la

implementarono contrapponendosi al potere temporale della Chiesa ed alla sua ingerenza nel

governo civile.

Il riformismo cavourriano fu in sostanza rivoluzionario e moderato (bisogna intendersi

ovviamente sul grado delle due espressioni) allo stesso tempo, riuscendo a far divenire il

Piemonte il centro del sistema risorgimentale ed affermandolo sul piano europeo. Dopo la II

guerra di indipendenza, la conquista del Regno delle due Sicilie e le varie annessioni, in realtà

il tema rappresentato dalla duplice coppia riforma-rivoluzione, continuità-rinnovamento si

evidenziò in maniera plastica nella citata legge sull’intitolazione del Sovrano e degli atti

normativi. A suo tempo Carl Schmitt mise in evidenza il compromesso ambiguo della

Reichsverfassung del 187132, ma è indubbio che Bismarck operò molto più nella continuità

del principio di legittimità di quanto non avesse fatto il Cavour. La legittimità tradizionale con

il Regno d’Italia venne in effetti schiantata non soltanto con la conquista-annessione, ma

soprattutto con i plebisciti33, che ammettevano in un certo senso la volontà popolare nel

30 V. H. Hallam, Storia costituzionale di Inghilterra : dal cominciamento del regno di Enrico 7. alla morte di

Giorgio 2., prima traduzione italiana dall'originale inglese [di] Vito D'Ondes Reggio, Torino, Pomba, 4 voll.,

1854-1855.

31 V. G. Zanardelli, Studi sulla sessione parlamentare 1861-62, Brescia, Apollonio, 1864.

32 V. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, Milano, Giuffrè, 1984, pp. 80 ss.

33 Su cui v. Urtoller, Lo Statuto fondamentale del Regno d’Italia annotato, Parte Prima:dello Stato e della

Monarchia, cit.

momento fondativo del regime. Come si è già osservato, Vittorio Emanuele assunse la

denominazione di Re d’Italia (e non di Re degli Italiani come voleva qualcuno) e conservò la

numerazione ordinale del Regno Sardo, ma significativamente in Senato si tentò di

aggiungere immediatamente, durante la discussione sulla legge, l’articolo sulla formula degli

atti giuridica, per cui il Sovrano era “per Provvidenza divina Dio, per voto della nazione “ Re

d’Italia34.

Chi legga gli atti parlamentari del periodo si rende conto della tensione che covava dietro

queste differenti dizioni e potrà trovare conferma della costanza di alcuni difetti del nostro

ordinamento (ad es. il bicameralismo), pur nella differenza delle basi originarie degli stessi.

5- I primi cinquanta anni di vicenda unitaria e l’indebolimento progressivo dello Stato

liberale oligarchico

5.1- Il periodo della Destra storica:1861-1876

Fino al 1876 il problema della innovazione istituzionale sui livelli precedentemente accennati

si pose sotto l’aspetto della stessa costruzione dello Stato e di un apparato burocratico

unitario35. Stante il compromesso istituzionale statutario il problema del tipo di Stato

(regionale, e non certo federale, o accentrato) e quello della costruzione di un apparato

normativo unitario venne fortemente condizionato dalle fratture interne esistenti e dalla realtà

dei rapporti internazionali. La situazione del deficit pubblico , la guerra civile endemica in

alcune aree del sud, le tensioni estreme con la Chiesa cattolica non potevano non condizionare

un ordinamento i cui fondamenti rappresentativi erano estremamente esigui e frantumati in

consorterie regionali.

Il tema dei partiti e della stabilità degli esecutivi apparve già negli anni Sessanta del XIX

secolo, anche se Giuseppe Maranini ne la sua Storia del potere in Italia ha visto nel connubio

cavourriano il prodromo dei costanti difetti italiani.36 L’accordo del febbraio 1852 tra

34 V. Senato del Regno –Sessione del 1861-26 febbraio -Discussione sul progetto di legge per cui S.M.

il Re Vittorio Emanuele II assume il titolo di RE d’Italia-pp.26 ss. Il Ministro di Grazie e giustizia

propose,invece, di inserire l’articolo nei preliminari del codice civile o in una legge speciale. Il

Senatore Matteucci accettò , il Senatore Pareto dichiarò che avrebbe preferito l’iniziativa del Parlamento

più che quella del Governo dimodoche il titolo fosse dato più che assunto, mentre il Senatore Vacca

precisò che “l’idea significata non esprime(va) punto il vieto concetto del diritto divino, ma

risponde(va) appuntino ad un sentimento istintivo , universale dell’umano genere” (p.31).Cavour

intervenne per evidenziare che esistevano due sistemi di governo (rimorchiare o essere rimorchiati) e

che non v’era alcuna traccia di feudalesimo nella proposta(p.32),mentre il Senatore Nomis di Pollone

faceva approvare un o.d.g. per un progetto di legge sull’intitolazione degli atti. Che venne approvato

(p.33-34).

