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AUTODETERMINAZIONE NEL SISTEMA DEI DIRITTI COSTITUZIONALI-Prof. Luca Antonini

 

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Sommario

 TOC \o "1-3" \h \z \u 1.    PREMESSA........................................................................................................................... PAGEREF _Toc251346035 \h 1

2.    SULLA GENESI DEL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE................................................ PAGEREF _Toc251346036 \h 1

3.    IL REFERENTE AUTOREVOLE: LA DIMENSIONE DELLA PRIVACY....................................... PAGEREF _Toc251346037 \h 4

4.    L’AFFERMAZIONE DEL DIRITTO ALLA PRIVACY NELLA GIURISPRUDENZA....................... PAGEREF _Toc251346038 \h 5

5.    LO SVILUPPO DELLE APPLICAZIONI DEL DIRITTO ALLA PRIVACY: VERSO L’AUTODETERMINAZIONE.  PAGEREF _Toc251346039 \h 6

6.    IL CONTESTO ITALIANO....................................................................................................... PAGEREF _Toc251346040 \h 7

A)       LE ANALOGIE COL MODELLO AMERICANO: PRIVACY, AUTODETERMINAZIONE E DIGNITÀ UMANA NELLA GIURISPRUDENZA ITALIANA.......................................................................................... PAGEREF _Toc251346041 \h 7

B)       LA COSTITUZIONE ITALIANA E LE DIFFERENZE DAL MODELLO AMERICANO: LA DIMENSIONE SOCIALE, IL LUNGO CATALOGO DI DIRITTI. LA “COSTITUZIONE PRESA SUL SERIO”.............................. PAGEREF _Toc251346042 \h 9

7.    SINGOLARITÀ E PARADOSSI CHE IMPONGONO UNA RIFLESSIONE RADICALE............. PAGEREF _Toc251346043 \h 11

 

 

 

1.      PREMESSA.

Appare utile premettere una nota di metodo: il tema merita di essere considerato secondo un’impostazione che valuti non solo l’evoluzione della giurisprudenza e la sua compatibilità con il nostro sistema dei diritti costituzionali, ma anche i limiti antropologici di alcune impostazioni. Ricordava, infatti, Giovanni Paolo II che al centro del dibattito contemporaneo è “la disputa sull’humanum” in quanto tale[1]. Da questo punto di vista il percorso che si vuole proporre approderà su alcuni paradossi e limiti delle correnti di pensiero che si sviluppano su un’antropologia negativa; troverà poi conclusione suggerendo l’opportunità di superare approcci più tradizionalistici a favore di un’evoluzione in linea con quella nota di realistica inquietudine che sembra emergere in alcune dimensioni del pensiero post moderno.

2.      SULLA GENESI DEL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE.

L’autodeterminazione è andata consolidandosi negli ultimi anni quale concetto-chiave, attraverso cui interpretare le Costituzioni e aggiornare il catalogo di diritti individuali. Si tratta di un’evoluzione riscontrabile in diversi Paesi e anche sul piano sovranazionale; è proprio questo concetto che spesso ha condotto alla creazione di nuovi diritti. Si spiega così la recente e imponente espansione dei cataloghi dei diritti umani, scritti nelle carte o più frequentemente elaborati dalle corti e dai tribunali: le carte dei diritti si sono oramai ingigantite fino a includere i diritti fino alla quarta generazione e la giurisprudenza delle Corti, nazionali ed europee, arricchisce ancor più la lista. Non è infrequente leggere espressioni come “i diritti delle generazioni future”, “il diritto a non nascere”, “i diritti riproduttivi”, “il diritto a morire”, “il diritto ad avere un figlio”, “il diritto ad ammalarsi” e la lista potrebbe continuare[2]. L’esito di questa evoluzione è che ogni distinzione tra desideri privati e diritti fondamentali si dissolve. Dall’eutanasia, all’interruzione della gravidanza, al matrimonio omosessuale, alla procreazione assistita – per citare solo i casi più ricorrenti e discussi – non c’è diritto o posizione soggettiva che non veda il tema dell’autodeterminazione giocare un qualche ruolo.

Occorre chiedersi di quali diritti si tratta e qual è il fenomeno giuridico che è alla base di questo processo. Nella coppia, nella famiglia, nella malattia o nella morte, infatti, si utilizza in maniera crescente la qualificazione di “diritto” per descrivere aspetti della vita rispetto ai quali è discutibile parlare di “diritti”: sono più semplicemente possibilità, opzioni, facoltà. In questo contesto, ogni gruppo rivendica il “suo diritto”, dimenticando che ogni nuovo diritto crea un nuovo e correlativo dovere per qualcun altro o comunque un’incisione di altri valori. Soprattutto si tende alla normativizzazione del desiderio, quasi che il rivestimento legislativo del desiderio potesse misticamente assicurarne il compimento. Intrappolati nel miraggio di questo inganno, i nuovi diritti allora rischiano solo di creare nuove infelicità; questo sembra essere spesso il loro tragico destino. 

Il processo che si è sviluppato su queste premesse è stato tutt’altro che lineare come fenomeno giuridico, si è trattato di un processo disordinato e spesso incontrollato, che richiede sempre più urgentemente una riflessione puntuale, come ha suggerito di recente Francesco D’Agostino[3].

E’ su questo piano che credo sia utile confrontarsi.

Il primo dato d’interesse è che questi diritti si sono affermati soprattutto grazie all’intervento delle Corti costituzionali e supreme, che sono state principali protagoniste nell’inserimento di tali diritti nel tessuto costituzionale, prendendo posizione su temi rispetto ai quali le Costituzioni – anche più recenti, come ad esempio quella sudafricana – sostanzialmente tacevano.

Il complesso dei cosiddetti “nuovi diritti” si è cioè affermato ed espanso soprattutto grazie a quello che è stato definito un “dialogo tra le Corti”, cioè attraverso un’intensa relazione tra le giurisprudenze di diversi Paesi e tra Paesi e ordinamenti sovranazionali, e grazie al sostegno di parte della dottrina. Ne è un esempio il recente atto di remissione del Tribunale civile di Venezia presso la Corte costituzionale, con il quale il tribunale ha posto il problema della limitazione del matrimonio alle sole coppie eterosessuali. Il collegio, nel rimettere la questione, ha menzionato soprattutto la giurisprudenza delle Corti supreme statunitensi che avevano argomentato in favore di un’espansione dell’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali. Peraltro, anche la Corte suprema americana, nel caso Lawrence[4], quando si è espressa a favore di un diritto fondamentale a esprimere la personalità attraverso atti omosessuali, ha a sua volta utilizzato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il processo di sviluppo dei nuovi diritti si fonda quindi su una prassi di uso/abuso di procedure comparative, che può essere definita come uno scambio transnazionale di diritti umani, dove si alimentano pratiche interpretative discutibili, che spesso assumono una connotazione parassitaria perché traggono “linfa dall’universalità dei diritti umani per giustificarsi”, ma in realtà non ne condividono i presupposti ontologici di dignità e universalità che ne hanno, a suo tempo, fondato il valore. E’ quanto ha lucidamente evidenziato Paolo Carozza: “… si tratta di un mercato affetto da amnesia storica e culturale. La circolazione dei diritti umani si svolge senza alcun riferimento reale al modo in cui la dignità umana e il bene comune sono stati ricostruiti e realizzati in concreto nelle diverse civiltà nel corso della storia … Si tratta di un mercato di ideologie, e non di ideali. Esso allontana l’interpretazione e l’evoluzione del contenuto dei diritti umani dai fatti concreti di ciò che è favorevole o meno al benessere dell’uomo in tempi e territori diversi. Al contrario, privilegia preferenze culturali e politiche altamente contingenti rispetto alla genuina esperienza umana. In secondo luogo, si tratta di un mercato gestito da una circoscritta elite culturale. Il libero movimento dei diritti umani senza la dignità e l’universalità quali reali e concreti punti di riferimento apre il mercato proprio a ciò che le norme sui diritti umani erano inizialmente finalizzate a limitare e disciplinare … Infine, è un mercato di autoritarismo burocratico, a discapito della ragione pratica e della politica. Costituisce cioè un esempio di ciò che Pierre Manent deplora come depoliticizzazione delle nostre società in quanto il commercio transfrontaliero dei diritti umani riesce a rimuovere le questioni maggiormente dibattute e difficili dell’etica politica e sociale dalla sfera della deliberazione razionale collettiva, ponendole nelle mani di istituzioni che sono molto più estranee dal processo, confuso ma imprescindibile, di confronto reciproco, convincimento e decisione che si svolge negli ordinamenti democratici” [5].

