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Autodeterminazione: prospettiva sociologico-culturale-Sergio Belardinelli

 

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            Il tema che mi è stato assegnato - Autoderminazione: prospettiva sociologico-culturale-  è indubbiamente molto intrigante, ma per nulla facile da trattare.

            Dopo aver riflettuto e imprecato non poco sulla mia dabbenaggine ad accettare relazioni del genere, confesso però di essermi impegnato parecchio per non deludere le aspettative di chi mi aveva assegnato questo titolo, specialmente per quanto riguarda la parte sociologica. Ho provato a elaborare un disegno di ricerca empirica, poi un piccolo questionario, finché mi sono accorto di non avere tempo sufficiente per sottoporlo a un campione di persone sufficientemente rappresentativo e avere dati empirici attendibili. A questo punto avevo due possibilità: non farne nulla, oppure somministrare comunque il questionario a qualcuno, magari solo per vedere l’effetto che avrebbe fatto. Ho deciso per la seconda ipotesi e l’ho somministrato a un campione rappresentativo di studenti della mia Facoltà di Scienze politiche di Forlì, 150 studenti per l’esattezza, pescati a caso in corsi differenti.

            I dati che tra poco fornirò riguardano dunque soltanto gli studenti della mia Facoltà e sono quindi poco rappresentativi in generale. Ma forse quello che conta di più, almeno spero, è l’abbozzo di ricerca che ho cercato di elaborare per raccoglierli, il quale, volenti o nolenti, mi ha costretto comunque a pensare sul tema che volevo indagare: l’autoderminazione appunto, uno dei busillis filosofici più intricati, sui quali esiste ormai una letteratura sterminata, ma che, specialmente di questi tempi, viene maneggiato con disinvolta leggerezza anche in molti dibattiti pubblici, vedi quelli sull’eutanasia. E’ sufficiente evocare il concetto di autoderminazione per essere quasi sicuri di una reazione emotiva favorevole. E questo forse spiega perché venga spesso evocato anche a sproposito.

            Il primo problema che si incontra quando ci si occupa di autodeterminazione riguarda la determinazione del significato del concetto. Dire che un soggetto determina se stesso richiama infatti l’idea di “causa sui”, la quale, però, specie quando si tratta di uomini, è tutt’altro che scontata. Friedrich Nietzsche, tanto per fare un nome certamente significativo, sosteneva in proposito quanto segue: “La causa sui è la maggiore autocontraddizione che sia stata concepita fino a oggi, una specie di stupro e d’ innaturalità logica: ma lo sfrenato orgoglio dell’uomo l’ha portato al punto d’irretirsi profondamente e orribilmente proprio in questa assurdità. Il desiderio del ‘libero volere’, in quel metafisico intelletto superlativo, quale purtroppo continua a signoreggiare nelle teste dei semidotti, il desiderio di portare in se stessi l’intera e l’ultima responsabilità per le proprie azioni e di esimere da esse Dio, mondo, progenitori, caso, società equivale infatti ad essere nientemeno che quella causa sui e a tirare per i capelli se stessi dalla palude del nulla dell’esistenza, con una temerarietà più che alla Muenchausen” (Nietzsche 1968, 25-26).

            Solitamente il concetto viene quindi fatto coincidere con quello di libertà. Un individuo determina le proprie azioni, e quindi determina se stesso, nel senso che guida il proprio corso di vita essendone responsabile. Le sue azioni cominciano da lui – la libertà è la facoltà di cominciare qualcosa da sé (Kant) – e non sono causate o determinate da qualcosa che non è nei suoi poteri – cause esterne, l’educazione che ha ricevuto, i suoi stati cerebrali ecc. Eppure proprio Kant, certamente un autore “classico” della libertà e dell’autodeterminazione, nutriva seri dubbi in ordine al fatto che l’autodeterminazione potesse spingersi, poniamo, fino alla disponibilità della vita; considerava anzi il suicidio come una sorta di violazione della formula dell’imperativo categorico, secondo la quale occorre considerare l’umanità di sé e degli altri sempre come fine e mai come mezzo (il suicida usa la propria persona come un mezzo per sfuggire all’infelicità). Gli stessi dubbi, tanto per fare il nome di qualche altro “classico”, li ritroviamo in Locke e in Hegel.