35 v. R. Romanelli, Introduzione e Centralismo e autonomie, in “Storia dello Stato unitario dall’Unità a

oggi, a cura dello stesso, Roma, Donzelli, 1995, pp. IX ss. e 126 ss..

36 V. G.Maranini, Storia del potere in Italia, Firenze,Vallecchi, 1967.

Cavour-Rattazzi, osteggiato dal D’Azeglio, si concretizzò nel novembre successivo ed aveva

alla sua base ragioni di politica internazionale (gli effetti del colpo di Stato di Luigi

Napoleone Bonaparte del dicembre precedente) e di politica interna (l’isolamento delle

estreme).

Ma questa impostazione rischia di precorrere in tempi ed essere di tipo ideologico. La crisi

del movimento risorgimentale e del suo ceto politico si giocò, infatti, dopo la terza guerra di

indipendenza e la conquista di Roma, con la fine del potere temporale del Pontefice. Il non

expedit papale (Vito D’Ondes Reggio costituisce, appunto, un simbolo interessante del ritiro

sull’Aventino unitario di una parte degli intellettuali cattolici che avevano cooperato

all’Unificazione) aggravò ancor più la debolezza di una rappresentanza censitaria

estremamente ristretta.

La sconfitta della Destra storica, impegnata su molti fronti ma soprattutto su quello del deficit

pubblico, ed il passaggio di potere alla Sinistra di Depretis posero all’ordine del giorno la

questione elettorale, che costituisce non soltanto un tema che investe la forma di governo , ma

anche la stessa forma di Stato.

5.2- La Sinistra, il trasformismo e le opzioni autoritarie:1876-1899

Dal 1876 l’argomento dell’allargamento del suffragio e delle riforme del meccanismo di voto

divenne essenziale. Non è un caso che le questioni connesse del sistema dei partiti, della

qualità del ceto politico, del funzionamento delle istituzioni rappresentative e burocratiche

apparvero in modo paradigmatico proprio in quegli anni. L’opera di Minghetti37 e le

osservazioni di Crispi 38si connettono con l’attività critica di molti costituzionalisti (Mosca39 e

Orlando40 tra questi) nei confronti della cosiddetta polemica contro il parlamentarismo, così

efficacemente rappresentata da Federico De Roberto ne’I viceré e ne L’imperio41. La critica

dei difetti di un sistema, che sembrava avere perso lo smalto delle speranze risorgimentali,

divenne intensa, anche in relazione al progressivo allargamento delle disomogeneità sociali e

politiche dell’ordinamento.

Nel successivo venticinquennio l’avvento della sinistra legò l’allargamento della base

elettorale alla riforma dei sistema di votazione all’incapacità di costruire maggioranze e partiti

37 V. M. Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nella pubblica

amministrazione, Modena, Zannichelli,1881

38 V. F.Crispi, Scritti e discorsi politici(1849-1890), Roma, Unione cooperativa editrice, 1890.

39 V. G. Mosca,Teorica dei governi e governo parlamentare, Torino, Loescher, 1887.

40 V. V.E. Orlando,Principi di diritto costituzionale, Firenze, Barbera, 1889.

41 V.A.Ridolfi,L’antiparlamentarismo e i romanzi di Federico de Roberto(a proposito del dialogo tra

giuristi e letteratura), in “Nomos”, 2006.

coesi. La formula ambigua del governo monarchico rappresentativo (di cui all’art. 2 dello

Statuto), che aveva dato la possibilità di interpretare la dinamica della forma di governo in

maniera profondamente differente nel corso del periodo preunitario, torse la Carta

fondamentale del Regno verso un assetto di tipo liberale rappresentativo, che lasciava al

sovrano poteri di riserva sulla base della prerogativa regia42.

In questo periodo,dove alla generazione che aveva costituito il nuovo Regno se ne era

affacciata una nuova, non soltanto i modelli costituzionali inglese,francese e tedesco vennero

discussi per importarne novità tradotte in italiano sulla base delle esigenze nazionali, ma si

formò la coscienza della necessità di una nuova ideologia rispetto a quella precedente.