Da questo punto di vista “le istituzioni di diritto internazionale e costituzionale (molte delle quali sono nettamente e deliberatamente escluse dal circuito della responsabilità politica popolare) esercitano un enorme controllo sul commercio internazionale dei diritti umani, così come una piccola manciata di soggetti nongovernativi, che sono diventati attori dello stesso mercato. Il mondo dei diritti umani quindi, spesso assomiglia ad un’oligarchia piuttosto ristretta, in cui il dissenso e la differenziazione sono fortemente limitate”

Questo è risultato evidente nel tema del matrimonio omosessuale: la cui espansione non è, generalmente, avvenuta grazie ad interventi popolari, ma attraverso interpretazioni evolutive se non di vera e propria rottura condotte dalla giurisprudenza. Il caso americano è particolarmente eloquente e denuncia gli effetti dirompenti che questo ha sull’equilibrio tra i poteri, generando talvolta dei veri e propri scontri ideologici e politici. Non si tratta di una vicenda circoscritta al famoso episodio californiano, il quale ha visto i cittadini di quello Stato emendare la Costituzione per vietare i matrimoni omosessuali a breve distanza dalla sentenza della loro Corte suprema che li aveva consentiti. In realtà, in tutti i trentuno Stati che hanno effettuato delle consultazioni popolari sull’estensione del matrimonio alle coppie gay, la popolazione si è sempre espressa per conservare la tradizionale fisionomia eterosessuale[6]. Dunque, il matrimonio omosessuale prevale talvolta nelle aule giudiziarie, ma perde costantemente alle urne[7]. Si tratta di una lettura del dato costituzionale e del ruolo popolare quantomeno più prudente e rispettosa del rapporto tra istituzioni e popolazione.

È dunque in questo contesto di circolazione di modelli e soluzioni, che tende ad allargarsi a macchia d’olio da un Paese all’altro grazie all’opera delle Corti e della dottrina, che sembra doversi inserire anche l’affermazione della medesima Corte costituzionale italiana, secondo la quale la libertà si identifica con l’autodeterminazione[8], ai sensi degli artt. 2 e 13 Cost. In effetti, non v’è alcun appiglio testuale che consenta l’uso del termine “autodeterminazione” nel quadro del nostro ordinamento costituzionale, né che legittimi la sua identificazione con il concetto di “libertà”, che invece la Carta usa in maniera estensiva. Tale novità lessicale è sicuramente priva di implicazioni immediate – la Corte in quel contesto si e’ occupata di una legislazione regionale che disponeva in tema di consenso informato, violando il riparto di competenze tra Stato e Regioni. Tuttavia, potrebbe preludere all’apertura a nuovi diritti, sulla scorta di quanto accaduto altrove: l’autodeterminazione potrebbe rappresentare il punto d’appoggio per sostenere tale espansione.

Si tratta peraltro di un processo di espansione che da qualche tempo essa trova spazio anche nella dottrina italiana. Sono ad esempio evidenti le assonanze tra il concetto di autodeterminazione e l’auspicio dell’ultimo Leopoldo Elia, il quale affermava che negli ambiti normativi eticamente sensibili il criterio da adottare doveva essere di tipo “facoltizzante”, cioè in grado di lasciare il massimo spazio per le determinazioni individuali[9].

 

3.      IL REFERENTE AUTOREVOLE: LA DIMENSIONE DELLA PRIVACY

Sembrano sussistere davvero pochi dubbi sulla logica che ha presieduto, nel lungo periodo, a un’espansione dei diritti in nome dell’autodeterminazione. Se nei decenni passati il terreno più fertile per lo sviluppo dei nuovi diritti era di certo quello economico-sociale, oggi i “nuovi diritti fondamentali” sorgono piuttosto sul tronco della privacy[10]. A sua volta, il diritto alla privacy  si è trasformato in un pervasivo diritto all’autoderminazione e alla libertà individuale, che poco ha in comune con il suo significato originario: se all’origine tale diritto intendeva individuare uno spazio privato entro il quale non potesse fare irruzione il potere pubblico, oggi invece esso ha un risvolto per così dire “positivo” ed esige perciò che l’autorità assicuri il soddisfacimento di desideri e aspirazioni riguardanti anche la sfera più personale, riservata e intima.

È, infatti, in un articolo comparso nel 1890 sull’Harvard Law Review, a firma di due giuristi destinati a segnare la storia dei diritti negli Stati Uniti e non solo, Warren e Brandeis, che il diritto alla privacy[11] viene teorizzato e soprattutto promosso. Si tratta di una forma di tutela che riprende la tradizione lockeana e l’illuminismo anglosassone per ricostruire un’area giuridica nella quale ciascuno ha il diritto ad “essere lasciato solo”: una sfera d’intangibilità nei confronti di qualsiasi potere, pubblico o privato.

Il campo al quale pensavano Warren e Brandeis era sostanzialmente quello privatistico e atteneva alla riservatezza, alla rispettabilità, all’onore e all’immagine, che dovevano garantirsi a ciascuno. La preoccupazione dei due era rivolta a proteggere chiunque dall’invadenza dei media. In quegli anni, episodi come l’irruzione di reporter e fotografi nella sala dov’era conservato il corpo del cancelliere Bismarck stavano suscitando l’indignazione di parte della popolazione e la reazione dei giuristi, che intendevano proteggere ciascuno da mercificazioni e speculazioni su fatti profondamente intimi e drammatici.

 

4.      L’AFFERMAZIONE DEL DIRITTO ALLA PRIVACY NELLA GIURISPRUDENZA.

Dopo la sua prima enucleazione, la privacy ha compiuto un percorso lunghissimo, soprattutto grazie alla giurisprudenza americana. Il primo uso significativo di un tale diritto si rinviene nella famosa sentenza Griswold[12], che dichiara illegittime alcune norme che vietavano la promozione e l’uso di contraccettivi anche tra coppie sposate. La Corte suprema, in quella circostanza, ha affermato che lo Stato non doveva occuparsi di aspetti così privati della vita personale.