            Nel Secondo trattato sul governo Locke dichiara, ad esempio, che il corpo è proprietà della persona, la quale ha su di esso pieni ed esclusivi diritti, ma tale proprietà del corpo non comporta la disponibilità della vita. La schiavitù e il suicidio rappresentano per Locke i limiti invalicabili della nostra libertà; e questo perché non ci siamo creati da soli ma siamo creazione di un altro. L’altro a cui pensava Locke era ovviamente Dio, ma io credo che la limitazione potrebbe giustificarsi anche se pensiamo semplicemente agli altri da cui dipende il nostro essere venuti al mondo e con i quali, anche quando non ce ne rendiamo conto, restiamo in una profonda relazione; una relazione che ci costituisce in ciò che siamo e che diventa anche fonte di obbligatorietà. Non possiamo pensare di toglierci di mezzo, senza pensare al dolore di nostra madre o delle persone che ci amano. La solidarietà è attiva già a questo livello come limite, come ambito, all’interno del quale siamo liberi di determinarci.

            Pur con argomenti più astratti, anche Hegel ritiene che non esista per l’uomo un diritto ad alienarsi la vita (Lineamenti di filosofia del diritto, § 48, 66,67,69,70). Al pari delle caratteristiche sostanziali della mia personalità, quali la mia autocoscienza, la mia libertà, ecc., anche la vita viene considerata inalienabile. Solo ciò che è “esteriore” è alienabile, non ciò che ci costituisce in quanto persone.

            Nel mio abbozzo di ricerca empirica, tra le domande rivolte agli intervistati, ce n’è una che suona così: “Quale definizione ti sembra più adeguata per il concetto di libertà?”. L’intervistato poteva scegliere tra cinque tipi di risposta: a) assenza di costrizioni; b) diritto all’autodeterminazione; c) capacità di scelta; d) capacità di perseguire i nostri modelli di felicità; e) capacità di perseguire il bene. La gran maggioranza degli intervistati ha optato per “capacità di scelta” (il 33,7%) e per “diritto all’autodetrminazione” (28,2%). Assai sorprendentemente solo un 18,3% ha optato per quella che forse è la condizione più evidente della libertà, ossia l’”assenza di costrizioni”. Si potrebbe dunque dire, in un senso che spiegherò tra breve, che Kant ha la meglio su Hume. Ma ciò che colpisce è lo sganciamento pressoché totale della libertà dalla “capacità di perseguire il bene” (uno sparutissimo 1,5%) e la scarsa connessione che viene posta tra la libertà e la “capacità di perseguire i nostri modelli di felicità”(18,3%).

            Questi dati sono ancora più significativi, se li compariamo con quelli relativi ad un’altra domanda del questionario: “Tra quelli sotto indicati, quale è il principio che meglio può fare da guida per dirimere le grandi questioni bioetiche del nostro tempo (sperimentazione sugli embrioni umani, aborto, eutanasia, ecc.)?”. Alla “fiducia nella scienza e negli scienziati” si affida il 20,6% degli intervistati; alla “inviolabilità della vita umana dall’inizio alla fine” il 26,7%; al “diritto all’autodeterminazione di ogni individuo” il 43,6%; al “dibattito pubblico” il 9,1%.