Di fronte alle istanze ancora alienate dallo Stato unitario del movimento cattolico, che si

preparava con Leone XIII all’ingresso nell’arena politica in maniera progressiva iniziando dal

basso, e a quelle del movimento operario che utilizzava il baccello radicale o repubblicano,

due furono le ideologie che si proposero all’interno del sistema.

La prima e più fortunata fu l’ideologia giuridica della personalità dello Stato orlandiana, che

cercò di coprire le contraddizioni che venivano evidenziate dal contrasto tra monarchia e

rappresentanza e che si sostanziarono nei tentativi di ritorno letterale allo Statuto nell’ultimo

lustro degli anni Novanta del secolo XIX.

La seconda fu quella moschiana, che descrisse in maniera lucida le insufficienze del ceto

politico e della classe dirigente, proponendo ipotesi di tipo meritocratico ed efficientistico.

In questa fase,che abbraccia successivamente gli anni Novanta,con le ipotesi conservatrici di

Crispi e di Sonnino, la riforma istituzionale si concentra su sul tema dell’allargamento del

suffragio (capacità elettorale attiva e passiva), sul sistema elettorale in senso stretto (scrutinio

di lista e voto limitato) e sull’ipotesi di trasformazione del Senato. Esemplare di un

moderatismo illuminato, incapace di essere compreso dalle contraddizioni del sistema, risultò

il progetto di Luigi Palma,che esprimeva l’esigenza di riequilibrare il rapporto tra i poteri

attivi attraverso la parziale elezione del Senato da parte delle rappresentanze locali. Si tratta di

una delle tante ipotesi di innovazione, cui si affiancarono quelle più decise della destra

conservatrice di istituzione di un Consiglio della Corona (un tentativo di ritorno alla

monarchia consultiva), indice della propensione verso il modello tedesco.

6- Il primo cinquantenario tra espansione interna e esterna

42 V. E. Rotelli, Costituzione e amministrazione dell'Italia unita, Bologna, Il mulino, 1981.

La terza fase della vicenda statutaria è rappresentata dal periodo giolittiano, che si estende

dagli inizi del secolo sino all’immediato primo dopoguerra, in cui si inserisce la celebrazione

del primo cinquantenario. La struttura del compromesso monarchico-rappresentativo

incominciava palesemente a cedere sotto i colpi dell’allargamento del suffragio maschile e

della formazione dei partiti di massa.

Il primo cinquantenario fu celebrato al culmine del periodo giolittiano. Dopo i tentativi di

germanizzazione del sistema effettuati negli anni Novanta del secolo precedente con il ritorno

allo Statuto di Sonnino, il Governo Pelloux, le cannonate di Bava Beccaris e l’utilizzazione

intensa dello stato d’assedio politico avvenne la svolta. Mutamento cruento accompagnato dal

regicidio di Umberto I a Monza da parte dell’anarchico Bresci, ma simbolico di una profonda

ed inarrestabile inversione di tendenza. Il nuovo sovrano si defilò di fronte all’unità delle

forze politiche, mentre gli innovati regolamenti parlamentari e lo statuto del Governo (decreto

Zanardelli) definirono i termini ed i limiti della svolta. L’Esecutivo non interveniva nei

conflitti di lavoro, si aprivano spiragli di Stato sociale, il Parlamento interveniva, l’economia

si espandeva , si pensava concretamente all’allargamento del suffragio maschile. L’età

giolittiana definì contraddittoriamente la fine dello Stato liberale oligarchico con la crescita

del Partito socialista e delle sue correnti massimaliste, con il crescente e conseguente impegno

dei cattolici spinti da una gerarchia ecclesiastica preoccupata e antimodernista, con una destra

insoddisfatta e pronta a lanciarsi nelle acque delle imprese imperialiste.

Il 1910-1912 furono pieni di avvenimenti significativi. Nell’aprile 1910 Luigi Luzzatti

successe a Sonnino e, appoggiato anche dai socialisti che lo abbandonarono nel dicembre, si

dichiarò a favore della riforma elettorale, che presenterà ufficialmente a fine d’anno, della

statalizzazione del sistema scolastico e della eleggibilità del presidente del Senato. Il 17

marzo 1911 a Torino si ritrovarono i sindaci dei comuni subalpini, mentre alla Camera le

parole di celebrazione dell’on. Paniè vennero approvate dai deputati dell’estrema sinistra,

compresi i socialisti, avvenimento sottolineato dai quotidiani il giorno seguente (La Stampa,

18 marzo 1911). D’altro canto proprio il 18 marzo si discusse a Montecitorio della riforma

elettorale, mentre scoppiò una significativa polemica per la commemorazione dell’Unità in

Campidoglio, cui non erano stati invitati i deputati. Fuoco sotto la cenere: a dicembre venne

fondata l’Associazione Nazionalistica Italiana, mentre l’anno successivo iniziò il triennio del

IV Governo Giolitti, che concretizzò il progetto di riforma elettorale e tentò di allargare la

maggioranza sul polo del socialismo riformista (Bissolati), rintuzzato dal massimalismo

mussoliniano, che sarà rinvigorito dall’ opposizione all’impresa libica.