Questo è stato però solo il primo passo della privacy. Nel giro di alcuni anni, il medesimo principio, nato per tutelare gli ambiti intimi e riservati della vita, viene esteso oltre essi, al punto che la sentenza Roe[13] ha affermato l’esistenza di un diritto all’interruzione della gravidanza, proprio facendo leva sulla privacy. Si tratta di una linea mantenuta in seguito, rispetto alla quale la Corte non ha mai chiaramente avvertito il cambio di passo, nell’usare per l’aborto il medesimo principio introdotto nel caso della contraccezione: ha anzi ritenuto che “per alcuni aspetti decisivi, la decisione di abortire è dello stesso carattere della contraccezione”[14].

Anche l’ultimo quinquennio ha visto un’estesa applicazione del principio della privacy, nel contesto soprattutto del matrimonio omosessuale. In quest’ambito, diverse Corti supreme statali sono intervenute modificando la tradizionale fisionomia dell’istituto matrimoniale. In particolare, quelle di Massachusetts[15] e California[16] hanno argomentato in termini di privacy. Si sono, infatti, concentrate sul diritto individuale al matrimonio, ritenendo che attenga all’intimità dell’individuo la scelta del partner, indipendentemente dal sesso.

Un altro recente fronte di espansione del diritto alla privacy riguarda l’eutanasia e la sospensione di idratazione e alimentazione. In questo ambito, tuttavia, l’interpretazione costituzionale americana sembra essere maggiormente articolata. La Corte suprema ha assunto e mantenuto nel tempo una posizione[17] che riconosce al soggetto il diritto costituzionale di decidere la sospensione delle forme di sostegno vitale, mentre ha sostanzialmente lasciato campo libero agli Stati, sia nel regolare il modo e le condizioni in cui questo diritto può essere esercitato, sia eventualmente nel consentire o vietare forme di suicidio assistito.

In particolare, il primo caso sull’interruzione di idratazione e alimentazione giunto alla Corte presenta forti elementi di analogia con quanto accaduto nella vicenda Englaro. La sentenza capostipite sul tema[18], infatti, è nata dalla vicenda di una famiglia che chiedeva la sospensione del sostegno vitale per la propria figlia, la quale, a causa di un incidente stradale, era caduta in uno stato vegetativo persistente e verosimilmente senza possibilità di uscita. La Corte suprema, in quell’occasione, ha ritenuto legittima la legislazione del Missouri, sulla base della quale era stata negata l’interruzione del sostegno. La normativa di quello Stato imponeva rigide condizioni per accertare la volontà del soggetto in stato vegetativo, che in quella circostanza mancavano. Si disponeva, infatti, soltanto di alcune testimonianze di amici, i quali riportavano il desiderio della donna di non vivere un’esistenza compromessa dalla malattia o da un grave incidente. La Corte suprema non ha dato corso alla richiesta d’interruzione, sebbene sostenuta da un diritto che pur ha ritenuto di pregio costituzionale, perché ha ritenuto che una disciplina statale possa legittimamente introdurre una significativa presunzione in favore della vita e disciplinare chiaramente le condizioni alle quali è possibile sospendere idratazione e alimentazione.

 

5.      LO SVILUPPO DELLE APPLICAZIONI DEL DIRITTO ALLA PRIVACY: VERSO L’AUTODETERMINAZIONE.

Mary Ann Glendon ha chiaramente mostrato come la privacy abbia rappresentato un grimaldello per aprire l’ordinamento costituzionale americano a nuovi diritti[19]. La filosofia politica lockeana, il carattere estremamente liberale dell’ordinamento statunitense e il suo debito nei confronti di quella ideologia hanno rappresentato degli snodi essenziali per utilizzare un valore, teorizzato nell’ambito del diritto civile e inizialmente sorto a proteggere l’immagine delle persone, nel campo dei diritti fondamentali[20].

Ad un certo punto, però, gran parte della dottrina americana favorevole ai nuovi diritti ha incominciato a rilevare come il criterio della privacy si fosse spinto troppo lontano rispetto alle premesse logiche che lo avevano sostenuto. Si è pertanto fatta strada la necessità di ricostruire diversamente tali diritti.

E’ stata così generalmente proposta una rilettura della privacy, per concludere che al di sotto dei nuovi diritti si situerebbe il principio della dignità umana.

Il valore della dignità effettivamente emerge con cadenza crescente nella giurisprudenza americana: alcune ricerche hanno comprovato che l’espressione “dignità umana” (o sue equivalenti), tra il 1825 e il 1980, sarebbe comparsa in centottantasette opinioni della Corte suprema, mentre dal 1981 al 2000 (quindi solo vent’anni) ben novantuno[21].

Il riferimento alla dignità, inoltre, non manca in genere nei casi in cui viene in rilievo la privacy – si tratti di rapporti omosessuali o matrimonio omosessuale. Anche la legislazione vi fa ricorso: la dignità addirittura fornisce la cifra della normativa dell’Oregon che consente l’eutanasia, infatti intitolata Legge sulla morte dignitosa.

L’abbandono della privacy sarebbe dunque rivolto a una migliore fondazione dei diritti che ne sono scaturiti. La dignità offrirebbe un appoggio più organico, razionale e unitario; anzi, darebbe giustificazione dell’espansione e del catalogo delle nuove fattispecie tutelate[22] molto meglio di un’evoluzione della privacy, nata sostanzialmente per tutelare la riservatezza e quindi non adatta a giustificare ad esempio l’aborto, che coinvolge medici e infermieri, o il matrimonio (omosessuale), istituzione dal carattere eminentemente pubblico[23]. A sua volta il carattere distintivo della dignità consisterebbe nell’autodeterminazione[24] (che peraltro tende a essere riconosciuto come principio di common law, quindi anche prescindere dalla legislazione costituzionale e ordinaria, aumentandone la forza espansiva)[25].

In sintesi, quindi, lo schema evolutivo potrebbe essere così ricostruito: la privacy avrebbe storicamente ricavato un nuovo spazio per i diritti nel costituzionalismo contemporaneo, spazio poi occupato concettualmente dalla dignità umana, a sua volta monopolizzata dal tema dell’autodeterminazione. Al termine di questo percorso, l’autodeterminazione rappresenterebbe ormai il nucleo essenziale della dignità umana: l’aspetto davvero intoccabile del valore umano consisterebbe nella capacità di decidere le proprie azioni e il proprio destino.

Il legame logico e temporale che unisce privacy a dignità e autodeterminazione si ritrova, del resto, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo o anche, in maniera crescente, nell’ordinamento italiano.

Si tratta di una logica, come prima ricordato, affetta da amnesia storica, sostanzialmente parassitaria dell’originario concetto di dignità elaborato dai costituenti europei all’alba della ricostruzione sulle ceneri lasciate dalla II guerra mondiale. Come ha lucidamente scritto M. A. Glendon “Il sogno di diritti dell’uomo universali, realizzato grazie al sangue dei martiri della libertà, rischia di dissolversi in frammenti di diritti di autonomia personale. Non sembra fantasioso immaginare che nuove libertà sessuali potrebbero un giorno diventare premi di consolazione per la perdita di reali libertà politiche e civili e per la negazione della giustizia economica e sociale. Sarebbe veramente ironico se, nella nostra epoca di comunicazioni rapidissime, la decisione sulle questioni più importanti – del tipo ‘come dovremmo vivere insieme?’ – dovesse venire meno.  Sarebbe tragico se, al termine di un secolo violento, gli uomini e le donne di nazioni diverse dovessero rinnegare l’umanità che condividono e che rende questa comunicazione possibile”[26].

