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ELETTORATO PASSIVO: QUALI I LIMITI? RICOSTRUZIONE E CRITICA DI UN DIRITTO IN EVOLUZIONE(A PROPOSITO DALLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 283/2010) di Claudia Marchese

 

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(Laureata in Diritto pubblico comparato,

Università Suor Orsola Benincasa)

Sommario: 1.Natura giuridica e limiti dell’elettorato – 2.(segue): la ratio come criterio distintivo tra

incompatibilità ed ineleggibilità – 3.L’attività della Corte Costituzionale tra la discrezionalità legislativa ed un

parametro costituzionale indeterminato – 4.Il canone della ragionevolezza e le deroghe alla tendenziale

uniformità, sul territorio nazionale, della disciplina in materia di elettorato passivo – 5.Le elezioni quale fulcro

dell’intero sistema rappresentativo.

1.Natura giuridica e limiti dell’elettorato.

Il diritto di elettorato, inteso sia in senso attivo che passivo, rappresenta uno dei diritti

fondamentali dell’individuo ed, in quanto tale, qualsiasi sua restrizione è tenuta a rispettare

dei rigidi canoni, affinché essa si possa ritenere legittima e “ragionevole”1. Tale principio

1 In questo senso, ex multis, L. ELIA, Incertezza di concetti e di pronunzie in tema di ineleggibilità nella

giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 1972, 1046; C. DE CESARE,

Incompatibilità ed ineleggibilità parlamentari, in Enc. giur., Roma, 1989, 1.

Minoritaria appare la tesi di S. FURLANI, Elettorato passivo, in Noviss. Digesto it., VI, 453, secondo cui

non esiste un diritto elettorale passivo corrispondente al diritto elettorale attivo, ma solo la capacità

giuridica di essere eletto, per cui al cittadino è riconosciuta la titolarità individuale del diritto al mero

accesso alla carica elettiva. L’eleggibilità non può pertanto configurarsi quale diritto soggettivo

emerge in maniera evidente dall’esame della sentenza in commento, la quale offre

innumerevoli spunti per esaminare gli istituti dell’ineleggibilità e dell’incompatibilità, con

particolare attenzione alla ratio sottesa agli stessi ed alla misura in cui possa dirsi legittima la

limitazione del diritto di elettorato.

Nel giudizio conclusosi con la sent. 283/2010 la Corte Costituzionale è stata chiamata a

pronunciarsi sulla presunta illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera r) della

legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 7 agosto 2007, n. 20, per contrasto con gli artt. 3

e 51 della Costituzione, nella parte in cui la norma in questione commina “l’ineleggibilità nei

confronti del legale rappresentante e dei direttori della struttura sanitaria o socio-sanitaria

privata che intrattengano rapporti contrattuali con l’Azienda regionale USL della Valle

d’Aosta, anziché stabilire una causa di incompatibilità”. Tale è il quesito che il giudice a quo,

nel caso di specie la Corte di Cassazione, ha sollevato innanzi alla Corte Costituzione.

La Consulta ha ritenuto quindi opportuno, per dirimere la questione, ricostruire la nozione di

ineleggibilità e di incompatibilità. Di conseguenza, la prima è stata definita come “la

situazione idonea a provocare effetti distorsivi nella parità di condizioni tra i vari candidati,

nel senso che il soggetto non eleggibile può variamente influenzare a suo favore il corpo

dell’individuo, ma solo quale capacità giuridica di presentare la propria candidatura elettorale”.

Condivide il medesimo orientamento G. FERRARI, Elezioni (teoria generale), in Enc. dir., Milano, 1987,

XIV, 639, il quale ritiene che non sia possibile parlare genericamente di un diritto di elettorato, non

essendo né sovrapponibili né assimilabili le situazioni giuridiche discendenti dall’elettorato attivo e da

quello passivo.

Infatti, l’elettorato attivo si configurerebbe, allo stesso tempo, come una potestà con riferimento al corpo

elettorale; un diritto soggettivo con riguardo ai singoli elettori; una funzione, ponendo attenzione allo

svolgimento della potestà.

Al contrario, l’elettorato passivo è delineato dall’Autore come capacità giuridica di accedere alla carica

elettiva, suscettibile di assumere la natura di diritto soggettivo solo una volta individuato il risultato

dell’elezione. Esclusivamente in questo momento il candidato potrebbe vantare un diritto di elettorato

passivo, inteso come diritto dell’eletto ad ottenere l’investitura.

Tale tesi non appare, però, condivisibile in considerazione della confusione che determina tra capacità

elettorale passiva ed elettorato passivo, nonché dell’interpretazione eccessivamente riduttiva dell’ambito

dell’elettorato passivo.

In giurisprudenza, riconducono il diritto di elettorato passivo nella sfera dei diritti inviolabili sanciti

dall’art. 2 Cost.: cfr. Corte Cost., 26 marzo 1969, n. 46, in Giur. cost., 1969, I, 547; Corte Cost., 2

febbraio 1990, n. 53, ivi, 1990, I, 215; Corte Cost., 22 dicembre 1989, n.571, ibidem, 1989, II, 2635.

Singolare, invece, la tesi sostenuta dalla commissione europea dei diritti umani, la quale, chiamata a

pronunciarsi sulla natura del diritto di elettorato inteso in senso lato e comprensivo del diritto a

partecipare ad elezioni regolari, ha ritenuto che si trattasse di un diritto politico per il quale non potessero

essere apprestate le tutele dell’art. 6 della CEDU. Tale pronuncia della commissione sembra trovare la

propria giustificazione nell’intenzione dei redattori della convenzione di limitare le garanzie dell’art. 6

alle sole situazioni di diritto privato, escludendo invece quelle di diritto pubblico. Alla luce di tale

pronuncia sarebbe, quindi, esclusa la natura di civil right del diritto di elettorato e con ciò sarebbe esclusa

la possibilità di un controllo del sistema stabilito in Italia per il contenzioso elettorale politico. Per un

approfondimento, v. A. PERTICI, Spunti per una migliore regolamentazione ed una più completa

trasparenza delle cause di ineleggibilità e delle situazioni di conflitto di interessi, in Foro it., 1998, III,

310.

elettorale”, mentre la seconda è stata individuata quale “una situazione che non ha riflessi

nella parità di condizioni tra i candidati, ma che attiene alla concreta possibilità di esercitare

pienamente le funzioni connesse alla carica anche per motivi concernenti il conflitto di

interessi nel quale il soggetto verrebbe a trovarsi se fosse eletto”. Con tali laconiche

definizioni la Corte ha confermato, ancora una volta, quella che è ormai la consolidata

distinzione tra i due istituti operata dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritaria;

tuttavia, appare interessante ricostruire l’evoluzione nel tempo di questi due concetti giuridici

al fine di comprendere come qualsiasi definizione data in materia sia tutt’altro che granitica,

essendo invece destinata ad evolversi congiuntamente alle modifiche del sistema

rappresentativo ed alle forme di governo.

Per lungo tempo i vocaboli ineleggibilità ed incompatibilità sono stati usati promiscuamente;

tale confusione emerge in maniera evidente laddove dagli atti dell’Assemblea Costituente è

possibile leggere quanto sostenuto dal Mortati stesso, secondo cui “la parola ineleggibilità è

impiegata per esprimere due diverse situazioni: una discendente da indegnità, per condanne,

un’altra collegata al possesso di date cariche. Alcune di queste cariche sono ritenute

preclusive della possibilità di presentazione della candidatura nelle elezioni politiche, altre

solo nell’esercizio della funzione di deputato. Le ultime danno vita alle incompatibilità in

senso stretto. Bisognerebbe giungere ad includere nel concetto di incompatibilità anche le

ineleggibilità del secondo tipo”2.

Di tale disorientamento è possibile rinvenire traccia anche successivamente, laddove dagli

Atti della Camera, relativi al periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della

Costituzione, è possibile evincere che “l’ineleggibilità può comportare e comporta, talvolta,

l’inconciliabilità che è una condizione assoluta e radicale di incompatibilità”.

In tale confuso e caotico contesto la Corte Costituzionale ha assunto un ruolo fondamentale

nel ricostruire, in primis, il rapporto tra l’elettorato passivo e le sue limitazioni; oltre che nel

sistematizzare i concetti di ineleggibilità ed incompatibilità, che per tradizione storica e

giuridica sono stati spesso affrontati e trattati congiuntamente, quasi che tra i due sussista un

nesso di inscindibilità, sebbene la Costituzione, agli artt. 65, 66 e 112, li abbia sempre

richiamati autonomamente e separatamente3.

2 V. ATTI ASSEMBLEA COSTITUENTE, Commissione per la Costituzione, II Sottocommissione, Discussione,

18 settembre 1946, 1032, richiamati anche da G. BUONOMO, La trasformazione delle cause di

ineleggibilità sopravvenuta in cause di incompatibilità, in Nuova rass., 2004, 2632.

3 In questo senso, l’Onorevole Ruini, quale Presidente della Commissione per la Costituzione, affermava:

ineleggibilità ed incompatibilità è una formula inscindibile e classica che si completa e suona bene nelle

costituzioni” (v. Atti dell’Assemblea Costituente, 10 ottobre 1947, 1097).