            Con buona pace di Locke, Kant, Hegel, Nietzsche e molti altri, il diritto all’autodeterminazione di ogni individuo sembra farla dunque da padrone. Possiamo certo consolarci con la consapevolezza che si tratta di dati poco attendibili, poiché si tratta di un questionario sottoposto soltanto agli studenti dei miei corsi presso l’Universtà di Bologna, Sede di Forlì. Ma temo che il sentire più diffuso nella nostra cultura sia proprio questo. Il diritto all’autodeterminazione sta diventando uno degli slogan più accattivanti del nostro tempo. E questo nonostante che la riflessione filosofia più aggiornata di questi ultimi anni mostri in proposito crescenti perplessità. A questo proposito vorrei soffermarmi su una in particolare: posto che l’autodeterminazione ci sia, essa non dice nulla su ciò che si deve fare, sul valore del comando a cui si obbedisce. Mi spiego.

            Come ha mostrato assai bene Luigi Cimmino (Cfr. Cimmino 2003, 57-132), alla base del principio di autodeterminazione c’è un presupposto tutt’altro che scontato, e cioè che sono io a scegliere, sono io il padrone delle mie intenzioni; sono io che scelgo quali perseguire e quali abbandonare. Ma il fatto è che lo stesso atto dello scegliere è un atto intenzionale, che quindi ha già necessariamente una sua intenzione (è, diciamo così, assegnato ad una intenzione). Un esempio. Mi viene proposto se scegliere un gelato alla frutta o uno al cioccolato; nessuno mi obbliga alla scelta e quest’ultima non è causata da nulla. A questo punto due sono le cose. A) non ho preferenze di gusti: ma allora propriamente non scelgo, la mia mano si muove casualmente a prendere uno o l’altro dei due gelati, indifferentemente. Oppure B) scelgo uno dei due gusti: ma questo avviene perché ho una preferenza, che quindi guida la mia scelta. Nel primo caso l’azione è arbitraria, nel secondo avviene in base ad una intenzione (quella del gusto) che non scelgo. Poiché, detto in altro modo, lo scegliere è un’azione, ed ogni azione implica logicamente l’intenzione che la guida, non è possibile scegliere una intenzione; è possibile solo scegliere, all’interno di una alternativa, in base ad una intenzione che non è ovviamente scelta. Quindi io non posso essere padrone delle mie intenzioni, non posso governare i fini delle mie azioni – se non in base a intenzioni basilari che “mi trovo” ad avere. A questo pensava forse Nietzsche quando, nel passo che ho citato, ironizzava ferocemente sulla “causa sui”, come un modo di tirarsi fuori dal pantano tirandosi per i capelli. Un po’ come nei quadri di Escher il meccanismo del nostro volere, delle nostre scelte, si rivela sorprendentemente come un meccanismo che non ha un punto di partenza. A questo pensa di sicuro Galen Strawson, allorché in un saggio del 1986, intitolato Freedom and Belief, cerca di mostrare addirittura l’inintelligibilità della “responsabilità ultima”.

      Poniamo ad ogni modo che da tale Cul-de-sac si riesca ad uscire, che la coscienza eserciti vera e propria “signoria” sulle sue intenzioni, che quindi gli esseri umani possano davvero determinare i propri fini senza presupporne altri e che possano autenticamente scegliere cosa fare e ne siano responsabili (in effetti, se delle mie intenzioni di base non posso rispondere, a cosa mai si riduce la “responsabilità”?), la difficoltà accennata chiarisce comunque qualcosa di estremamente importante in ambito morale: l’autodeterminazione non ha nulla a che fare con il valore di ciò che si fa o della legge a cui si obbedisce; è la condizione dell’attribuzione di responsabilità, ma non si pronuncia e non può pronunciarsi affatto sul valore dell’azione responsabile. In ambito prescrittivista, come aveva capito Carl Schmitt contro Kant, il valore della legge dipende dall’autorità di chi la emana. L’errore di tanta filosofia contemporanea, di radice illuminista ma non solo, è quello di cercare di giustificare la libertà umana, per poi dedurre in qualche modo da tale libertà il contenuto della legge da perseguire. In realtà la situazione è quella opposta. Dalla libertà non traggo alcun contenuto: è perché una legge ha valore, per l’autorità di chi la emana, che la responsabilità, l’autodeterminazione assume valore morale. E’ perché un certo ideale di vita ha per me valore che l’autodeterminazione assume valore morale (Cfr. Cimmino 2003, 78-90).