 

 

6.      IL CONTESTO ITALIANO.

A)    LE ANALOGIE COL MODELLO AMERICANO: PRIVACY, AUTODETERMINAZIONE E DIGNITÀ UMANA NELLA GIURISPRUDENZA ITALIANA

Dottrina e giurisprudenza italiana hanno pescato nell’individualismo liberale e soprattutto nel vasto capitale di sentenze delle Corti supreme americane per affrontare i casi che nell’ultimo decennio sono giunti alla loro attenzione. A parte il moderato uso che finora è stato fatto del termine “autodeterminazione”, i risultati sono stati analoghi o persino superiori a quelli ottenuti negli Stati Uniti utilizzando un tale criterio, mentre in altri casi si è di fronte a questioni ancora aperte, che non mancano o non mancheranno di essere portate all’attenzione della Corte costituzionale.

Si può citare il notissimo caso Englaro, per rileggerlo alla luce delle categorie viste più sopra. La Corte di Cassazione[27] ha legittimato la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione con chiari riferimenti all’esperienza americana. Ha menzionato la dignità umana quale valore dal “sicuro fondamento costituzionale” e dato una lettura dei principi personalista, di libertà personale e del diritto alla salute tale da aprire la strada a un’interruzione di idratazione e alimentazione[28]. Inoltre, non ha distinto tra cure e sostengo vitale, semplicemente concentrandosi sulla condizione di stato vegetativo irreversibile, “secondo gli standards riconosciuti a livello internazionale”, quale premessa indispensabile alla cessazione della vita.

La Cassazione sembra essersi spinta persino oltre i precedenti americani quando ha consentito tale interruzione in mancanza di una normativa in materia. La giurisprudenza della Corte suprema ha infatti enunciato il diritto a interrompere idratazione e alimentazione, ma ha consentito agli Stati ampi margini nel regolarne l’esercizio, per garantirne la corrispondenza con la reale volontà del soggetto nei casi in cui questo non sia in possesso delle facoltà intellettuali al momento dell’interruzione. Al contrario, la Cassazione ha dedotto dalla Costituzione, dalla deontologia medica e da fonti sovranazionali il diritto a interrompere le forme di sostegno vitale e lo ha ritenuto immediatamente azionabile, escludendo che spetti al legislatore un necessario ruolo regolativo.

Nel caso Englaro, si è inoltre verificata un’attenuazione della tutela del bene-vita stesso, poiché la Cassazione ha menzionato una serie di indici estremamente ampia, dai quali dedurre la volontà del soggetto a proposito del sostegno vitale. Non a caso, lo Stato del Missouri non ha ritenuto sufficiente una testimonianza di un conoscente, per autorizzare la sospensione di alimentazione e idratazione, e la Corte suprema ha ritenuto ragionevole quest’orientamento.

La vicenda Englaro ha infine toccato, implicitamente ma in maniera incisiva, il tema della privacy, a ulteriore conferma della profonda connessione che lega questo concetto al tema dell’autodeterminazione. L’episodio forse più eloquente è rappresentato dalla sentenza della Cassazione[29] che ha dichiarato inammissibile l’impugnazione del Procuratore della Corte d’Appello di Milano contro il decreto che consentiva l’interruzione del sostegno vitale. Tra le motivazioni dell’inammissibilità, secondo la Corte, si situa la mancanza di un interesse pubblico del P.M. al ricorso. Nel caso Englaro, saremmo di fronte ad un “diritto personalissimo del soggetto di spessore costituzionale (come, nella specie, il diritto di autodeterminazione terapeutica, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale) – all’esercizio del quale è coerente che il P.M. non possa contrapporsi fino al punto della impugnazione.”[30] In sostanza, il P.M. non potrebbe intervenire poiché non è in gioco alcun interesse pubblico, come invece accade nei casi di nomina di un curatore speciale dell’incapace, o per la sostituzione dell’amministratore del patrimonio familiare, o semplicemente per l’apposizione dei sigilli ai beni ereditari, nei quali l’ordinamento concede, in varia misura, uno spazio al P.M.. Collocare il caso della sospensione di alimentazione e idratazione, che conduce alla morte, su un gradino inferiore a questi ultime ipotesi, echeggia chiaramente la nota logica della privacy, che pone un diaframma tra il soggetto e la collettività, a tutela del primo nei confronti della seconda.

Un caso che merita brevi cenni, perché ancora aperto ma probabilmente destinato ad avere una vasta eco, riguarda il matrimonio omosessuale. Il Tribunale civile di Venezia ha infatti ricalcato l’esperienza americana, anche citandola esplicitamente, nell’emettere l’ordinanza di rimessione[31] attraverso la quale ha investito la Corte costituzionale del tema. Nell’ordinanza[32] si individua la logica dell’autodeterminazione. Questa caratterizzerebbe la struttura stessa del matrimonio, giacché il Tribunale insiste sul diritto a sposarsi con “la persona prescelta”: un diritto non ulteriormente qualificato dalla differenza sessuale. L’autodeterminazione del soggetto nel decidere con chi contrarre matrimonio sarebbe piena, quanto alla scelta etero oppure omosessuale, perché non avrebbe di fronte alcun “pericolo di lesione ad interessi pubblici o privati di rilevanza costituzionale, quali potrebbero essere la sicurezza o la salute pubblica”, sulla base dei quali limitare le opzioni disponibili.

 

B)     LA COSTITUZIONE ITALIANA E LE DIFFERENZE DAL MODELLO AMERICANO: LA DIMENSIONE SOCIALE, IL LUNGO CATALOGO DI DIRITTI. LA “COSTITUZIONE PRESA SUL SERIO”.

 

Nonostante l’attivismo giurisdizionale appena accennato, che coglie esplicitamente o velatamente spunti provenienti d’Oltreoceano per innestarli nell’ordinamento italiano, sembrano sussistere diversi ostacoli a una tale importazione. Molti argomenti militano contro l’inserimento di tali diritti, per lo meno nella forma con la quale si presentano altrove. Si tratta di ostacoli di natura costituzionalistica o di pura coerenza giuridica, che non attengono neanche al diritto naturale o all’etica politica.

Prima di mostrare come l’espansione del catalogo di diritti rischi, almeno in qualche misura, di tradire parte consistente della tradizione costituzionale italiana, conviene dare spazio a due osservazioni di ordine generale, che consentono di cogliere quanto il costituzionalismo italiano sia lontano da quello americano. Questo naturalmente non impedisce la comparazione o persino l’utilizzo dei risultati raggiunti all’estero, ma impone di considerare come la loro assimilazione nel nostro contesto debba passare un vaglio particolarmente attento. Non è necessario sposare la nota tesi del giudice della Corte suprema americana Antonin Scalia, il quale si fa interprete di una lettura particolarmente purista del testo della Costituzione americana[33], per affermare che se la comparazione è ottima per scrivere una costituzione, non è affatto valida per interpretarla. L’esperienza estera può aiutare la comprensione del proprio testo costituzionale, ma magari proprio per metterne in luce l’irripetibilità e l’originalità.