Da un rapido excursus della giurisprudenza della Corte è possibile evincere come la stessa,

sin dal principio degli anni Sessanta, abbia costruito il rapporto tra diritto di elettorato passivo

e cause di ineleggibilità ed incompatibilità come un rapporto tra regola ed eccezione4. Tale

elaborazione giuridica rinviene il proprio fondamento nell’art. 51 Cost., laddove si prevede il

diritto di tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso di accedere agli uffici pubblici ed alle

cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge5.

Concordi anche V. DI CIOLO, Incompatibilità ed ineleggibilità parlamentari, in Enc. dir., XXI, Milano,

1971, 41; A. POLICE, Ancora una pronuncia in tema di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche

elettive degli enti locali, in Giur. it., 1994, 1, 527; G. FERRARI, Elezioni (teoria generale), cit., 645,

secondo il quale, sebbene incompatibilità ed ineleggibilità siano spesso state trattate congiuntamente, esse

appartengono a campi diversi. Le ineleggibilità si collocherebbero, infatti, nello stato patologico della

materia elettorale. Al contrario, le incompatibilità non sarebbero inerenti ad una patologia dell’atto

elettivo, ma ad una inconciliabilità tra due o più cariche. L’incompatibilità implicherebbe, dunque, un

concetto di relazione tra due o più termini, assente nell’ipotesi di ineleggibilità.

Più recentemente, A. BIANCO, I limiti dell’elettorato passivo nella giurisprudenza costituzionale, in Giur.

cost., 2000, II, 1967, secondo cui gli “innegabili elementi di omogeneità teleologica tra i due istituti

suggeriscono una differenza solo quantitativa, relativamente alla gravità della sanzione, tra cause di

ineleggibilità ed incompatibilità”. Tale affermazione appare non condivisibile in considerazione del fatto

che, sebbene sia innegabile il nesso funzionale tra i due istituti, la stessa Corte Costituzionale e la dottrina

maggioritaria hanno affermato con insistenza la differenza tra incompatibilità ed ineleggibilità, come si

avrà modo di osservare nel prosieguo del presente studio.

4 In dottrina, vi è chi rileva che la Corte costituzionale, prima delle sent. n. 46/1969 e n. 166/1972, aveva

evitato di esprimersi in materia di diritto elettorale in quanto “bloccata da un certo timore reverenziale

per la politicità della materia, assai evidente anche in tema di elezioni amministrative” (così, L. ELIA,

Incertezza di concetti, cit., 1046).

Ad oggi, il rapporto di regola ed eccezione delineato con queste prime due pronunce appare condiviso

all’unanimità ed è riconfermato dalla Consulta anche nella pronuncia in esame laddove si afferma che

costituisce principio costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale quello secondo cui

l’eleggibilità costituisce la regola, mentre l’ineleggibilità rappresenta una eccezione; sicché le norme che

disciplinano quest’ultima sono di stretta interpretazione”.

5 Inoltre, l’art. 51 Cost. prevede che, affinché tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possano accedere

alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, la Repubblica promuova con appositi provvedimenti le

pari opportunità tra uomini e donne. Tale disposizione appare così formulata a seguito della novella

apportata dalla l. cost. 1/2003, che ha inteso dare copertura costituzionale ai provvedimenti che si

intenderà adottare in tema di cd. democrazia paritaria.

Si tratta di una norma con portata precettiva e non meramente programmatica, tesa a risolvere la delicata

problematica della presenza delle donne negli organi collegiali elettivi, nonché nelle liste elettorali. La

modifica dell’art. 51 Cost. appare come il punto di arrivo di una lunga serie di interventi legislativi; il

primo dei quali si è avuto con la l. 125/1991 avente ad oggetto “Azioni positive per la realizzazione della

parità uomo-donna nel lavoro”. Sulla base di tale legge sono stati adottati una serie di provvedimenti

normativi che tutelavano la presenza della componente femminile negli organi elettivi stabilendo delle

quote di partecipazione all’interno delle liste elettorali. Sulla questione è poi intervenuta la Corte

Costituzionale, con sent. 422/1995, stabilendo l’illegittimità costituzionale della normativa che pone

limiti di “quote-rosa” per contrasto con il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost.

Infatti, in questo caso il principio di eguaglianza si pone, in primis, come regola di irrilevanza giuridica

del sesso, regola ribadita dall’art. 51 Cost. In secondo luogo, l’appartenenza al genere maschile o

femminile non può mai essere previsto come requisito di eleggibilità o di candidabilità. Infine, va

precisato che l’art. 51 Cost. pone un principio di assoluta parità, cosicché qualsiasi differenziazione in

ragione del sesso costituisce oggettivamente una discriminazione.

A seguito di tale pronuncia della Corte, il legislatore è intervento proprio sull’art. 51 Cost. al fine di

garantire l’impegno da parte della Repubblica a rendere eguale l’accesso agli uffici pubblici per i cittadini

di entrambi i sessi. L’attuazione di tale principio è rimessa anche alle regioni ed agli enti locali. Questi

ultimi hanno fornito parziale attuazione al precetto costituzionale mediante l’art. 6 del D.Lgs. 267/2000,

L’obiettivo, dunque, del Costituente è stato quello di realizzare l’effettiva partecipazione di

tutti i lavoratori all’organizzazione politica della Repubblica, concretizzando il principio di

eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, Cost6. Alla luce di tale concezione, le

limitazioni al diritto di elettorato passivo sono legittime nei termini in cui siano indispensabili

alla tutela di altro diritto costituzionalmente garantito. Si pone, quindi, quello che la Corte

Costituzionale stessa individua come un problema di bilanciamento tra il diritto di elettorato e

gli altri diritti che rinvengono il proprio fondamento in Costituzione7.

2. (segue): la ratio come criterio distintivo tra incompatibilità ed ineleggibilità.

L’art. 51 Cost. non può costituire il fondamento di una protezione illimitata del diritto del

cittadino ad essere eletto, anche tale situazione giuridica è destinata ad incontrare dei limiti: il

punto è, allora, quello di distinguere le differenti limitazioni che si possono rinvenire. E’

necessario, infatti, comprendere quando sia legittimo comprimere l’elettorato passivo

mediante le differenti ipotesi di ineleggibilità ed incompatibilità. Nell’effettuare tale

ricostruzione un criterio che può essere di aiuto è quello di analizzare la ratio di simili

situazioni giuridiche.

In relazione a questo ultimo aspetto, va rilevato come la Corte Costituzionale non abbia, sin

da subito, delineato con pienezza la differenza tra i diversi istituti della ineleggibilità e della

incompatibilità.

laddove si prevede che gli statuti provinciali e comunali stabiliscano disposizioni volte a promuove la

presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali.

Per un approfondimento, v. E. MAGGIORA, Il rispetto del principio delle pari opportunità

nell’ordinamento elettorale, in Stato civ. it., 2009, XI, 850.

6 La Corte Costituzionale ha spesso ricordato che la regola generale dettata dalla Costituzione in materia

di elettorato passivo è rappresentata dalla più ampia apertura a tutti i cittadini (v. Corte cost., 30

novembre 1989, n. 510, in Giur. cost., 1989, I, 2367, secondo cui “ le limitazioni poste dalla legge

ordinaria, avendo carattere di aperta eccezione ad un principio costituzionale, non sono consentite se

non trovano precisa giustificazione in criteri di razionalità”).

7 In dottrina, V. DI CIOLO, Incompatibilità ed ineleggibilità parlamentari, cit., 44, il quale ritiene che la

discrezionalità del legislatore nel limitare l’eleggibilità debba arrestarsi nel momento in cui essa possa

collidere con il principio di eguaglianza ovvero non sia posta in funzione del perseguimento di fini

costituzionali.

Più recentemente, A. BIANCO, I limiti all’elettorato passivo nella giurisprudenza costituzionale, cit.,

1959, secondo il quale bisogna valutare volta per volta se il bilanciamento tra diritto di elettorato passivo

e gli interessi costituzionalmente protetti sia ispirato a criteri di ragionevolezza.

Va, in questa sede, rilevato che la giurisprudenza costituzionale nel vagliare la ragionevolezza del

bilanciamento operato dal legislatore ricorre all’utilizzo del metodo induttivo, verificando caso per caso

quale sia la ratio della limitazione dell’eleggibilità (cfr., Corte cost., 6 maggio 1994, n. 141, cit., 1395),

fermo restando che la causa di ineleggibilità deve trovare nel sistema un fondamento giustificativo e

criteri univoci che permettano di individuarne la portata con la desiderabile chiarezza (così, Corte cost.,

166/1972). Concorde anche la giurisprudenza di merito; v. Trib. Larino, 25 luglio 2006, n. 316, in Giur.

mer., 2000, 2735, con nota di N. MONFREDA, La legittimità dei limiti al diritto di elettorato passivo ex

art. 51 D.Lgs. 18 agosto 2000, n.267, ivi, 2736.