           

            Gran parte degli odierni paladini dell’autoderminazione non sembrano consapevoli di questa situazione. In altre parole, non si avvedono che il problema non è tanto l’autoderminazione quanto la legge e l’ideale di vita che assumiamo come suo criterio. Che cos’è che distingue il dovere della signora Goebbels, che decide di uccidere i suoi cinque figli, da quello di San Francesco, che decide di donarsi totalmente agli altri? 

            La domanda è inquietante, ma la risposta forse è semplice: il fatto che nel caso di San Francesco siamo certi che si tratta di un dovere che scaturisce da una volontà buona, che realizza un ideale buono di umanità; nel caso della signora Goebbels si tratta invece di un dovere che, per quanto autenticamente “voluto”, scaturisce da una vera e propria perversione, e questo anche se  siamo disposti a riconoscere che la povera signora Goebbels sia solo parzialmente responsabile del delitto che commette. Possiamo agire per un volere che è realmente voluto, cioè “proprio”, ma che nel contempo è anche “improprio”, come fanno ad esempio i tossicomani. Secondo Platone, alla base di tale volere improprio si trova una percezione deformata della realtà, di ciò che è desiderabile. Sta di fatto che in realtà con la scelta della legge che assumiamo come nostra decidiamo anche chi siamo, che cosa vogliamo che gli altri pensino di noi. Un aspetto questo sul quale non riflettiamo mai abbastanza, ma assai significativo. Siamo certo ciò che la natura ci ha dato e che non dipende da noi, siamo anche l’educazione, gli usi e i costumi che abbiamo acquisito dall’ambiente nel quale siamo nati e vissuti e che nemmeno dipende da noi; ma siamo anche il modello, il ruolo, la legge che ad un certo punto abbiamo deciso di fare nostri. La nostra personalità, il nostro carattere sono in fondo questa sintesi.

            “Chi attribuisce all’uomo la libertà del volere intende con questo affermare che l’uomo è il fondamento stesso del proprio agire-così-e-non-altrimenti. E certamente non solo in modo che questo agire sia la conseguenza necessaria di condizioni antecedenti sottratte alla sua possibilità, ma in modo che l’uomo stesso porti una responsabilità per il suo essere così, nella misura questo essere così è plasmato dalle sue azioni e nella misura in cui le decisioni su determinate azioni sono, al tempo stesso, decisioni su ciò che qualcuno cerca di essere come uomo” (Spaemann 2005, 190). Agere sequitur esse dicevano gli scolastici. Tuttavia per le persone vale anche il contrario: il loro agire si ripercuote su ciò che esse sono.

            La libertà umana è sempre “un essere liberi da” che viene percepito da esseri che tendono per se stessi verso qualcosa. Libertà è pertanto anche libertà di sviluppare una tendenza propria, diciamo pure di svilupparsi in accordo con la propria specie. Una tigre in gabbia o una rondine nell’acqua non sono libere.

            Tuttavia, e qui sta a mio avviso il punto, non vale per qualsiasi tendenza immanente il fatto che la sua possibilità di sviluppo significhi libertà. La soddisfazione del desiderio di bere di un alcolista o del desiderio di rubare di un cleptomane non sono espressioni della loro libertà. Ma è esattamente questo che non viene percepito dalla cultura contemporanea e che in qualche modo viene confermato anche dai miei studenti nel momento in cui identificano la libertà con l’autodeterminazione, ignorando pressoché in toto che anche la natura può costituire un limite alla libertà.