In un simile contesto le celebrazioni del cinquantenario del Regno videro il rafforzamento

progressivo di coloro che in origine erano stati esclusi da quell’avvenimento e il loro ingresso

ufficiale sulla scena. Sono, appunto, i socialisti e i cattolici, che nel 1919 saranno gli elementi

determinanti della fase liberal-democratica e del suo fallimento che rappresentano gli elementi

di chi non c’era ancora nel 1861 o di chi aveva contrastato apertamente l’Unità. Tra i

protagonisti di cinquant’anni prima rimanevano i liberali moderati, i radicali e i repubblicani,

divisi più di allora, mentre avanzava la destra imperialista rappresentata dal nazionalismo

social- darwinista.

Il 1911 si aprì dunque con le celebrazioni tra Vittoriano e Pantheon, ma le due questioni

prevalenti furono da un lato l’allargamento del suffragio e la guerra di Libia. Come dire che il

problema della base interna e quello dell’espansione esterna del sistema si congiunsero

pericolosamente. L’Italietta di Giolitti non poteva che essere odiata dagli intellettuali e il patto

Gentiloni del 1913 non poteva supportarla in maniera sufficiente nel futuro. La guerra

mondiale, non voluta dal Parlamento, dimostrò che la tutela monarchica sulla forma di

governo era sempre presente nei momenti topici e il radiosomaggismo scosse profondamente

le fondamenta del sistema.

Il primo conflitto mondiale forgiò indubbiamente l’identità nazionale del Paese, ma evidenziò

anche le sue debolezze. L’ordinamento seppe resistere alle scosse belliche e subì i fenomeni

di torsione costituzionale che colpirono altri contendenti durante il conflitto, ma dimostrò

tutta la propria debolezza nel processo di riconversione postbellico. I nodi precedenti vennero

al pettine e si evidenziò palese l’incapacità della classe dirigente ed in particolare del ceto

politico di evitare l’implosione democratica.

7- Il fascismo tra continuità e nuovi riti

Con il 1919 e le prime elezioni con lo scrutinio di lista e formula non maggioritaria iniziò la

brevissima esperienza liberale e democratica all’interno dello Statuto. Non è un caso che

proprio in questo periodo, riprendendo la discussione già prospettata negli anni Ottanta e

Novanta del secolo precedente e poi, più seriamente, alle soglie del primo decennio del

secolo, si parli di riforme istituzionali. Alle proposte di Crispi e di Sonnino si erano successe

nel tempo quelle di Arcoleo e, poi nel 1919, di Tittoni e di Ruffini, mentre è proprio l’assetto

della monarchia rappresentativa che venne ridiscusso in una prospettiva che tendeva a

modificare non soltanto la rappresentanza fiduciaria, introducendo elementi di rappresentanza

organica e di partito, ma aspirava a introdurre modelli alternativi rispetto al compromesso

risorgimentale43 .

L’impossibilità (o la mancanza di volontà) di controllare le tendenze centrifughe portarono

alla politica dei blocchi e all’illusione di utilizzare temporaneamente il fascismo come

elemento stabilizzatore del sistema. Di fronte all’impossibilità di costruire un vero partito

conservatore contrapposto ad uno progressista legittimato la scelta del fascismo venne

spacciata come elemento di continuità con il processo risorgimentale. Si trattava di una

illusione. La politica di massa poteva essere democratica, autoritaria o totalitaria, ma

divergeva profondamente con l’ideale della classe dirigente ingenua di D’Azeglio e con la

permanenza delle stesse istituzioni statutarie.

Con il 1922 (ottobre) iniziò, dunque, la quinta fase della vicenda statutaria con la modifica

plastica dello stesso Statuto in senso autoritario e con la sua rottura sostanziale attraverso le

riforme incrementali del regime. Per l’identificazione del momento della rottura alcuni

identificano il 1925, altri la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, altri ancora le leggi razziali nel

1938.