Alla confusione sorta in sede parlamentare e di Assemblea Costituente è, infatti, seguito un

periodo di incertezza dei giudici della Consulta, che hanno più volte sovrapposto queste due

figure, invece di marcarne i confini8. Negli anni Sessanta è possibile imbattersi ancora in

pronunce della Consulta in cui i giudici usano indifferentemente i termini ineleggibilità ed

incompatibilità, ovvero ne confondono la ratio9. Sembrerebbe quasi che i giudici della Corte

si siano preoccupati, soprattutto in questa prima fase, di affermare con forza la non

comprimibilità dell’elettorato passivo, piuttosto che di operarne una tutela distinguendone in

maniera chiara le figure limitative. A conferma di tale supposizione, si pone la constatazione

che la svolta nella ricostruzione di questi due istituti si è avuta, in maniera netta, solo con la l.

23 aprile 1981, n. 154 in materia di enti locali.

Con tale disciplina normativa il legislatore ha dimostrato di adeguarsi a quelle che erano state

le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale sino ad allora, in particolare merita di essere

segnalata la restrizione delle sfera di operatività della ineleggibilità in favore

dell’incompatibilità. Il legislatore sembra, dunque, aver recepito le istanze dei giudici della

Consulta nel considerare il diritto di elettorato attivo e passivo come un diritto fondamentale

suscettibile di essere limitato solo in casi estremi10.

Parallelamente ad una simile scelta del legislatore, la Corte Costituzionale è intervenuta

delineando, una volta per tutte, con certezza i confini dei due istituti; individuando la ratio

dell’ineleggibilità nella volontà di prevenire indebite influenze sulla volontà degli elettori,

nonché identificando il fine ultimo dell’incompatibilità nell’eliminazione dei conflitti di

interessi ovvero degli elementi suscettibili di perturbare l’esercizio della carica11.

8 In dottrina, V. DI CIOLO, Incompatibilità ed ineleggibilità parlamentari, cit., 44; A.C. SORRENTINO, Le

cause di ineleggibilità ed incompatibilità nelle elezioni amministrative, in Giur. mer., 2008, fasc. 3, 888,

la quale, evidenziando le incertezze del legislatore nel distinguere le varie figure limitative dell’elettorato

passivo, suggerisce di guardare alle conseguenze giuridiche, al fine di pervenire ad una corretta

distinzione; in quanto l’ineleggibilità rende insanabilmente nulla l’elezione, mentre l’incompatibilità non

influisce sulla validità delle operazioni elettorali, ma impone al candidato di scegliere tra il mandato

elettivo e l’altra carica incompatibile.

9 Cfr., Corte cost., 11 luglio 1961, n. 42, in Giur. cost., 1961, 965; Corte cost., 26 marzo 1969, n. 46, cit.,

547; nonché Corte cost. 38/1971 in cui la ratio delle cause di ineleggibilità è individuata nella tutela, da

un lato, della libera e genuina espressione del voto popolare e, dall’altro, dell’oggettivo ed imparziale

esercizio delle funzioni demandate agli amministratori locali.

10 Fermo restando che la Corte Costituzionale, nell’affermare un’interpretazione restrittiva delle

limitazioni al diritto di elettorato passivo, non ha mai inteso annientare le ipotesi di ineleggibilità. Quando

essa si è pronunciata sulla disciplina legislativa siciliana, basata quasi esclusivamente sul sistema delle

incompatibilità, ha sancito con la sent. n. 84/1994 che la valorizzazione dell’art. 51 Cost. non può portare

ad una totale eliminazione dell’istituto della ineleggibilità.

11 Ex multis, G. BUONOMO, La trasformazione delle cause di ineleggibilità, cit., 2636.

In dottrina, vi è poi chi individua il fondamento delle limitazioni del diritto di elettorato passivo nell’art.

48 Cost., per quanto concerne la genuinità della competizione elettorale e, quindi, le cause di

ineleggibilità e nell’art. 67 Cost. in relazione alla piena applicazione del principio di rappresentanza della

Esistono, però, in dottrina delle situazioni che rischiano di mettere in crisi una simile

distinzione. Il tipico problema che può verificarsi è quello di un motivo di ineleggibilità che

sopravvenga rispetto al momento dell’elezione.

Probabilmente, questo potrebbe essere considerato un “falso problema” laddove si utilizzasse

il criterio distintivo della ratio, giacché, se il motivo della causa di ineleggibilità prevista dal

legislatore è quello di evitare turbamenti nella formazione ed esplicazione della libera volontà

degli elettori, una volta che le consultazioni elettorali abbiano avuto luogo il sopraggiungere

di una causa di ineleggibilità dovrebbe essere irrilevante, in quanto inidonea a coartare

qualsivoglia volontà elettorale12. Tuttavia, così non è stato per lungo tempo13.

Più volte le Giunte per le elezioni si sono trovate a valutare le conseguenze del

sopraggiungere di una causa di ineleggibilità, decidendo di considerare la stessa come un

motivo di incompatibilità, anche in assenza di una esplicita normativa che disponesse in

questo senso14. Parte della dottrina si è, quindi, interrogata al fine di rinvenire un fondamento

giuridico ad una simile prassi. La conclusione a cui sono pervenuti gli studiosi è quella di

riscontrare un dato testuale nell’art. 66 Cost., là dove si prevede che “Ciascuna Camera

giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di

ineleggibilità ed incompatibilità”.

Stante questo dettato normativo, si pone il problema di conciliare l’art. 66 Cost. con le ratio

divergenti dell’incompatibilità ed ineleggibilità. Un problema ulteriore nel concepire la

trasformazione di un motivo di ineleggibilità in una causa di incompatibilità si concretizza,

poi, qualora si rifletta sulla necessità di prevedere in via legislativa ogni limitazione del diritto

di elettorato, sussistendo in materia una riserva di legge.

Nazione (così, A.C. SORRENTINO, Le cause di ineleggibilità ed incompatibilità nelle elezioni

amministrative, cit., 888).

12 In dottrina, L. ELIA, Incertezza di concetti e di pronunzie, cit., 1054, il quale rileva come l’istituto della

trasformazione delle cause di ineleggibilità sopravvenuta in ipotesi di incompatibilità esprima un

contrasto insanabile con la distinzione dei due istituti giuridici in virtù della loro ratio. L’Autore rileva la

tendenza tipicamente parlamentare a considerare l’incompatibilità come un minus rispetto

all’ineleggibilità, piuttosto che accettare la natura distinta delle due figure.

13 V. G. BUONOMO, La trasformazione, cit., 2639, il quale ricostruisce l’operatività della trasformazione

delle cause di ineleggibilità in cause di incompatibilità, sottolineando che laddove “le Camere sono state

chiamate a pronunciarsi sull’argomento, hanno sempre votato per l’incompatibilità tra il mandato di

parlamentare e la carica di Sindaco o Presidente di amministrazione provinciale”, con la sola eccezione

di una deliberazione della Giunta per le elezioni della Camera che, nel settembre 2004, ha deliberato in un

caso analogo la compatibilità della carica, sottolineando l’assenza di una norma esplicita in materia di

trasformazione.

14 Il Regolamento della Camera dei deputati si limita, infatti, a disciplinare la presentazione di dimissioni

dovute all’insorgere di una causa di ineleggibilità sopravvenuta, prevedendo che l’Assemblea prenda atto

delle dimissioni, senza procedere a votazioni. In dottrina, si veda sul punto F. PADERNO, Un nuovo

tornante giurisprudenziale in una classica questione: le dimissioni degli eletti, in Rass. parl., 2009, III,

942.

In dottrina diverse sono le tesi che sono state sostenute. I fautori della teoria della

trasformazione delle cause di ineleggibilità sopravvenuta in situazioni di incompatibilità

ritengono che tale conversione possa avvenire in virtù di un principio immanente al sistema,

che un tempo era espressamente sancito per i senatori dall’art. 25, comma 2, l. 6 febbraio

1948 n. 29 e che, oggi, trova riconoscimento nel D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Inoltre, questa

dottrina poggia sulla considerazione che qualora si ritenesse compatibile il contemporaneo

svolgimento di più incarichi si verificherebbe una lesione dello spirito delle norme in tema di

ineleggibilità, non consentendo un’adeguata rappresentanza.

Per contro, altra parte della dottrina non ritiene possibile sostenere alcuna forma di

conversione sulla base di una pluralità di ragioni. In primo luogo, perché laddove non sia

espressamente previsto non sarebbe possibile costruire nuovi casi di incompatibilità in via

analogica. In secondo luogo, la ratio delle norme che prevedono l’ineleggibilità è quella di

evitare indebite influenze del candidato sull’elettore, se però l’elezione è già avvenuta questa

finalità indubbiamente viene meno15.

Ipotesi diversa dalla trasformazione delle cause di ineleggibilità in situazioni di

incompatibilità è quella presa in considerazione dalla risalente ed ormai abbandonata teoria

dell’ineleggibilità sanabile. Secondo tale tesi, talune ineleggibilità, che potrebbero

pregiudicare il buon funzionamento dell’organo elettivo, possono essere rimosse nel breve

periodo di tempo intercorrente tra la proclamazione e la convalida16.