            “Tra i concetti sotto indicati quale è quello che rappresenta al meglio il limite della libertà?”: così suonava una delle domande del mio questionario. Ebbene il 49,7% degli intervistati ha risposto “la libertà dell’altro”; il 24,4% ha risposto “la legge”; il 19,1% “la mia coscienza”; e solo il 6,8% ha risposto “la natura”.

            Ma, si obbietterà, posto che esista una natura umana, questa è troppo plastica per poter stabilire che cosa è conforme alla sua realizzazione e che cosa no. Perché dunque insistere ancora sulla natura? Per questa semplice ragione: perché gli uomini hanno con la propria natura una relazione che non è uguale a quella che hanno gli altri animali; perché abbiamo una natura senza essere questa natura; perché possiamo rapportarci liberamente ad essa (siamo liberi dalla nostra propria natura) senza tuttavia poterla ignorare del tutto; perché possiamo realizzarci come persone solo insieme agli altri, riconoscendo gli altri e grazie al riconoscimento da parte degli altri; perché forse la “libertà da noi stessi” è il compito più difficile, ma anche il compito principale, che abbiamo in quanto uomini. (Cfr. Spaemann 2005, 209).

            Questa dimensione “comunitaria”, “relazionale” del nostro essere uomini in genere non viene presa nella giusta considerazione da coloro che fanno dell’autodeterminazione il valore fondamentale. Ma è proprio questa dimensione che, a mio avviso, è decisiva allorché si tratta di dirimere, come dobbiamo fare oggi, vere e proprie questioni di vita e di morte. Mi spiego. E lo faccio a partire da un’altra domanda del questionario che ho sottoposto ai miei studenti.

            La domanda è la seguente: “Sei favorevole o contrario all’eutanasia?”. Il 15,5% degli intervistati si è dichiarato contrario; l’84,5% favorevole. Tra i contrari, il 35% lo è “perché la vita non è nostra”; il 25% perché “temo che possa essere utilizzata per togliere di mezzo i più deboli”; il 40% “perché non posso chiedere a un altro di uccidermi”. Tra i favorevoli, il 62,3% lo è perché “ne va della dignità del vivere e del morire”; il 29,3% perché “ne va del diritto all’autodeterminazione di ognuno”; l’8,2% perché “in certi momenti la vita non ha più senso”.

            A prescindere dall’attendibilità dei dati riportati, trovo particolarmente significativo il fatto che, tra i favorevoli all’eutanasia, ben il 29,3% lo sia perché “ne va del diritto all’autodeterminazione”, come pure il fatto che il 40% di coloro che si mostrano contrari all’eutanasia lo sono “perché non posso chiedere a un altro di uccidermi”. Sebbene questi ultimi rappresentino una sparuta minoranza rispetto al totale degli intervistati, mi sembra che, rispetto agli altri, dimostrino una consapevolezza importante circa l’autodeterminazione e i suoi limiti.

            Non soltanto infatti, come spero di aver mostrato, l’autodeterminazione, per sé, non dice nulla circa la bontà delle nostre azioni, ma, e questo è il caso dell’eutanasia, spesso il principio di autodeterminazione viene invocato a sproposito. Se la libertà è sempre un “esser liberi da”, un “liberarsi da” e quindi un potersi determinare per, allora il “liberarsi dalla propria vita”, prescindendo dalla tragicità che evoca, è sempre un gesto “irrazionale”, un “essere per la morte” del tutto inautentico, direbbe Heidegger. Di passaggio faccio notare che è proprio per questa sua essenziale, assoluta “irrazionalità” e imperscrutabilità che il suicidio, visto che di questo si tratta, esige sempre l’umana pietà. Sia che ci si uccida, come facevano gli antichi, “per eroismo, per illusioni, per passioni violente”, sia che lo si faccia “stanchi e disperati di questa esistenza”, come fanno i moderni, il suicidio appare anche a Giacomo Leopardi come “la cosa più mostruosa in natura”, appunto la più incomprensibile. Ma allora che cosa significa parlare di un diritto a morire come e quando ci pare, in nome della cosiddetto principio di autodeterminazione?