In primo luogo, il contesto americano è segnato da Costituzioni statali e federale plurisecolari, sorte nell’epoca del liberalismo, con una moderata o persino scarsa attenzione alla dimensione sociale e collettiva delle istituzioni e del diritto. Tale struttura liberale è andata incontro a non poche oscillazioni – Bruce Ackerman[34] ha persino parlato di constitutional moments, individuandone almeno due nella storia costituzionale americana – che hanno visto la Corte suprema federale giocare un ruolo da protagonista, soprattutto in forte dialettica con il Presidente degli Stati Uniti. Le Corti americane hanno dunque tradizionalmente un ruolo molto forte nella produzione giuridica. In questo sono sostenute sia dalla tradizione di common law, sia dal macchinoso sistema che rende spesso impraticabili le riforme costituzionali e le costringe ad un’attività di supplenza, sia dal fatto che il loro sistema di nomina – si pensi alla scelta presidenziale e al consenso del Senato – replica una forma di investitura popolare, seppure indiretta, che non solo non è nelle corde della sensibilità italiana, ma non trova che parziale analogia con la nostra Costituzione.

Dunque, un primo dato da trattenere sembra il carattere essenzialmente politico e innovativo che la giurisprudenza delle Corti americane ha spesso assunto: carattere molto meno comprensibile in un contesto costituzionale, come quello italiano, che ha solo sessant’anni di vita ed un catalogo di diritti molto più nutrito e cadenzato, e che pertanto dovrebbe consentire minori spazi di manovra alla Corte costituzionale e alle altre autorità giurisdizionali.

Un secondo dato da evidenziare con forza è quello dell’evidente carattere sociale della Costituzione italiana. Debitrice dei movimenti social-democratici e del pensiero sociale cattolico, la Costituzione italiana contrappone all’individualismo liberale il personalismo, che sancisce all’art. 2 assieme al principio pluralista. In questo senso, la Cassazione, nel ritenere che il diritto alla salute abbia una dimensione soltanto individuale e capace di precludere l’intervento del P.M., sembra cadere in un errore innanzitutto di interpretazione. La Costituzione italiana, per usare un’affermazione di Habermas, è costruita sulla realistica considerazione che i “progetti di vita individuali non si formano al di fuori di contesti di vita intersoggettivamente condivisi”[35]: opporre individuo a collettività, come fa la Cassazione è, pertanto, decisamente lontano dal nostro DNA costituzionale. Questa forte dimensione sociale della nostra costituzione non sembra proprio consentire un’ermeneutica che affronti il tema della libertà a partire dalla logica dell’autonomia e della privacy. E’ interessante rilevare, come fa Paolo Moro, che la Corte costituzionale italiana ha in realtà sempre nettamente distinto i diritti proprietari da quelli personali, secondo un’impostazione che non è riconducile a quell’assetto individualistico dove, in fondo, il diritto alla vita è ricondotto, come ha precisato Francesco Cavalla  nell’ambito di “un libero godimento di una proprietà esclusiva”.

Sembra quindi piuttosto pacifico che il ricorso al principio di autodeterminazione, se isolato dai singoli diritti, non aiuta affatto una ricostruzione coerente, attuale e rispettosa del dato costituzionale. Estremamente influenzato dalla logica individualista estranea alla Costituzione italiana, esso racchiude una forza espansiva che non tiene conto di alcuni dati salienti del nostro contesto costituzionale, tra i quali il personalismo, il principio democratico e, se si vuole, quello dell’uguale dignità (v. infra).

Se quindi sul tema della vita s’intende ricavare al principio di autodeterminazione una collocazione costituzionale, bisogna avere il coraggio di affermarne fino in fondo la portata dirompente rispetto alla nostra tradizione costituzionale. Esso non è quindi un valore in grado di orientare, interpretare ed espandere i diritti e i principi costituzionali.

Non ha una consistenza autonoma: al più, è in grado di descrivere la facoltà di ciascuno di esercitare i diritti però riconosciuti dalla Costituzione.

Alla luce di queste considerazioni un ulteriore affondo può essere ancora proposto sulla della Cassazione nel caso Englaro, che dando corso alla richiesta di cessare i sostegni vitali, ha in realtà contraddetto il principio di uguale dignità degli esseri umani. Infatti, non ha distinto il corpo dagli altri beni di cui si può disporre, ma non ha neppure enucleato un chiaro diritto a disporre del bene-vita, in termini generali, per concludere che chiunque può decidere quando porre termine alla propria esistenza. In questo modo, la Corte ha evitato di affermare che un soggetto possa sempre disporre della propria vita, evitando un chiaro conflitto con le basi del costituzionalismo, secondo il quale esiste un nucleo di valori e diritti intangibili e inalienabili, come la vita, poiché la loro rinuncia coinciderebbe con la loro violazione. Come in dottrina e’ stato efficacemente sostenuto, sarebbe una vera e propria “contraddizione in termini garantire anche un diritto alla morte”[36]. Secondo la Corte, è invece la circostanza del cd. stato vegetativo persistente (o permanente) a consentire al soggetto di rinunciare al bene-vita. Ha delimitato il principio di disponibilità della vita, sostenendo che questo opera solo quando un soggetto si trova in “uno stato di assoluta soggezione all’altrui volere, [in base ad una serie di] fattori che appaiono nella specie prevalenti su una necessità di tutela della vita biologica in sé e per sé considerata.”[37] La regola generale dell’indisponibilità della vita subirebbe dunque una deroga in casi come questo. Questa non sembra una soluzione accettabile. Come la filosofia politica americana ha ben messo in evidenza[38], la formula della “morte dignitosa” poggia su una logica che attribuisce a certi stati o forme di vita una dignità inferiore. L’esistenza di soggetti come Eluana Englaro potrebbe cessare, perché indegna – o meno degna – di essere vissuta. Quest’argomentazione, confligge frontalmente con l’uguale dignità degli esseri umani, proprio perché attribuisce ad alcune esistenze un livello di dignità inferiore. Più che assicurare una morte dignitosa, sembra voler evitare certe forme di vita umana perché le considera indegne[39]. Il soggetto può disporre della propria vita, perché questa riveste minor valore di altre. Peraltro, una tale concezione ha dei confini davvero incerti, perché non chiarisce affatto quali siano gli stati di vita che si possono interrompere. Ne è un esempio ancora la stessa sentenza della Cassazione, che nell’argomentare parla del diritto a disporre di se per i malati terminali, sebbene Eluana Englaro non fosse facilmente qualificabile quale malato, né chiaramente si trovava in stato terminale.

In conclusione sembra chiaro, dunque, che anche accedendo alle letture “dignitarie” della Costituzione italiana, non vi sia spazio per l’autodeterminazione personale rivolta alla morte.

Al contrario, la Costituzione sembra riservare al legislatore il compito di bilanciare la direttrice costituzionale che vuole tutelato il bene-vita con il diritto del malato di decidere in che modo affrontare i processi patologici, anche nel caso in cui egli sia incosciente.

Un’interessante formula sembra quindi essere racchiusa nel concetto di “alleanza terapeutica”, non a caso ripreso nella proposta di legge che si occupa del testamento biologico e delle dichiarazioni anticipate di trattamento, passata al vaglio del Senato e ora alla Camera[40]. “Alleanza terapeutica” è un’espressione sintetica che, interpretando la dinamica paziente-familiari-medico nella sua complessità, sembra riflettere la concezione personalistica del soggetto, cogliendolo nella trama di rapporti con i quali affronta la malattia, e non isolandolo dal contesto.

Ad esempio, nel caso della legislazione italiana sull’interruzione della gravidanza, il focus è invece collocato sul bene-salute: si tratta di un dato essenziale nella comprensione e nella soluzione dell’attuale controversia sull’utilizzo della pillola Ru486. Riservatezza, minore traumaticità dell’evento ecc. sono dati non ininfluenti, ma che naturalmente non possono mettere a repentaglio il bene-salute. Se questo risulta meglio garantito col ricovero, la somministrazione del farmaco deve avvenire attraverso la permanenza in una struttura ospedaliera, a meno di non tradire lo spirito e la lettera della l.n. 194/78 che consente l’aborto solo per ragioni di salute.