15 Diverse sono le situazioni patologiche, affini all’ipotesi della trasformazione delle cause di

ineleggibilità sopravvenuta, che si possono verificare. La prima ipotesi da considerare riguarda il caso di

un parlamentare o di un senatore che assuma, dopo l’elezione, una carica incompatibile. In questo caso, la

Camera di appartenenza invita l’interessato ad optare, entro un breve termine, tra le due cariche

incompatibili. La seconda ipotesi è quella del parlamentare che abbia perso la capacità elettorale; in tale

situazione, la Camera pronuncia la decadenza dal mandato parlamentare.

La terza e più interessante ipotesi riguarda i senatori a vita che vengano a trovarsi in una situazione di

incompatibilità. La considerazione dalla quale occorre partire è quella secondo cui tutti i senatori,

indipendentemente dalle modalità di assunzione della carica, godono dello stesso status ed hanno gli

stessi doveri, anche in tema di incompatibilità. Si verifica, però, una diversa operatività delle cause di

incompatibilità per quanto riguarda i senatori a vita e quelli elettivi. I primi, infatti, qualora assumano una

carica incompatibile con quella di senatore restano sospesi dall’esercizio di funzioni senatoriali per tutto il

periodo in cui ricoprono l’altra carica, ma conservano la titolarità dell’ufficio di senatore. Al contrario, i

senatori elettivi sono invitati dalla Camera di appartenenza ad optare per una delle due cariche e se optano

per la carica incompatibile con il mandato parlamentare decadono irrimediabilmente dallo stesso,

perdendo sia la titolarità che l’esercizio delle funzioni senatoriali. Ulteriori ipotesi sono ricostruite da V.

DI CIOLO, Incompatibilità ed ineleggibilità parlamentari, cit., 60.

16 Questa è la tesi avanzata da G. DE SANCTIS MANGELLI, Una svolta decisiva nella giurisprudenza della

Corte Costituzionale in tema di ineleggibilità, in Giur. it., 1973, I, 347.

Contra la dottrina maggioritaria, v. L. ELIA, Incertezza di concetti e di pronunzie, cit., 1046; V. DI CIOLO,

Incompatibilità ed ineleggibilità parlamentari, cit., 46.

Ulteriori problemi sorgono anche laddove si consideri la questione del conflitto di interessi,

esaminato in questa sede esclusivamente con riguardo al problema della sua collocazione

nella sfera dell’ineleggibilità o dell’incompatibilità17.

La situazione patologica alla base del conflitto di interessi si pone, infatti, a metà strada tra le

ragioni che giustificano l’ineleggibilità e quelle che sono poste a fondamento delle

incompatibilità. Di fatto, il conflitto di interessi può determinare uno scorretto esercizio delle

funzioni che i candidati, una volta eletti, sono chiamati a svolgere. Dovrebbe, quindi, trattarsi

di una ipotesi di incompatibilità; tuttavia, parte della dottrina riporta tale situazione nell’alveo

dell’ineleggibilità, in considerazione delle pressioni che possono essere esercitate

sull’elettorato nel periodo che precede le elezioni18. Tale ultima tesi rinviene il fondamento

17 A livello legislativo, il problema è stato risolto per i titolari di cariche di governo optando per un

regime di incompatibilità e per un controllo complesso da parte dell’Autorità garante della concorrenza e

del mercato. Tale disciplina è stata introdotta con la l. 20 luglio 2004, n. 215, la quale sembra prendere

esclusivamente in considerazione le ipotesi di conflitto di interessi economico, inteso quale contrasto tra

gli interessi economici di chi governa ed il contenuto delle politiche pubbliche, ossia come possibile

subordinazione di questi a quelli. In dottrina, M. ARGENTATI, La disciplina italiana del conflitto di

interessi in una prospettiva di diritto comparato, in Dir. pubb., 2009, III, 954, la quale rileva come il

legislatore abbia inteso dare al conflitto di interessi una duplice configurazione: la prima statica

prevedendo semplici ipotesi di incompatibilità; la seconda dinamica guardando al concreto svolgimento

della potestà di governo da parte del titolare della carica. Quest’ultima situazione di vero e proprio

conflitto di interessi può ricorrere in due ipotesi.

Il primo caso si verifica quando il titolare di una carica di governo, che si trovi già in una situazione di

incompatibilità, adotti o partecipi all’adozione di un atto ovvero ometta un atto dovuto nell’esercizio della

sua funzione di governo. La seconda ipotesi riguarda, invece, l’adozione o la partecipazione all’adozione

di atti o l’omissione di atti dovuti, attraverso i quali il titolare della carica favorisca sé stesso, il coniuge o

i suoi parenti entro il secondo grado, arrecando al contempo un grave danno all’interesse pubblico (art. 3,

l. 20 luglio 2004, n. 215). Nei confronti di quest’ultima situazione di conflitto di interessi le sanzioni

previste dal legislatore appaiono blande, giacché si prevede, a seguito di un controllo da parte

dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la possibilità di intimare all’impresa che abbia

tratto vantaggio dall’attività del titolare della funzione di governo di non avvalersi dell’atto ad essa

favorevole ovvero di rimuovere la violazione, prevedendo in caso di inottemperanza sanzioni pecuniarie.

Nei confronti del titolare della carica di governo si prevede esclusivamente la segnalazione ai Presidenti

del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Sul punto, si vedano B.G. MATTARELLA,

Conflitto di interessi. Quello che le norme non dicono, in Giorn. dir. amm., 2004, n. 12; G. BUSIA,

Incompatibilità a presidio del sistema, in Guida al dir., 2004, 34.

18 Così, R. SCARCIGLIA, La ratio delle cause di ineleggibilità: profili ricostruttivi e rilievi critici, in Quad.

cost., 1997, 353, che individua nel conflitto di interessi una causa di ineleggibilità, soprattutto con

riguardo alla detenzione di mezzi radiotelevisivi, giacché in questa ipotesi potrebbe verificarsi un’indebita

influenza sulla formazione della volontà degli elettori. Al di là di tale caso specifico, appare condivisibile

il rilievo secondo cui la disciplina in tema di ineleggibilità ed incompatibilità dovrebbe essere aggiornata

alle evoluzioni del diritto societario, valutando nello specifico le ipotesi di partecipazione indiretta o a

mezzo di interposta persona.

Questa tesi che configura il conflitto di interessi come una fattispecie di ineleggibilità, ad un’analisi

attenta, sembra essere risalente ed è condivisa, in dottrina, da V. DI CIOLO, Incompatibilità ed

ineleggibilità, cit., 42, nonché espressa in alcune pronunce della Corte Costituzionale (v. Corte cost., 11

luglio 1961, n. 42, cit., 965; Corte cost., 26 marzo 1969, n. 46, cit., 547).

Interessante la tesi di A. BIANCO, I limiti all’elettorato passivo, cit., 1973, il quale distingue il piano

dell’eleggibilità da quello dell’assunzione di incarichi governativi per i soggetti che siano titolari di

rapporti con la pubblica amministrazione a carattere concessorio o autorizzativo, ovvero che siano

responsabili di società ed imprese sovvenzionate con fondi pubblici. Secondo l’Autore il problema

verrebbe a porsi, in maniera effettiva, esclusivamente nel caso in cui il soggetto, che ricopra uno dei

testuale dell’ineleggibilità nell’art. 10, comma 1, n.1, del D.p.r. 30 marzo 1957, n. 361 là dove

si prevede che siano non eleggibili “coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali

di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di

somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità

economica, che importino l’obbligo di adempimenti specifici, l’osservanza di norme generali

o particolari protettive del pubblico interesse, alle quali la concessione o l’autorizzazione è

sottoposta”. Quest’ultima norma, tuttavia, si presta ad interpretazioni divergenti, tali da

consentire sia di argomentare a favore dell’ineleggibilità che dell’incompatibilità19.

Come appare, dunque, evidente da siffatte rapide esemplificazioni si è ben lontani da una

pacifica distinzione tra ineleggibilità ed incompatibilità, trattandosi di concetti che non si

prestano ad una definizione risolutiva, ma che serbano in sé un’intrinseca fluidità al servizio

dell’interprete, lasciando aperte ulteriori possibilità interpretative per il futuro20.

suddetti ruoli, assuma un incarico governativo. In questa ipotesi, le legislazioni straniere prevedono, come

via di risoluzione del problema, o la temporanea limitazione dell’esercizio della proprietà privata da parte

del soggetto che intende svolgere incarichi governativi o, addirittura, la definitiva spoliazione della

gestione del patrimonio. Senza arrivare a quest’ultima eccessiva ipotesi, più coerente appare la tesi della

limitazione temporanea della gestione del patrimonio del soggetto che incorra in conflitto di interessi.