In questa prospettiva, se le celebrazioni del 1921 avevano lasciato da parte il mito

risorgimentale, per rigenerarlo nei riti di ricordo dei caduti e del sacrificio durante la grande

guerra, contrapponendo gli stessi alla freddezza se non alla ripulsa dei settori rivoluzionari,

con il fascismo venne tralasciata ogni prospettiva liberale, cosicché su Mosca ed Orlando

vinse l’impostazione di Rocco, che cercò una costruzione statolatrica adeguata alla politica di

massa, con la fine dei conflitti sociali e la presenza di un Capo e di un partito.

In un simile contesto sopravvissero la Festa dello Statuto e del 20 Settembre (invero messa in

seconda linea dalla convergenza progressiva verso la Conciliazione44), ma vennero introdotte

altre significative celebrazioni che si collegavano al nuovo regime. I nuovi riti del fascismo

evidenziarono - come ha sottolineato Emilio Gentile - il passaggio dal culto della patria al

culto del Littorio45. Al 24 maggio ed al 4 novembre celebrativi della ultima guerra

risorgimentale si affiancarono infatti il 23 marzo (fondazione dei fasci di combattimento nel

1919), il 21 aprile (fondazione di Roma), il 28 ottobre (marcia su Roma) e poi il 9 maggio

(proclamazione dell’Impero nel 1936), nell’ambito di un progressivo indebolimento del

43 V. F.Lanchester,Pensare lo Stato.I giuspubblicisti italiani nell’Italia unitaria.Roma,Laterza,2004,passim.

44 Nell’Ottobre del 1930 la celebrazione del XX settembre venne sostituita con la ricorrenza della

Conciliazione (11 febbraio) .

45 Gentile Le origini dell'ideologia fascista (1918-1925), Laterza, 197; La via italiana al totalitarismo. Il

partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, 1995; Il culto del Littorio. La sacralizzazione della politica

nell'Italia fascista , Laterza 1993; La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Laterza, 2006.

compromesso diarchico tra monarchia e fascismo, che - proprio alla fine degli anni Trenta -

stava per collassare.

8.- La Costituzione repubblicana e la memoria divisa

Alle spalle del 25 luglio, dell’armistizio e del Regno del Sud,il decreto legge lgt. n. 151 del

giugno 1944 costituì una vera e propria costituzione transitoria dell’ordinamento. Lo Statuto

cessò di avere vigore con questo atto che interruppe lo stesso rapporto tra monarca e governo,

il quale non gli giurò più fedeltà. Si potrebbe sostenere d’altra parte che questo atto formale

era stato preceduto in maniera sostanziale dalla pratica abdicazione del Sovrano il 5 giugno di

quell’anno, in applicazione del compromesso istituzionale con i partiti del CLN, e dalla

nomina del principe di Piemonte come luogotenente del Regno e non più come luogotenente

del Re.

I lavori della Costituente che furono preceduti dal referendum istituzionale e dalle elezioni

della stessa evidenziano la spaccatura tra le forze politiche esistenti nel paese, ma anche la

tendenza compromissoria per la costruzione di una casa comune che sono verificabili nella

cosiddetta fase di elaborazione 1946-47. Essa è stata la più studiata per le sue implicazioni

interne ed esterne. In occasione del XXX anniversario si è teso ad esaltare il momento interno

del compromesso, evidenziando l’accordo che aveva portato all’approvazione del teso

costituzionale da parte delle maggiori formazioni partitiche di massa. Tra il 1948-1954 venne,

invece, operato il tentativo di utilizzare lo strumento elettorale per stabilizzare le maggioranze

attorno al partito pilone (la DC), ma anche in funzione di una modifica intensa della

Costituzione.

Dopo il fallimento della manovra elettorale del 1953 la prospettiva alternativa fu quella di

utilizzare la Costituzione e la sua attuazione al fine dell’integrazione di tutte le forze

all’interno del sistema (prima il PSI, rinsecchimento del PCI; applicazione del principio

maggioritario-minoritario per superare la conventio ad excludendum). Il primo decennale

della liberazione venne significativamente vissuto da alcuni come secondo Risorgimento, da

altri come rivoluzione tradita, da altri ancora come rivoluzione mancata.

9- Il centenario

Tuttavia con il 1955 si riaprì la strada del colloquio istituzionale anche grazie al disgelo

internazione. In un simile clima che tiene conto della crisi del centrismo, della progressiva

applicazione della Costituzione e della contraddittoria apertura verso il centro sinistra si

collocarono le celebrazioni del centenario nel 1961, che dimostrarono una maggiore

consapevolezza del senso di appartenenza, dimostratosi diviso in occasione del primo

decennale della Liberazione.