 

7.      SINGOLARITÀ E PARADOSSI CHE IMPONGONO UNA RIFLESSIONE RADICALE.

E’ ora utile cercare di sviluppare un’ulteriore considerazione, che prende spunto proprio dal caso italiano, dove in forma più evidente che altrove si verifica un singolare ma emblematico paradosso. Mentre si è disposti a teorizzare a oltranza la libertà di scelta nell’ambito privatistico delle preferenze individuali (libertà sessuale, libertà di morire, libertà di abortire, ecc.), riguardo all’ambito pubblicistico delle preferenze sociali (libertà di scelta tra servizio pubblico e privato, scuola pubblica o scuola privata, ecc.) permangono forti resistenze. Come mai il diritto all’autodeterminazione è invocato in certi ambiti e, di fatto e di diritto, negato in altri? E’ un paradosso molto singolare, che merita di essere approfondito.

E’ utile ricordare che nel nostro ordinamento è stato storicamente segnato da una corrente liberale di matrice statalista: per sintetizzare, si tratta di quella che ha condotto all’emanazione, sul finire dell’Ottocento, della legge Crispi che portò alla nazionalizzazione di 22.000 Opere pie, sul presupposto che l’assistenza sociale doveva essere solo statale. Si è trattato di una concezione rispetto alla quale la Costituzione italiana, come ha lucidamente evidenziato Paolo Grossi, ha segnato, proprio attraverso i principi personalista e pluralista, una chiara soluzione di continuità[41].

Nonostante questa svolta quella concezione ha tuttavia continuato a condizionare il dibattito, basti pensare alla questione scuola pubblica/scuola privata, oppure alle resistenze che si continuano a registrare a livello culturale, giuridico ed economico su quel tema così caro alla dottrina sociale della Chiesa cattolica e ora ripreso con forza nella Caritas in Veritate che è il principio di sussidiarietà.

Generalmente in Italia la corrente culturale che è favorevole all’autodeterminazione nell’ambito individualistico della vita privata è la stessa che combatte l’autodeterminazione rispetto al principio di sussidiarietà e ai suoi presupposti sociali. In essa continua a dominare l’idea che qualunque intervento del privato (“autodeterminazione” come possibilità di concorso al bene comune e come libertà di scelta dell’utente) nell’assistenza, nella sanità, nell’educazione, nel tempo libero, sia portatore d’interessi particolari in contrasto con il bene comune, misconoscendo che ci sono ideali che muovono le persone per il beneficio della collettività, come mostra la realtà, anche storica: Don Bosco salvò centomila ragazzi dalla strada. Eppure secondo questa corrente Don Bosco non avrebbe dovuto fare quello che era compito di un assistente sociale e i genitori dei ragazzi avrebbero dovuto affidarsi a una struttura pubblica e non a un prete. Basta leggere il recente e infelice articolo di Giavazzi recentemente apparso sul Corriere della Sera[42] per ritrovare il principio di questa impostazione: s’intitola Famiglia Le virtù e i costi (alti) del Welfare all' italiana e sostanzialmente, attaccando le affermazioni contenute nel Libro Bianco sul Welfare del Ministro Maurizio Sacconi[43],  finisce per definire la famiglia una “palla al piede”  e tesse le lodi del modello individualistico.

Di fronte a questa impostazione è utile scendere in profondità e considerare l’antropologia che fonda questi modelli di pensiero, perché sia il modello individualista sia quello statalista hanno alla loro base una antropologia di tipo negativo.

L’ha recentemente evidenziato Pierpaolo Donati, mettendo in luce come il Welfare del mondo fordista si sia sviluppato sulla contrapposizione moderna (hobbesiana) fra pubblico (Stato) e privato (il mercato dell’homo homini lupus), dove “pubblico” veniva poi spesso assiomaticamente associato a “morale” e “privato” a “immorale” proprio per escluderne la valenza a fini sociali: poiché della socialità della persona umana non ci si può fidare, si limita il pluralismo sociale e la rilevanza delle formazioni sociali intermedie[44]. In altre parole, la società non è una dimensione originale, cioè non è legata a quelle esigenze ed evidenze di verità, giustizia, bellezza che costituiscono la natura umana, ma è il frutto di un contratto.

Egualmente avviene nella dottrina individualistica; apparentemente mossa da una logica opposta, l’immagine di società tipica del liberismo di stampo neoclassico è in realtà fondata sulla stessa antropologia negativa. Alla base dell’immagine di società tipica di questa ideologia c’è un’idea d’individuo puramente egoista che risponde esclusivamente a motivazioni economiche. E' l'idea della “mano invisibile” che questa scuola di pensiero economico ha tratto da Adam Smith: una mano invisibile che guida i singoli interessi egoistici privati al di là delle loro specifiche intenzioni, componendoli in una totalità che sfugge allo sguardo parziale dell’individuo[45].

Francesco Cavalla ha bene evidenziato questo punto di partenza in suo recente lavoro, dove mette in evidenza la differenza tra Locke e Sant’Agostino. In Locke – afferma Cavalla – non viene riconosciuto un “diritto alla vita”, quanto piuttosto un “diritto sulla vita”, mentre in Agostino c’è l’idea di una socialità originaria, di una civitas primaria, dove “trova fermissimo fondamento il carattere sacro della vita”[46].

In effetti, l’ordine sociale di cui parla Agostino nasce dalla socialità propria della natura umana; è un ordine che ha una sua bellezza propria[47]. Non nasce dal peccato originale l’ordine della società; è ferito, come ogni dimensione umana, dal peccato, ma nasce dalla natura umana creata buona da Dio e dalla sua esigenza di socialità. Si tratta di una radicale differenza rispetto all’antropologia negativa che è propria, invece, anche della tradizione luterana[48].

Non è casuale che le concezioni costruite su un’antropologia negativa, mentre affermano un diritto sulla vita, finiscano poi per delegare allo Stato. L’ha acutamente messo in evidenza Paolo Moro, in un recente saggio: “richiamando i luoghi comuni della legislazione e della giurisprudenza dell’età contemporanea, si può notare che la pretesa autosufficienza morale e giuridica dell’individuo … porta al trasferimento dei suoi diritti fondamentali all’ente pubblico sovrano, attraverso il postulato concettuale del contratto sociale e della volontà generale …. L’ordinamento che appare come il più liberale, proclamando l’individuo padrone del proprio corpo e del proprio destino, è in realtà il meno liberale, poiché la tutela della vita e della dignità umana, che divengono beni soggetti alla libertà di disposizione del singolo, è delegata allo Stato, che esercita così paradossalmente il diritto alla autodeterminazione … i diritti fondamentali come la vita e la libertà personale, sono soggetti al principio burocratico del consenso del soggetto che, ritenendosi emancipato da qualunque condizionamento diverso dal proprio potere di decidere, è costretto a delegare allo Stato (al giudice, al legislatore, al burocrate) la tutela della propria libertà e della propria salute”[49].

E’ questo l’esito finale e paradossale di questa cultura fondata su un’antropologia negativa, individualista o statalista, che in ultima analisi si dimostra negatrice della libertà. Questo è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole per mettere sotto controllo il “lupo”che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi[50].