19 Sostiene la tesi dell’ineleggibilità A. PACE, Ineleggibilità, incompatibilità e conflitto di interessi dei

parlamentari e dei titolari di organi di governo, in Democrazia e cariche pubbliche, a cura di CASSESE e

MATTARELLA, Bologna, 1996, 54, secondo cui la disposizione di cui all’art. 10 del d.p.r. 30 marzo 1956,

n. 361, alla luce di un’interpretazione sistematica, sancisce l’ineleggibilità parlamentare di chi

direttamente, nonché anche indirettamente eserciti un’impresa a cui sia stata rilasciata una concessione o

autorizzazione amministrativa di notevole entità.

In realtà, sempre sulla base del medesimo art. 10 è possibile argomentare nel senso di ritenere che l’inciso

in proprio”, sul quale si gioca la soluzione del problema, debba intendersi come “in nome proprio”. Per

un’accurata analisi sul punto, v. A.PERTICI, Spunti per una migliore regolamentazione, cit., 312. Per

quanto riguarda la questione affine del regime di ineleggibilità ed incompatibilità per gli amministratori di

società a partecipazione pubblica si veda, invece, M. BASSANI, La piccola riforma del regime di

ineleggibilità e incompatibilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica, in Nuova rass.,

2005, III, 2015.

Ulteriori e diversi problemi di conflitto di interesse possono sorgere nell’ipotesi in cui l’eletto sia parte

avversa in un giudizio nei confronti dell’ente al cui interno svolge le funzioni di rappresentante: si tratta

del tipico caso di incompatibilità per lite pendente. In dottrina, A. PERTICI, La soluzione dei conflitti

d’interessi dei rappresentanti degli enti locali tra incompatibilità ed obbligo di astensione, in Foro it.,

1999, II, 2121, secondo cui tale problematica potrebbe trovare un’adeguata soluzione mediante l’obbligo

di astensione, sempre che il conflitto di interessi si realizzi occasionalmente. In giurisprudenza, v. Corte

cost. n. 162/1985; più recentemente Corte cost. n. 288/2007.

20 Sussistono, d’altronde, dei casi in cui per ragioni di opportunità si è preferito non limitare l’esercizio

del diritto di elettorato passivo, pur trovandosi il soggetto successivamente eletto in una posizione tale da

poter esercitare una captatio benevolentiae nei confronti dell’elettorato.

In tali ipotesi, a seguito di un’operazione di bilanciamento, si è ritenuto prevalente il diritto di elettorato

passivo sulle altre situazioni giuridiche. Tipico caso è quello del dipendente regionale, comunale o

provinciale che intenda partecipare alla competizione elettorale. Questi in virtù del suo status potrebbe

esercitare un’influenza sugli elettori, tuttavia apparirebbe eccessivo imporre a tale funzionario l’obbligo

di presentare le dimissioni. Di conseguenza, si è pensato di risolvere il problema ponendo il candidato in

aspettativa e consentendogli, quindi, di conservare la titolarità dell’organo o dell’ufficio.

Situazione affine a quella appena descritta, ma per alcuni tratti lievemente diversa, è quella che riguarda

l’eleggibilità al Parlamento del consigliere comunale, provinciale o regionale. In questa specifica ipotesi,

la Corte Cost. con sentenza del 28 luglio 1993, n. 344, in Giur. cost., 1993, 2681, ha dichiarato

costituzionalmente illegittima la disposizione che prevedeva l’ineleggibilità per i consiglieri regionale,

3. L’attività della Corte Costituzionale tra la discrezionalità legislativa ed un parametro

costituzionale indeterminato.

Delineate le difficoltà nel tracciare un netta linea di demarcazione tra ineleggibilità ed

incompatibilità, appare opportuno soffermarsi ulteriormente sul vaglio di ragionevolezza che

la Corte Costituzionale è chiamata a compiere qualora venga sollevata innanzi ad essa una

questione di legittimità costituzionale su una norma che disponga una causa di ineleggibilità o

di incompatibilità.

Dando per presupposto che il diritto di elettorato sia un diritto fondamentale, limitabile solo ai

fini di tutelare altre situazioni costituzionalmente garantite, bisogna chiedersi entro quali

limiti tale deroga trovi giustificazione e come operi il principio di ragionevolezza in relazione

all’art. 51 Cost. Bisognerebbe, poi, chiedersi entro quali confini sia legittimo l’intervento

della Corte, senza che si verifichi un’invasione delle prerogative del legislatore.

In questa prospettiva, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 283/2010, rileva come ad essa

sia delegato un compito di mera verifica della valutazione compiuta dal legislatore

nell’introdurre una causa di ineleggibilità o di incompatibilità.

La Corte non entra nel merito delle scelte del legislatore, si limita a confrontare la

rispondenza delle stesse con la ratio sottesa agli istituti dell’ineleggibilità ed incompatibilità21.

Secondo taluno, una simile forma di giudizio si concretizza in un’ipotesi di mera riduzione

dei casi di ineleggibilità in incompatibilità, giacché la Corte interverrebbe per riportare il

disposto normativo alla effettiva finalità del legislatore senza operare un vero raffronto con un

parametro costituzionale, ma adeguando semplicemente la norma allo scopo che avrebbe

dovuto perseguire22.

giacché l’appartenenza ad un organo collegiale non può implicare di per sé il rischio che si verifichi una

indebita pressione sull’elettorato: nessuna captatio benevolentiae può essere, infatti, esplicata mediante il

mero esercizio dell’attività normativa consiliare.

21 In questo senso si è pronunciata la Corte Costituzionale stessa, la quale in numerose fattispecie ha

riconosciuto l’illegittimità costituzionale di disposizioni che avevano previsto come cause di

ineleggibilità situazioni integranti, invece, vere e proprie cause di incompatibilità, senza che tali pronunce

possano essere considerate estranee al potere decisorio della Corte in quanto sentenze additive di tipo

manipolativo, non consentite in sede di giudizio di costituzionalità (e v. Corte Cost., n. 129/1975;

45/1977; 129/1977; 450/2000). Tuttavia, in dottrina F. BERTOLINI, Eleggibilità, ratio legis e sindacato

della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 1993, II, 3141, il quale rileva come, prima di giungere a tali

interventi, la Corte Costituzionale abbia adottato per un lungo periodo un’ottica di self-restraint.

L’Autore giunge addirittura ad affermare che “mentre la normativa per le elezioni amministrative ha

subito un penetrante vaglio dalla Corte sino ad indurre il Parlamento ad un riordino della materia, per le

elezioni politiche la disciplina è rimasta pressoché immutata nell’arco dell’intera esperienza

repubblicana

22 Così, G. FERRARI, Discrezionalità legislativa e decisioni additive della Corte in tema di ineleggibilità

ed incompatibilità, in Le Regioni, 1987, 730.

Una simile tesi, nella sua portata più estrema, appare inaccettabile in quanto, se è vero che la

Corte può operare “riducendo” l’ipotesi di ineleggibilità, su cui è stata sollevata questione di

legittimità costituzionale, in un’ipotesi di incompatibilità, ciò avviene sempre al fine di

salvaguardare la più ampia espressione dell’elettorato passivo, ex art. 51 Cost., e non al mero

fine di correggere una volontà legislativa espressa in maniera scorretta.

Tuttavia, questa dottrina presenta il pregio di mettere in rilievo i due distinti modi di agire di

cui può servirsi la Consulta, qualora riscontri una limitazione illegittima dell’elettorato. Il

primo modus agendi è, infatti, quello appena esaminato di trasformare le ipotesi di

ineleggibilità in fattispecie di incompatibilità e viceversa, laddove non sia stata rispettata la

ratio a loro propria.

Il secondo modo di agire dei giudici costituzionali è quello di dichiarare l’illegittimità

costituzionale della disposizione limitativa dell’elettorato passivo che sacrifichi inutilmente

tale diritto, per diretto contrasto con la disciplina costituzionale23.

Va, poi, evidenziato come, in materia, il sindacato di legittimità costituzionale si presenti

difficoltoso in ragione del pericolo di invadere le scelte politiche del legislatore, nonché per

l’indeterminatezza del parametro costituzionale di cui la Corte si serve24.

Alla luce di tali problematiche la Consulta ha più volte sollecitato il legislatore ad adottare

disposizioni formulate in maniera precisa e dettagliata, in maniera tale che non venga

sacrificato inutilmente il diritto di cui all’art. 51 Cost25. Tali inviti non sono caduti nel vuoto,

giacché il legislatore ha cominciato ad adeguarvisi proprio con le dettagliate disposizioni della

l. 154/1981.

Sempre per la medesima ragione, la Corte si è, poi, rivolta all’interprete, sollecitando

quest’ultimo ad interpretare in maniera restrittiva le disposizioni limitative dell’elettorato

passivo. Nel compiere tali precisazioni, la Consulta ha individuato l’interesse pubblico quale

23 In tale situazione la Corte compie un sindacato di ragionevolezza “esterno”, ovvero verifica la

rispondenza della limitazione dell’elettorato con la necessità di salvaguardare altre situazioni

costituzionalmente protette. Nel caso in cui, invece, la Corte modifichi una previsione di ineleggibilità in

una di incompatibilità e viceversa si verificherebbe un controllo di ragionevolezza interna, ossia di

verifica della logica del legislatore e del suo operato. Una simile distinzione è operata, tra i primi, da G.