In misura maggiore o minore il sistema era agli inizi degli anni Sessanta strutturato da grandi

partiti nazionali che si richiamavano al Risorgimento (il Pci basava la sua ideologia

sull’interpretazione della storia d’Italia e sull’intervento delle masse popolari), che avevano

contribuito a redigere la Costituzione repubblicana e che negli anni 50 erano risaliti dal

baratro della guerra fino a raggiungere l’oscar per la lira.

Dopo lo sbandamento Tambroni con la rottura della convenzione che escludeva in partiti non

dell’arco costituzionale dal Governo, in continuità con il disgelo costituzionale dal fallimento

della cosiddetta legge truffa, quei soggetti pensarono di poter sviluppare l’ordinamento

nell’alveo dei valori e dei principi della Costituzione Repubblicana. Cinquanta anni fa le

celebrazioni si fecero in Italia, ma anche a Washington. Sulla prima pagine de la Stampa del

18 marzo possono, infatti, trovarsi tre significativi articoli che danno l’immagine del periodo .

Il primo è un fondo di Lugi Salvatorelli che sostenne come “l’'ideale politico unitario [fosse]

già perfetto nel 1799” cosicché “le tre linee dell'indipendenza, libertà, unità”-svoltesi

“smussamente durante la Restaurazione” - si sarebbero intrecciate nel tentativo (fallito) di

unità confederale nel 1848, per poi stringersi insieme portando “alla fondazione dello Stato

unitario italiano”.

Impostazione invero orientata quella di Salvatorelli, tipicamente azionista, che deve essere

appoggiata alla cronaca della celebrazione organizzata, non a Roma ma a Washington,

dall’ambasciatore Manlio Brosio alla presenza del presidente Kennedy. Il ricordo va a

D’Azeglio e al fatto che nelle Assemblee parlamentari 1861 si era fatto riferimento alle

potenze europee (Gran Bretagna,Francia e Prussia) e nel 1961 la contrapposizione vedeva la

celebrazione negli Usa.

Il terzo articolo presente sulla prima pagina de “La Stampa” riportava, invece, l’aspro

dibattito interno al Psi sull’apertura alla DC per l’ipotesi di un’alleanza di centro-sinistra, con

l’opposizione intensa di Vecchietti e Basso all’autonomismo nenniano. I prodromi della crisi

stanno proprio qui. Una parte del Psi, quella che esalta l’URSS e la sua capacità propulsiva, si

accompagna alla posizione del Pci che teme di essere emarginato, mentre la classe dirigente e

il ceto politico moderato temono i risultati dell’apertura a sinistra46. Il fallimento dell’ipotesi

riformista alla fine degli anni Sessanta introdusse, con il completamento della costruzione

costituzionale su basi consociative, alla lunga estenuante transizione che dal 1969 non porta

46 V. sul clima v. ora M. Franzinelli, Il piano Solo: i servizi segreti, il centro-sinistra e il golpe del 1964,

Milano, Mondadori, 2010.

all’integrazione del maggior partito di opposizione, ma all’involuzione del sistema, sino alla

crisi del regime partitocratico senza controlli del 1992-93.

10- La transizione infinita tra crisi di regime e crisi di riallineamento

Il fallimento dell’opzione di centro-sinistra e la sostanziale applicazione del modello

costituzionale portarono alla stagione degli equilibri più avanzati e alla fase definita

consociativa (1970-1978) con l’approvazione dei nuovi regolamenti parlamentari, degli statuti

regionali, ma anche di normative fortemente incisive sul piano sociale (legge sul divorzio da

cui deriva anche l’applicazione del referendum, Statuto dei lavoratori), nell’ambito della

maggiore redistribuzione del reddito che sia mai esistita in Italia (favorita anche

dall’inflazione derivante dalla crisi internazionale:dollaro; oil crisis).

Dopo l’esperienza dei governi di unità nazionale e lo scoppio del terrorismo, la mancata

inserzione ufficiale del Pci all’interno del Governo portò, in correlazione con il modificarsi

della situazione internazionale (Thatcher, Reagan), al ritorno ai governi di coalizione di

centro-sinistra (ma vi sono anche episodi di centro-destra), mentre il problema istituzionale

assurse come punto centrale del dibattito. Non si fecero le grandi riforme, ma se ne discusse

(v. la Commissione Bozzi), si riformarono i regolamenti parlamentari e si approvò la legge

sulla Presidenza del Consiglio.