Un esito analogo era già stato prefigurato in una splendida pagina di Alexis de Toqueville: “Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini uguali …. Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare …. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore … Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio, e toglie, a poco a poco a ogni cittadino, fino l’uso di se stesso. … Il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la folla; esso non sprezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca, non distrugge, ma impedisce di creare, non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi della quale il governo è pastore. Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo” [51].

La ricerca di una via di uscita da questi esiti paradossali - la generazione di diritti insaziabili e la delega dell’autodeterminazione allo Stato - credo che non possa prescindere dal tornare a riflettere sulla struttura costitutiva di quella civitas originaria cui Agostino fa riferimento, cioè sul rimettere al centro un’antropologia positiva che sia in grado di smascherare tutta l’ideologia che, più o meno consapevolmente, inquina il dibattito sulla autodeterminazione. 

Si tratta peraltro di esiti che non solo rimangono confinati in questo ambito, ma che hanno prodotto effetti devastanti anche nel sistema economico: basti pensare a un fenomeno come la grande crisi finanziaria che stiamo ancora attraversando come una terra incognita. La radice in fondo è unica: tutta l’esaltazione della finanziarizzazione dell’economia aveva come alla base un’antropologia negativa, fondata sull’avidità e negatrice della tradizione[52]. Non a caso oggi, gli spiriti più illuminati - non certo i Giavazzi che continuano imperterriti e sordi anche di fronte a quelle grandi lezioni che la storia a volte impartisce (“i fatti sono ostinati”, fa dire Michail Bulgakov al personaggio di Il Maestro e Margherita) – propongono, in  alternativa al mercatismo, il modello dell’economia sociale di mercato. Uno dei suoi fondatori, Ropcke, evidenziava con chiarezza come il modello dell’economia sociale di mercato si fondasse su un’antropologia positiva. Alla domanda “che cosa è il liberalismo?”, egli rispondeva “Esso è umanistico. Ciò significa: esso parte dalla premessa che la natura dell’uomo è capace di bene e che si compie soltanto nella comunità”[53].

Su questo piano è utile richiamare anche un altro grande autore, il premio Nobel Kenneth Arrow, che allo stesso modo, dal suo punto di vista, in un testo classico dell’economia contemporanea sul nesso tra utilità individuali e benessere collettivo, rivoluziona il paradigma hobbesiano. Secondo Arrow: “L’ordinamento rilevante per il raggiungimento di un massimo sociale è quello basato sui valori, che rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi gli importanti desideri socializzanti”[54]. Contro le utopie neoclassiche e i paradigmi hobbesiani, il suo contributo arriva a conclusioni analoghe a quelle appena ricordate. I “desideri socializzanti” sono lo strumento per generare aggregazioni dove gli individui, per consenso ideale e non per coercizione, si accordino alla ricerca di un bene comune che soddisfi ognuno e costruiscano iniziative economiche che concilino utilità individuale e benessere collettivo.

E’ quindi in questa l’antropologia positiva, riconosciuta capace di “desideri socializzanti”, che si può ritrovare una bussola nuova per orientare il dibattito. In questi desideri se rimanete considerati - parafrasando il celebre volume di Dworking, I diritti presi sul serio, si potrebbe dire “i desideri presi sul serio”) - trova infatti fondamento non solo la legittimazione sociale/sussidiaria, ma anche, sul piano dei diritti, il riconoscimento di qualcosa di indisponibile. Occorre infatti riscoprire, all’interno di questa antropologia positiva, la vera portata del desiderio socializzante, che non è né mero istinto di conservazione, né egoismo, né tanto meno pretesa di autodeterminazione.

Da questo punto di vista è opportuno rifarsi alla nozione di “esperienza elementare”, elaborata all’interno del pensiero e dell’opera di Luigi Giussani, per indicare quel “complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste”. “La natura” - secondo Giussani - “lancia l’uomo nell’universale paragone, con se stesso, con gli altri, con le cose, dotandolo - come strumento di tale universale confronto - di un complesso di evidenze ed esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che l’uomo dice o fa da esse dipende”.[55]

E’ certo, infatti, che questa esperienza elementare non erge l’uomo a ultimo tribunale, non lo lascia nelle nebbie di una teorizzazione meramente arbitraria, relativista e soggettiva. Se presa sul serio, essa individua un quid indisponibile, nel senso anche d’inestirpabile, che configura quella sproporzione strutturale di leopardiana memoria in cui si ritrova la voce del Mistero, che esige un sacro rispetto.  È quella che un credente chiama “scintilla di Infinito” e che anche un agnostico o un ateo possono definire come “irriducibilità della persona”[56].

Si tratta di qualcosa che attiene a quelle istanze, che, come ha affermato Benedetto XVI,  “trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo”, tra cui primaria rilevanza ha sicuramente quel "senso religioso" in cui si esprime l'apertura dell'essere umano alla Trascendenza”[57].

Se presi sul serio, questi desideri socializzanti possono quindi consentire perlomeno di identificare un contenuto minimo indisponibile. Come ha evidenziato Marta Cartabia, “quando ci interroghiamo su problemi come la pena di morte, o quanto meno la pena di morte applicata a persone particolarmente deboli, come i minori o i minorati mentali; quando ci interroghiamo su pratiche diffuse in alcune culture passate o presenti, some i sacrifici umani, il cannibalismo, la schiavitù o la segregazione razziale; quando ci interroghiamo sulla persistente discriminazione diretta o indiretta sulla base del sesso, quando – in una parola - si attinge alle questioni basilari, fondamentali, elementari dei diritti umani, il discorso relativista ha una battuta d’arresto e cede il passo all’imperativo di riconoscere e riaffermare un patrimonio comune od ogni uomo. Nessun sostenitore del multiculturalismo sarebbe disposto, credo, a ritenere che le diversità culturali possono giustificare il cannibalismo, i sacrifici umani, le mutilazioni genitali ed altre pratiche evidentemente lesive della dignità umana. Persino le correnti più sensibili alle istanze del multiculturalismo e al valore delle diverse culture non esitano a riconoscere il patrimonio comune ad ogni essere umano … emblematicamente, Charles Taylor, afferma che ‘l’eguale dignità non può non postulare che esistano dei principi universali ciechi alle differenze. Possiamo non essere riusciti a definirli, ma esistono’ ”[58].

Al di là di quanto sembra sottendere la pretesa relativizzazione ideologica in nome dell’autodeterminazione, sul piano dei diritti umani sembra quindi fuori discussione l’esistenza di un nucleo indefettibile appartenente ad ogni uomo. Il problema aperto è semmai quello di afferrarne con sufficiente chiarezza i contenuti: a questo riguardo che occorre il coraggio di andare avanti, di compiere lo sforzo per recuperare la necessaria dimensione oggettiva del soggetto, per riscoprire “ciò che è giusto e costitutivamente inerente alla natura umana, senza che lo si possa esorcizzare o svilire, come invece è accaduto nella lunga parte finale della modernità”[59]. In altre parole, l’esigenza di individuare “un parametro comune” da contrapporre all’esaltazione di “tutti i bisogni e tutti i desideri”[60].

Questo è comunque il punto da cui sarebbe interessante partire per ricostruire una filosofia e una teoria della conoscenza, dove si riscatti la parola “esperienza” dall’interpretazione riduttiva data dall’empirismo e dal soggettivismo[61].