FERRARI, Discrezionalità legislativa e decisioni additive, cit., 730.

24 In dottrina, F. BERTOLINI, Intrinseche ragioni di ineleggibilità tra statuizione legislativa ed

interpretazione giurisprudenziale, in Giur. cost., 1992, II, 3193, secondo cui la legge non incontra nella

fonte sovraordinata alcun limite di natura oggettiva e sostanziale; ciò significa che “la Corte non ha

nessun elemento per censurare dall’alto della Costituzione le scelte del legislatore, bensì può solo

imporre e pretendere che le ragioni fondanti tali scelte siano evidenziate, chiarite e rese coerenti, nonché

sia resa omogenea rispetto ad esse, la disciplina precettiva dettata”.

25 Questo orientamento della Corte si è manifestato in maniera evidente sin dalla pronuncia n. 166/1972

con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 n. 7 della l. 17 febbraio 1968, n. 108, in

materia di elezioni regionali, per insufficiente determinatezza e tipizzazione della causa ostativa

dell’eleggibilità. Successivamente la Corte ha più volte ribadito tale principio; cfr. Corte cost. 53/1990;

306/2003; 25/2008.

criterio guida nell’esegesi; solo laddove questo parametro non fosse sufficiente a trovare una

giustificazione adeguata della limitazione si dovrebbe adire la Corte Costituzionale26.

4. Il canone della ragionevolezza e le deroghe alla tendenziale uniformità, sul territorio

nazionale, della disciplina in materia di elettorato passivo.

Per quanto riguarda la Consulta il ricorso ai poteri di controllo è legittimo qualora si

riscontrino deviazioni legislative dall’ordine del sistema che non trovino una sufficiente

motivazione, nonché nell’impiego di formule elastiche che siano manifestamente erronee o

lesive del principio di eguaglianza27.

Nell’operare tale verifica la Corte Costituzionale si serve il più delle volte, come si è avuto

modo di verificare in questo studio, del principio di ragionevolezza. Tale criterio può portare

ad una censura della fattispecie di ineleggibilità o di incompatibilità per “impertinenza”, ossia

per il difetto di correlazione logica del meccanismo legislativo rispetto agli obiettivi da

realizzare, nonché per “inadeguatezza” qualora l’ineleggibilità o l’incompatibilità appaiano

uno strumento non proporzionato rispetto al fine che si intenda perseguire, in quanto incidano

in maniera eccedente il necessario su posizioni giuridiche protette28.

Inoltre, nell’effettuare le proprie valutazioni la Corte è tenuta a considerare la diversità degli

organi rispetto ai quali sono previste cause di ineleggibilità ed incompatibilità, nonché il

diverso territorio in cui gli stessi sono chiamati ad operare ed in cui sono radicati.

La stessa Corte Costituzionale ha, infatti, enunciato il principio di non raffrontabilità tra le

posizioni dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali rispetto a quella dei

membri del parlamento e del governo. Tale principio è stato ricavato in via empirica da “dati

26 Tale orientamento è risalente nel tempo e si può ricondurre alla sentenza n. 46 del 1969, anche se

successivamente è stato ribadito più volte (v. Corte cost., 2 febbraio 1990, n. 53, cit., 215; Corte. Cost., 30

novembre 1989, n. 510, cit., 2367). La Corte in siffatte pronunce ha avuto modo di rilevare che le cause di

ineleggibilità, derogando al principio costituzionale della generalità del diritto elettorale passivo, sono di

stretta di interpretazione e devono comunque contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente

indispensabile per garantire le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate. Se, da un lato, il

legislatore gode di ampia discrezionalità nell’individuare le ipotesi di ineleggibilità e di incompatibilità;

dall’altro lato, gli interventi legislativi devono compiersi entro limiti razionali e nel pieno rispetto del

principio di eguaglianza.

27 Tale autorevole opinione è dovuta a A.M. SANDULLI, Il principio di ragionevolezza nella

giurisprudenza costituzionale, in Dir. Soc., 1978, 57; nonché è ripresa da A. POLICE, Ancora una

pronuncia in tema di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche elettive degli enti locali, in Giur. it.,

1994, I, 529.

28 Questa distinzione si deve a A. POLICE, Ancora una pronuncia in tema di ineleggibilità, cit., 532, il

quale trova del tutto irragionevole per “impertinenza” che un soggetto, che versi in una situazione di

ineleggibilità, possa permanere nella propria carica fino al momento della presentazione della candidatura

giacché “non si può razionalmente pensare che tale divieto sia efficace in una situazione in cui chi gode

di una posizione di supremazia all’interno dell’apparato pubblico, che gli consenta di indirizzare la

scelta degli elettori, possa permanere in tale posizione fino al momento dell’apertura della campagna

elettorale”.

dell’esperienza oggettiva” ed è ripreso anche nella sentenza n. 283/2010, laddove si analizza

la potestà legislativa regionale ed i relativi limiti, nonché la possibilità di una disciplina

divergente sul territorio nazionale29.

La necessità di considerare le precise condizioni territoriali ha, per esempio, portato il

legislatore all’inizio degli anni Novanta ad introdurre una specifica disciplina volta a

fronteggiare il fenomeno delle collusioni di stampo mafioso. La l. 55/1990 prevedeva, infatti,

la sospensione dalla carica dei soggetti sottoposti a procedimento penale per il delitto di

associazione a delinquere di stampo mafioso e per i delitti di favoreggiamento commessi in

relazione ad esso, nonché la sospensione dei soggetti nei cui confronti fosse applicata una

misura di prevenzione. Per coloro che, invece, fossero stati condannati con una sentenza

passata in giudicato per i delitti summenzionati era prevista la decadenza dalla carica.

Tale legge fu, successivamente, modificata dalla l. 18 gennaio 1992, n.16, che previde

l’incandidabilità alle cariche regionali e locali per coloro che fossero reputati pericolosi per

l’ordine pubblico, nonché la sospensione dalla carica per il sopravvenire delle condizioni che

determinano l’incandidabilità e la decadenza, al momento del passaggio in giudicato della

sentenza di condanna o alla data in cui diviene definitivo il provvedimento che applica la

misura di prevenzione30.

29 Un simile principio è stato affermato dalla Corte cost. con la sent. n. 407/1992.

In dottrina, tuttavia, vi è chi non condivide tale criterio di non raffrontabilità tra le posizioni dei titolari di

cariche elettive nelle regioni e negli enti locali rispetto a quella dei membri del parlamento e del governo.

In argomento, v. A. BIANCO, I limiti all’elettorato passivo, cit., 1971, il quale si chiede se i motivi di

ordine pubblico che suggeriscono l’esclusione di determinate categorie di soggetti dalle cariche elettive

regionali e locali non possano valere anche nei confronti dei parlamentari proprio perché svolgono

funzioni di rango superiore.

30 Siffatta normativa è stata fonte di innumerevoli problemi in considerazione del fatto che una certa

giurisprudenza, successivamente all’entrata in vigore della legge, cominciò ad applicarla anche a

situazioni sorte prima dell’entrata in vigore. Sul punto venne sollevata questione di legittimità

costituzionale per violazione dell’art. 25, comma 2, Cost., tuttavia la Corte Costituzionale la ritenne

infondata con sent. 31 marzo 1994, n. 118, in Giur. cost., 1994, I, 1001, sulla base del motivo che se la

finalità della legge era quella di assicurare la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, non

appariva irragionevole che la disciplina operasse con effetto immediato, anche in danno di chi fosse già

stato eletto in precedenza. La Corte ritenne che non sussistesse alcuna violazione del principio di

irretroattività, giacché questo riguarda esclusivamente le sanzioni comminate dalle leggi penali, non

rinvenibili nel caso di specie.

Questa pronuncia della Consulta è stata criticata in dottrina da chi ha sostenuto che le limitazioni

all’elettorato passivo possono essere assimilate alle sanzioni penali e, dunque, anche in questa materia

sarebbe invocabile il principio di irretroattività (v. A. BIANCO, I limiti all’elettorato passivo, cit., 1979;

A. PACE, Legittime le leggi in materia elettorale?!, in Giur. cost., 1994, I, 1007). Nonostante le critiche,

la Corte ha ribadito il suo orientamento in materia con la sent. 24 giugno 1993, n. 288, in Le Regioni,

1994, 601, in cui ha legittimato la mancata distinzione, ai fini dell’applicazione della sanzione della

decadenza di diritto dalle cariche elettive, tra delitto tentato e consumato. Un parziale revirement della

Corte si è avuto solo con la sent. 6 maggio 1994, n. 141, in Giur. cost., 1996, II, 1395, in cui si è

dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni della l. 55/1990, così come modificata dalla l. 18

gennaio 1992, n.16, nelle parti in cui comminavano l’incandidabilità o l’ineleggibilità senza che nei

confronti dell’interessato fosse intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna.

A seguito di vari interventi della Corte Costituzionale, il legislatore è poi intervenuto

ulteriormente a rimodellare la disciplina del 1990 prevedendo, con la l. 475/1999,

l’equiparazione delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti alle sentenze

di condanna, nonché dettando una più puntuale disciplina delle cause di sospensione.