Ma intanto la crisi stava covando a livello internazionale, europeo ed interno. Ne venne fuori,

sulla base di Tangentopoli, ma anche dei referendum abrogativi la destrutturazione del regime

partitocratico non regolato che aveva caratterizzato il cinquantennio precedente. Attenzione

quanto parlo di partitocrazia mi riferisco alla degenerazione dello Stato dei partiti regolato,

che per una serie di ragioni derivanti dalla natura delle forze politiche presenti non aveva

potuto neppure essere impostato.

Siamo all’oggi, con il mancato riallineamento del sistema partitico e con il fallimento

dell’ipotesi di Grande riforma portata avanti dalla Commissione bicamerale D’Alema (1997).

Le istituzioni sono divenute oggetto di un contrasto che vede tutti dichiarare la necessità

dell’innovazione , ma anche la presenza del sospetto reciproco.

Le riforme Bassanini a Costituzione vigente (1997) e poi la revisione del Titolo V della Cost.

(2001) hanno avuto giustificazioni sistemiche, ma sono anche state sintomi della paura

reciproca dei partners. La riforma costituzionale per la prima volta stata operata a

maggioranza con effetti boomerang per quanto riguarda la riforma dell’intera parte seconda

della Cost. (2005) e dello stesso sistema elettorale (2005).

La reiezione da parte del Corpo elettorale della riforma costituzionale del 2005 sembra avere

bloccato il processo innovatore. I partners sono intervenuti in maniera consensuale nel ridurre

i soggetti parlamentari (2008) ed hanno modificato in senso selettivo il meccanismo elettorale

per il Parlamento europeo, ma la scarsa coesione delle nuove formazioni di partito ha

comportato una moltiplicazione dei gruppi parlamentari.

In questa situazione di perenne incertezza ed attesa tutti i riti e i simboli unitari vennero

progressivamente contestati. Negli anni Settanta la festa della Repubblica e il 4 novembre

furono derubricati, mentre il 25 aprile venne contestato (non soltanto dalla destra neofascista)

come rappresentativo non tanto della conclusione del II Risorgimento, come veniva proposto

dai governi centristi nel primo decennio, ma come guerra civile e conflitto di classe, difficili

da conciliare con la difesa del sistema negli anni della lotta contro il terrorismo.

Nel 2001, in connessione con la vittoria del polo moderato composto da Forza Italia, Alleanza

Nazionale e Lega, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, di origini azioniste,

ha proposto un’azione forte sui simboli dell’Unità nazionale, che ha trovato sponde

trasversali. Ma i fenomeni di devoluzione, integrazione e globalizzazione hanno trovato

davanti a sé una classe dirigente ed un ceto politico frammentato ed incapace di superare la

crisi di riallineamento post-1993 per cui le tensioni sull’identità nazionale e sui simboli

politici dell’ordinamento non scema, ma anzi cova come infiammazione cronica.

11- Conclusioni

La tesi che ho voluto sostenere in queste pagine è che nel nostro ordinamento la capacità

egemonica della classe dirigente e del ceto politico di recuperare un sentimento comune di

appartenenza come elemento essenziale della formula politica si è abbassata

progressivamente e che oggi è, apparentemente, giunta a livelli minimi. Il tema simbolico

delle celebrazioni dell’Unità d’Italia costituisce di questo una cartina di Tornasole. Nel 1861

gli atti dei protagonisti furono nonostante le difficoltà del processo unitario conseguenti:

esistevano profonde fratture, ma le élites risorgimentali si mossero coerentemente rispetto ai

valori dell’ordinamento, rappresentati dal compromesso che aveva una faccia moderata

perché il processo condotto da Casa Savoia rassicurava sulla continuità e, nello stesso tempo,

era rivoluzionario perché scardinava la legittimità tradizionale delle altre dinastie. Le leggi nn.

1 e 7 del nuovo Regno certificarono, come si è visto, una simile situazione in maniera

plastica. Dopo vent’anni nel 1881 l’ampliamento del suffragio mise in pericolo quel

compromesso instabile e la crisi del parlamentarismo rappresentò le contraddizioni del

sistema, portando alle tensioni plebiscitario- autoritarie di tipo crispino, ma anche alle risposte

ideologiche di Orlando e di Mosca. L’alternativa teorica tra classe politica e teoria della

“personalità dello Stato” costituì in modo differente il tentativo di stabilizzare il sistema sul

lato dello Stato liberale oligarchico.