            A mio modo di vedere, quando parliamo in questo modo, cerchiamo in realtà di nascondere quello che effettivamente chiediamo: non il diritto di ucciderci (del resto, che senso ha rivendicare come diritto ciò che chiunque può fare in ogni momento?), bensì il diritto che altri ci uccidano. Ma ha senso rivendicare un tale diritto? Anche in questo caso, sia chiaro, “è la pietà che l’uomo all’uom più deve”. E’ certo però che l’eutanasia aggiunge alla tragicità e all’irrazionalità del suicidio un ulteriore elemento di pesantezza: la disumanità della società che la rende possibile.

            Da questo punto di vista, fa bene Francesco D’Agostino a ricondurre sempre la questione della legge sulla fine della vita umana al delicato rapporto medico-paziente, evitando sia la Scilla di chi, in proposito, vorrebbe riporre tutto nella scienza e coscienza del medico, sia la Cariddi di chi ritiene invece che debba contare soltanto la volontà del paziente, la sua autodeterminazione, appunto. Ma non si può certo dire che questa sia la posizione oggi dominante. A questo proposito voglio citare, non i miei studenti, ma un personaggio di prima grandezza nel panorama culturale contemporaneo: Umberto Eco. Il quale, un paio di giorni dopo la morte di Eluana Englaro pubblicò un articolo su “Repubblica” che non riesco a dimenticare. Parlava di un personaggio di uno dei suoi romanzi, il quale, in una condizione di “vita sospesa”, come la definisce Eco, assai simile a quella in cui si trovava Eluana Englaro, continua a pensare, ricordare, desiderare, persino a commuoversi, senza che coloro che gli stanno intorno ne abbiano la minima idea. Ebbene dopo aver descritto questa situazione, l’autore prende una posizione tanto lapidaria quanto sorprendente, viste le premesse: “Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell’incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari…Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri”.

            Siamo, come si vede, al testamento biologico e all’autodeterminazione. Umberto Eco affronta il problema con indubbia intelligenza e quasi con leggerezza. Ma la sua argomentazione non convince. Meno che mai convince il paragone che, nello stesso articolo, egli fa con le morti eroiche di Pietro Micca o di Salvo D’Acquisto; eroi che, appunto, “per il bene degli altri”, hanno sì offerto la loro vita, ma non l’hanno fatto per  togliere il disturbo o per liberarsi di una qualche sofferenza. Non escludo ovviamente che l’eventualità di trovarsi in certe condizioni di “vita sospesa” possa anche indurre il pensiero di non gravare in nessun modo sulle persone a cui vogliamo bene. Pare oltretutto che sia un’esperienza assai diffusa. Ma proprio per questo si dovrebbe fare attenzione a non alimentare un clima culturale tale per cui, nei momenti in cui siamo più fragili, in cui abbiamo più bisogno degli altri, soprattutto di quelli che ci vogliono bene, ci viene chiesto, per amore, di toglierci di mezzo. Se penso alla morte dei miei nonni, dei miei genitori e persino a quella di alcuni amici, vedo quasi sempre lo stesso sguardo: uno sguardo in cui la consapevolezza struggente di essere diventati di peso si accompagna a un altrettanto struggente desiderio di essere amati fino alla fine. Non so neanche bene perché, ma a questo sguardo sento di essere affezionato. Ed è soprattutto questo sguardo che mi viene in mente, quando sento parlare a sproposito (ovviamente per me) di autodeterminazione.

                                  

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

L. Cimmino, Autodeterminazione. Un argomento a favore della “responsabilità ultima”, Guida, Napoli 2003.

D. Hume, Trattato sulla natura umana, Laterza, Bari 1971

I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1984

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1968

S. Smilanski, Free Will and Illusion, Clarendon Press, Oxford 2000.

R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Bari 2005

G. Strawson, Freedom and Belief, Oxford University Press, Oford 1986.

 

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