Tale breve excursus riguardante la peculiare disciplina dettata per arginare fenomeni di

ingerenza mafiosa nell’ambito della politica e del sistema rappresentativo, consente ora di

comprendere meglio la questione relativa alla necessità che la disciplina in materia di

elettorato passivo sia, da un lato, coerente con le realtà territoriali dell’ambito in cui va ad

operare e, dall’altro lato, in armonia con la disciplina nazionale.

La questione viene in rilievo anche nella sentenza della Corte Costituzionale n. 283/2010, in

cui il giudizio verte, per l’appunto, sulla legge regionale che disciplina le cause di

ineleggibilità e di incompatibilità con la carica di consigliere regionale.

Nella sentenza dalla quale trae origine il presente studio, infatti, la Corte afferma il principio

secondo cui “sussiste una tendenziale uniformità sul piano nazionale della disciplina

dell’elettorato passivo” e la possibilità di introdurre discipline regionali differenziate, rispetto

a quella nazionale, sorge solo in presenza di particolari situazioni ambientali che giustificano

normative autonome.

Tale affermazione è avallata, nel caso de quo, dall’analisi della disciplina legislativa nazionale

e regionale in materia di ineleggibilità per i vertici delle Aziende sanitarie locali e delle

strutture sanitarie private.

All’esito di questa comparazione, la Corte ha pronunciato il rigetto, per infondatezza, della

questione di legittimità costituzionale sulla disposizione che sancisce l’ineleggibilità del

“legale rappresentante e dei direttori della struttura sanitaria o socio-sanitaria privata che

intrattengano rapporti contrattuali con l’Azienda regionale USL della Valle d’Aosta”. Tale

sentenza trova le sue motivazioni proprio in un quadro legislativo coerente sul punto sia a

livello nazionale, che a livello regionale e dal quale emerge come principio generale

dell’ordinamento giuridico elettorale l’ineleggibilità dei vertici delle strutture sanitarie, sia

pubbliche che private31.

31 Al contrario, per quanto riguarda la disciplina elettorale degli enti locali la Corte Costituzionale è

intervenuta con la pronuncia 6 febbraio 2009, n. 28 in cui si è riconosciuta l’illegittimità costituzionale

dell’art. 60, comma I, n. 9, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 nella parte in cui prevedeva l’ineleggibilità dei

direttori sanitari delle strutture convenzionate per i consigli del Comune il cui territorio coincidesse con il

territorio dell’azienda sanitaria locale o ospedaliera con cui fossero convenzionati. Tale disposizione è

stata censurata dalla Corte in considerazione del fatto che era già venuta meno la medesima causa di

ineleggibilità per i dirigenti degli ospedali non costituiti in azienda e, dunque, se fosse rimasta in vigore la

norma sulla quale era stata sollevata questione di legittimità si sarebbe verificata una lesione dei principi

di ragionevolezza e proporzionalità.

Dai rilievi sin qui svolti, si evince come la Corte Costituzionale consideri una primaria

necessità la vigenza di un quadro legislativo uniforme a livello nazionale, salva la possibilità

per le singole legislazioni regionali di dettare specifiche normative in ragione di situazioni

territoriali peculiari32. L’esigenza fondamentale che è possibile desumere è, dunque, quella

del coordinamento tra la legislazione nazionale e quella regionale.

Nel caso della Regione Valle d’Aosta è lo stesso statuto speciale, adottato con legge

costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, a prevedere che la potestà legislativa primaria della

Regione, in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alla carica di consigliere regionale,

debba essere esercitata in armonia con la Costituzione ed i principi giuridici dell’ordinamento

giuridico della Repubblica.

A livello generale, invece, per le Regioni a statuto ordinario l’art. 122 Cost., così come

modificato dalla l. cost. 22 novembre 1999, n.1, ha previsto che “i casi di ineleggibilità ed

incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale, nonché dei

consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi

fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi

elettivi”.

Tale novella costituzionale è stata attuata con la l. 2 luglio 2004, n. 165, la quale ha

individuato i principi fondamentali che le Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della

propria potestà legislativa, devono osservare, sancendo altresì che le Regioni possono

individuare casi di ineleggibilità legati a peculiari situazioni regionali33.

32 In questo senso, un’ampia e consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale: v. Corte Cost.

171/1984; 20/1985; 235/1988; nonché, da ultimo, la sentenza della Corte Cost. n. 288/2007, secondo cui

discipline legislative differenziate sono ammissibili, ma solo in presenza di situazioni concernenti

categorie di soggetti, le quali sono esclusive per le Regioni a statuto speciale, ovvero si presentino

diverse, messe a raffronto con quelle proprie delle stesse categorie di soggetti nel restante territorio

nazionale ed, in ogni caso, per motivi adeguati e ragionevoli, finalizzati alla tutela di un interesse

generale”.

33 In particolare, l’art. 2, comma I, lett. a) della l. 2 luglio 2004, n. 165 ha stabilito che le Regioni a statuto

ordinario possono prevedere i casi di ineleggibilità “qualora le attività o le funzioni svolte dal candidato,

anche in relazione a peculiari situazioni delle Regioni, possano turbare o condizionare in modo diretto la

libera decisione di voto degli elettori ovvero possano violare la parità di accesso alle cariche elettive

rispetto agli altri candidati”. Tale disposizione va letta in combinato con la previsione di cui all’art. 2,

comma I, lett. b) della medesima legge, che sancisce l’inefficacia delle cause di ineleggibilità qualora gli

interessati cessino dalle attività o dalle funzioni che determinano l’ineleggibilità, non oltre il giorno

fissato per la presentazione delle candidature o altro termine anteriore altrimenti stabilito.

Per quanto riguarda, invece, il procedimento elettorale negli enti locali, esso trova oggi compiuta

disciplina nel D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, T.U. degli enti locali. Per un esame della disciplina, con

riguardo ai casi di ineleggibilità ed incompatibilità previsti per gli amministratori locali, v. E. MAGGIORA,

L’amministratore locale, in Stato civ. it., 2007, II, 771. Va rilevato che anche nella disciplina del

procedimento elettorale delle amministrazioni locali e nell’individuazione dei casi di ineleggibilità ed

incompatibilità è obbligatorio il rispetto della disciplina costituzionale e dei principi fondamentali. Su tale

rilievo trova fondamento anche il parere del Cons. Stato, 24 maggio 2006, Sez. I., in Stato civ. it., 2007,

II, 780, in cui il Consiglio di Stato riconosce la legittimità dell’annullamento in via straordinaria da parte

Dal ragionamento elaborato è possibile evincere la delicatezza della materia trattata, nonché la

sua duttilità e malleabilità in relazione alle contingenze storico-territoriali che vengono a

configurarsi. Il diritto elettorale e, nel caso di specie, la disciplina delle ineleggibilità ed

incompatibilità si prestano per loro natura a rapide e talvolta tortuose evoluzioni, oltre che ad

una pluralità di interpretazioni. E proprio tale ultimo rilievo muove la Corte nel sollecitare

l’interprete a seguire il canone dell’interesse pubblico nello svolgimento dell’attività

ermeneutica.

5.Le elezioni quale fulcro dell’intero sistema rappresentativo.

La ricostruzione sin qui svolta assume un particolare rilievo qualora si consideri che la

disciplina dell’elettorato, sia attivo che passivo, costituisce un punto cardine nella

ricostruzione dell’intero sistema rappresentativo, giacché da esso dipende la scelta dei

soggetti investiti delle cariche pubbliche34. Nonché considerevoli sono i condizionamenti

derivanti dall’indirizzo politico, affermatosi a seguito del procedimento elettorale, sulla forma

di governo e sui rapporti tra i supremi organi costituzionali35.

Le elezioni costituiscono, come precisato, uno strumento indefettibile nella scelta democratica

dei rappresentanti e nell’instaurazione del rapporto tra questi ultimi ed i rappresentati, sebbene

tale legame non possa mai essere costruito puramente come un vincolo di delega o di

mandato36. Il rappresentante, infatti, secondo talune ricostruzioni agirebbe al servizio di

del Governo, ex art. 138 T.U. 18 agosto 2000, n. 267, della disposizione di uno Statuto comunale che

estendeva ai cittadini stranieri di provenienza extracomunitaria o apolidi residenti stabilmente nel

territorio nazionale il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni amministrative. Infatti, sebbene la

partecipazione degli stranieri alle elezioni amministrative sia un importante strumento di integrazione,

non si rinviene nel nostro ordinamento una fonte di legittimazione idonea, giacché la Costituzione agli

artt. 48 e 51 espressamente ricollega il diritto di elettorato alla cittadinanza e dunque, solo il legislatore

potrebbe estendere il diritto di elettorato a soggetti privi della cittadinanza italiana.

34 Inquadra le elezioni come un atto di investitura G. FERRARI, Elezioni (teoria generale), cit., 618, il

quale elabora la seguente definizione delle elezioni stesse come “atti giuridici, consistenti in una scelta o

in una serie di scelte, attraverso cui il popolo, raccolto collegialmente nell’universalità dei suoi

componenti, esercita la sua potestà di investitura a cariche supreme e ad tempus dell’organizzazione

dello Stato, della regione, della provincia e del comune”.