Nel 1911 le tensioni interne - al di là delle celebrazioni - registrarono la tendenza al

superamento - archiviazione del compromesso del 1861 sulla base dell’inclusione

rappresentata dal suffragio universale. Estensione del suffragio e tentativi di inglobare i nuovi

protagonisti costituirono il tentativo di formare un nuovo blocco egemonico. Le aperture ai

socialisti riformisti (Bissolati) e il patto Gentiloni (1913) costituirono il difficile tentativo di

formare un nuovo blocco , che si scontrò con la guerra mondiale e la consapevole esigenza di

parte della borghesia italiana di applicare schemi social darwinisti (Rocco), che trovarono

espressione organica nel fascismo .

Dopo la II guerra mondiale lo Stato dei partiti di massa risultò costitutivo della stessa società

civile e pervasivo delle istituzioni. Nonostante le divisioni su Costituzione e antifascismo si

riuscì a trovare un punto di convergenza, che - però- venne indebolito oltre ogni modo dalla

transizione post-1969, fino a sovrapporre trasformazioni comuni a tutti gli ordinamenti

europei con specifici elementi di crisi nazionale.

Ciò che è stato narrato all’inizio di queste pagine evidenzia le difficoltà e le debolezze della

situazione e dei soggetti protagonisti,con ricadute imbarazzanti sulla stessa tenuta

istituzionale. Nella sua Storia d’Italia 47 Guido Carocci sostenne che in Italia mancava ogni

capacità egemonica e che i gruppi contrapposti non riuscivano a prevalere. Una simile

descrizione a circa trentacinque anni di distanza può essere ancora sottoscritta ed evidenzia la

sostanziale incapacità di indirizzare società e istituzioni verso il rinnovamento incisivo sia

all’interno che all’esterno del quadro costituzionale.

A Monteveglio nel 1994 Giuseppe Dossetti, preoccupato per lo sgretolarsi dei soggetti

politicamente rilevanti posti a base del testo costituzionale, aveva suggerito di esternalizzare i

valori della stessa48. In questa prospettiva si sono mossi anche costituzionalisti come

Leopoldo Elia e Valerio Onida cercando di radicare l’ordinamento democratico e il

compromesso valoriale della Costituzione in Europa e nel processo di costituzionalizzazione

del diritto internazionale. Simili tentativi rappresentano la consapevolezza della gravità di una

situazione di degrado morale e istituzionale che ha pochi precedenti. I segnali che vengono

dal sistema politico-costituzionale e dalla stessa società civile continuano ad essere non

47 V. G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1975.

48 V. G. Dossetti, La Costituzione italiana. Il valore di un patrimonio, in Aggiornamenti sociali, n. 11

(novembre) 1994, pp. 697 ss.

incoraggianti, ma coerenti con lo sfarinamento istituzionale, economico e sociale, che fa

paventare ad alcuni il timore della crisi societaria.

L’analisi effettuata evidenzia, però, che molte di queste difficoltà non sono fondate solo su

elementi reali sebbene su contrapposizioni personali o di gruppi ed ingigantite dai canali

mediatici. La migliore medicina sta, forse, nella consapevolezza dei pericoli che tutti

rischiano di correre se persiste una tensione autodistruttiva. Lo Stato nazionale in ambito

europeo è, infatti, divenuto sempre più parte di una costruzione di integrazione multilivello.

Vi possono essere ordinamenti che perdono la capacità di stare assieme disgregati da forze

centrifughe, ma è opportuno sapere che una simile debolezza si paga in termini di sviluppo e

di competitività, con il rischio di essere emarginati dallo stesso contesto europeo, che oramai

rappresenta l’unico argine allo tsunami della globalizzazione per l’area in questione.

È per questo che, di fronte ad una bassa consapevolezza dell’identità comune, può risultare

errato accentuare i contrasti come si fa in un contenitore televisivo. È necessario,invece,

individuare punti semplici ed essenziali di convergenza per una progressiva e definitiva

normalizzazione dell’ordinamento. Il caso tedesco insegna che è possibile farlo con successo,

se si vuole. La Bildungspolitik non si improvvisa e neanche la classe dirigente e il ceto

politico, che - con ogni probabilità - continuerà a litigare fino al prossimo anniversario, perché

l’unità nazionale nel 2011 non è solo un simbolo, per cui si deve anche sacrificare la vita

(come molti hanno fatto in questi 150 anni), ma anche un obbiettivo interesse di coloro che di

essa fanno parte.

 

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