35 In questo senso, T.E. FROSINI, Nuova legge elettorale e vecchio sistema politico?, in Rass. parl., 2006,

I, 48; più approfonditamente, ID., Forme di governo e partecipazione popolare, Torino, 2008, 231.

36 La rappresentanza alla quale si intende fare riferimento non è, infatti, la rappresentanza di diritto

privato, bensì la rappresentanza politica. Tale istituto, a sua volta, è stata ricostruito in dottrina con

differenti caratteri.

La rappresentanza autoritaria (sostenuta da JELLINEK, La dottrina generale del diritto dello Stato, Milano,

1949,139) si caratterizza per essere una rappresentanza generale e di interessi, nonché organica e legale in

quanto il rapporto rappresentativo si instaura tra il governante e la totalità dei governati sulla base di un

accordo morale, infatti l’atto di investitura può prescindere dalle elezioni. A questo modello si

contrappone la rappresentanza democratica, in cui i soggetti del rapporto rappresentativo consistono

rispettivamente nel governante e nella maggior parte dei rappresentati e la rappresentanza si connota, sul

piano formale, per essere soggettiva e volontaria (v. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello

Stato,Milano, 1980, 294). A metà strada tra questi due modelli si colloca la rappresentanza mista, la quale

interessi generali, intesi come “interessi politici e definiti tali perché in grado di assicurare

l’unità della polis”37. Tali interessi generali dovrebbero essere valutati autonomamente dal

rappresentante, salvo il riferimento sempre necessario alla sovranità popolare. Ed è proprio in

tale rapporto bilaterale tra rappresentante e rappresentati che vanno inseriti i partiti politici,

considerando anche la funzione svolta dagli stessi nel corso del procedimento elettorale38.

Infatti, nonostante l’attività dei partiti contribuisca alla formazione delle assemblee elettive ed

a conferire visibilità alle istanze sociali, è innegabile che gli stessi si interpongano nel dialogo

tra rappresentanti ed elettori, rendendo sempre più labile il concetto tradizionale di

rappresentanza. Al punto tale da spingere qualcuno in dottrina ad affermare che “non sono gli

elettori che eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli

elettori”39. Tali osservazioni, probabilmente eccessive, inducono comunque a ripensare il

ruolo delle elezioni, anche con riguardo all’attività ed alla funzione assolta dai partiti politici.

Nell’attuale contesto politico e giuridico, le elezioni assolvono, invero, un ruolo fondamentale

di scelta, in primis, del partito politico e dell’indirizzo governativo e, solo successivamente, di

individuazione dei rappresentanti popolari. Il sacrificio del rapporto diretto tra rappresentanti

e rappresentati è, però, compensato dalla rappresentanza di interessi pertinenti a ceti altrimenti

cumula aspetti sia del primo modello che del secondo. Per una più ampia ricostruzione dell’istituto, ex

plurimis, v. C. CERUTTI, L’istituto moderno occidentale della rappresentanza politica, in Giust. amm.,

2008, II, 192.

37 Sostiene tale tesi A. BARBERA, La rappresentanza politica: un mito in declino?, in Quad. cost., 2008, n.

4, il quale ritiene che la funzione rappresentativa, trattandosi di rappresentanza politica, sia finalizzata alla

tutela di interessi differenti rispetto a quelli tipici della rappresentanza privatistica. La rappresentanza non

può essere concepita come una delega, tipica della rappresentanza per ceti, ma deve essere intesa come

un’attività svolta dal rappresentante in autonomia, al servizio di interessi generali.

In dottrina, tuttavia, sono state avanzate anche altre tesi: la rappresentanza è stata, di volta in volta,

inquadrata come un mandato conferito dall’elettorato, ovvero come specchio degli interessi dell’elettore,

nonché come partecipazione del popolo alle elezioni o, infine, secondo la teoria consensuale della

rappresentanza come uno strumento che deve sempre essere assistito dal consenso dei rappresentati.

38 Sul punto, G. FERRARI, Elezioni (teoria generale), cit., 623, il quale approfondisce la tematica del

rapporto elettorale ricostruendo la natura del corpo elettorale stesso quale entità collettiva unitaria titolare

di situazioni giuridiche autonome, mediante la cui attività si esprime la sovranità popolare. Da tale

concezione sorgono alcune problematiche in merito alla conciliabilità della sovranità del corpo elettorale

con la sovranità dello Stato, giacché l’una negherebbe l’altra. In realtà così non è, al corpo elettorale,

infatti, può essere attribuita la natura di organo dello Stato-comunità, senza che si ledano le prerogative di

sovranità dello Stato-persona, anche in considerazione del fatto che l’attività di quest’ultimo sarebbe

paralizzata in assenza dello svolgimento di periodiche consultazioni elettorali. D’altronde, la sovranità

popolare, se correttamente intesa come potestà di iniziativa, di sindacato e di preposizione, non lede la

sovranità dello Stato. La sovranità popolare non è, infatti, una potestà autosufficiente, giacché all’atto di

investitura deve necessariamente seguire l’attività statale di proclamazione. Alla luce di ciò, è interessante

il rilievo dell’Autore secondo cui la sovranità dello Stato e la sovranità popolare si limitano a vicenda.

39L’affermazione si deve a MOSCA, Teorica dei governi parlamentari, Milano, 1968, 246, che sottolinea

come il rapporto tra rappresentanti e rappresentati sia influenza dal cd. “mercato politico”.

In senso diametralmente opposto G. FERRARI, Elezioni (teoria generale), cit., 631, il quale considera

partiti politici e corpo elettorale come figure soggettive distinte, ma appartenenti al medesimo ordine di

realtà. Sarebbe, infatti, sempre il popolo, distribuito nei partiti politici, a scegliere e a designare i propri

candidati per poi procedere a manifestare la propria volontà nella veste di corpo elettorale.

emarginati e dalla maggiore possibilità di raggiungere compromessi necessari per la

sopravvivenza del pluralismo tra le diverse forse politiche40.

Tale più ampia rappresentanza di interessi è garantita dal carattere inclusivo dei partiti stessi,

in virtù del quale tanto maggiore è l’apertura alle nuove istanze sociali ed agli interesse

emergenti, tanto più garantito sarà il sistema della rappresentanza, sebbene mediato dalla

presenza dei partiti41.

Si viene, dunque, a determinare un nesso inscindibile tra elettori, partiti politici e

rappresentanti; il funzionamento di tale rapporto può essere garantito solo attraverso una

buona legge elettorale che assicuri, al tempo stesso, la governabilità ed un’adeguata

rappresentanza. Tenendo, tuttavia, presente che, dalla ricostruzione compiuta in questo studio,

il diritto di elettorato, sia attivo che passivo, appare variamente limitato ed inquadrato. Infatti,

sebbene esso sia sancito in via generale dalla Costituzione, viene ristretto e plasmato dalla

disciplina elettorale a livello statale, regionale e locale, creando un reticolato di normative e di

competenze in materia di verifica della correttezza del procedimento elettorale.

Tale complesso sistema poggia su un delicatissimo equilibrio tra la portata di diritto generale

dell’elettorato e la possibilità di introdurre limitazioni al fine di tutelare altre situazioni

costituzionalmente protette. Si tratta, dunque, di un bilanciamento che è chiamato ad operare

in primo luogo il detentore del potere normativo e solo in sede di verifica la Corte

Costituzionale, senza tralasciare che prima di arrivare innanzi alla Consulta si pone la

necessaria e delicata attività dell’interprete.

Infine, anche qualora la disciplina elettorale risulti legittima, il diritto di elettorato attivo e

passivo si troverà incanalato nei binari della rappresentanza, così come rimodellata e mediata

dall’intervento dei partiti. Da questa ricostruzione emerge un sistema in cui la generalità

dell’elettorato appare variamente strutturata in una serie di ingranaggi macchinosi, il cui

corretto funzionamento può essere assicurato solo da un uso ragionevole della propria

discrezionalità da parte del legislatore.

40 In questo senso, H. KELSEN, Il primato del Parlamento, Milano, 1982, 171, che vede nel compromesso

tra le differenti forze politiche l’unico modo per assicurare una maggiore aderenza alla volontà generale.

41 Evidenzia l’importanza dell’inclusività dei partiti politici A. BARBERA, La rappresentanza politica: un

mito in declino?, cit., il quale ritiene opportuno, al tempo stesso, rendere maggiormente inclusivi i partiti

politici e mantenere l’ancoraggio della rappresentanza al concetto di “cittadino”. Sebbene il riferimento al

cittadino, quale soggetto titolare del diritto di elettorato, sia oggi in crisi, l’Autore ritiene che il

riferimento allo stesso sia indispensabile, giacché solo grazie a tale concetto è stato possibile superare la

paralizzante rappresentanza per ceti”. Qualora, infatti, si avesse il superamento del concetto neutro di

cittadini, si rischierebbe di ricadere in odiose distinzioni legate a differenti forme di status.

 

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