Si apre, in questa prospettiva, la possibilità di recuperare tutta la soggettività, propria dell’anelito della modernità, senza però decadere nel soggettivismo, individuando un criterio fondamentale di giudizio, che è se è tutto interno al soggetto e al suo dramma esistenziale, è altresì oggettivo, sostanzialmente uguale in ogni uomo: “è solo qui, in questa identità ultima della coscienza, il superamento dell’anarchia. L’esigenza della bontà, della giustizia, del vero, della felicità costituiscono il volto ultimo, l’energia profonda con cui gli uomini di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto”[62].

La concezione di uomo mosso da un impulso positivo in sé e verso altri uomini viene peraltro documentata costantemente nella dottrina sociale e da ultimo nell’Enciclica Caritas in veritate, dove si parla dell’uomo come essere sociale a immagine della Trinità[63]: “[…] La creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale” (N. 53). “Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità” (N. 5).

E’ importante però un nota bene: occorre un’adeguata educazione per prendere sul serio i desideri; un’educazione e un’appartenenza a luoghi dove chi vi partecipa sia corretto dalla sempre possibile caduta e avvenga un’educazione al bello, al vero, al giusto. Questa è la sintesi rispetto ai modelli basati su un’antropologia negativa: l’educazione in un’appartenenza a comunità intermedie, invece che la delega allo Stato … invece dello “Stato di polizia”.

All’interno di questa antropologia positiva può inoltre essere ritrovata la strada per orientare in termini nuovi e più appropriati il dibattito, senza correre il rischio di una difesa che possa apparire solamente tradizionalista. Al contrario, nella riscoperta dell’antropologia positiva può essere raccolta la sfida di quella scintilla d’inquietudine che positivamente sembra emergere in certe correnti della post modernità. In un recente commento a un preciso passaggio della Caritas in Veritate[64], il Cardinale Angelo Scola ha messo in evidenza la differenza tra il pensiero moderno e quello post moderno: in quest’ultimo le domande fondamentali sembrano emergere dentro le stesse scienze economiche o biologiche, e non sono più mero appannaggio della sola filosofia o teologia, o di un interesse indiretto del singolo, ma sorgono all’interno, al cuore delle stesse scienze.

E’ opportuno raccogliere la sfida di questa provocazione, anche nel campo dei diritti umani e del loro fondamento.

La riscoperta della dimensione oggettiva e positiva della soggettività umana, recuperata favorendo il metodo di interrogare l’esperienza elementare piuttosto che quello di attingere alle ideologie o ai luoghi comuni[65], potrebbe permette quindi di approfondire in termini di valore, sul piano giuridico, la nozione - acutamente suggerita da Spadaro - di ragionevolezza[66], consentendo così di sviluppare ulteriormente la considerazione che porta a ritenere fondamentali solo i diritti umani ragionevoli, non altrettanto e allo stesso modo invece alcuni di quelli che oggi si tenta indiscriminatamente di inserire nel novero dei nuovi diritti.

In questa riscoperta può essere individuato un antidoto efficace al rischio del parossismo su cui l’accezione individualistica del principio di auto determinazione - incompatibile, come si è visto, con la dimensione sociale della nostra Costituzione - sta favorendo lo sviluppo della selva (e del traffico) dei “diritti insaziabili”. “Quanti delitti in nome della libertà”, constatava Madame de Roland.

Lo sforzo della scienza giuridica può essere quello di cercare di raccogliere in termini moderni (o meglio post moderni) l’insopprimibile esigenza della ragione di “riguadagnare un accesso all’esperienza e alle evidenze che le sono proprie”[67], facendo emergere quel background di diritto naturale che può essere in grado di garantire un ordine ragionevole fondato sulle dimensioni elementari che denotano la struttura umana.


 

[1] Al riguardo mi sia consentito di rimandare a Antonini L., a cura di, Il traffico dei diritti insaziabili, Milano, 2007, 5.

[2] Cfr., amplius, Cartabia M., La Costituzione italiana e l’universalità dei diritti umani, in www.astrid.it; IDEM, a cura di, I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle corti europee, Bologna, 2007.

[3] Ad esempio, D’Agostino F., RU486/Ecco perché tocca alla politica fermare l’aborto a domicilio, in www.ilsussidiario.net, 25 novembre 2009, afferma, ad esempio, che “Il compito di cui i bioeticisti dovranno farsi carico e’ quello di riformulare alla radice il tema dell’autodeterminazione”.

[4] Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558 (2003).

[5] Carozza P., Il traffico dei diritti umani nell’età postmoderna, in Antonini L., Il traffico dei diritti insaziabili, cit. 2007, 89, ss.

[6] Hall M., Gay-rights advocates to regroup, Usa Today, 5 novembre 2009, p. 8B.

[7] Una lettura del dato costituzionale capace di creare una tale frattura tra la popolazione e le istituzioni è del resto scongiurata dalla medesima dottrina americana favorevole al matrimonio omosessuale, parte della quale ammette che è meglio puntare sul procedimento legislativo, anziché su interventi correttivi delle Corti. E’ la posizione di Erskridge, cit., p. 248. Per l’Italia, si veda Veronesi P., Costituzione, “strane famiglie” e “nuovi matrimoni”, in Quaderni costituzionali, 2008, p. 577-604.

[8] Sent. n. 438/08: “La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione” (punto 4). Con la sent n. 253/09 la Corte ha poi ribadito il proprio orientamento.

[9] Introduzione ai problemi della laicità, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[10] Si veda il caso Tysiac c. Polonia (ric. n. 5410/03). In questo caso, deciso nel 2007, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha censurato lo stato polacco come chiedeva la ricorrente, andata incontro alla cecità perché la legislazione di quello Stato, come applicata concretamente nel suo caso, non le avrebbe consentito di abortire e pertanto evitare i danni alla vista che la gravidanza le avrebbe procurato. La Corte ha avallato la richiesta della donna non in base al diritto all’integrità fisica, ma in base al diritto alla privacy, che non ha agganci testuali nel testo della Convenzione, se non molto tenui e discutibili. In sostanza, la Corte ha ritenuto che la legislazione polacca violasse la sfera di autodeterminazione della donna perché non le aveva consentito di abortire, non perché aveva finito per compromettere la sua salute.

[11] Warren S.D e Brandeis L.D., The Right to Privacy, in Harvard Law Review, 1890, p. 193.

[12] Griswold v. Connecticut, 381 U.S. 479 (1965).

[13] Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973).

[14] Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey, 505 U.S. 833 (1992).

[15] Goodridge v. Department of Public Health, 798 N.E.2d 941 (2003).

[16] In re Marriage Cases, 43 Cal.4th 757 (2008).

[17] Cruzan v. Missouri Department of Public Health, 497 U.S. 261 (1990). Si vedano anche Vacco v. Quill, 521 U.S. 793, (1997), Washington v. Glucksberg, 521 U.S. 702 (1997) e Gonzales v.Oregon, 546 U.S. 243 (2006).

[18] Cruzan, cit.

[19] Glendon M.A., Rights Talk. The Impoverishment of Political Discourse, Simon & Schuster, New York, 1991.

[20] L’individualismo che contraddistingue buona parte della cultura giuridica americana ha infatti concentrato l’attenzione della giurisprudenza e della dottrina sui soggetti portatori dei diritti e sulla loro volontà, più che sulle concrete situazioni sulle quali la Corte doveva intervenire. Ad esempio, nella sentenza Roe, la Corte suprema ha ritenuto non necessario stabilire quando la vita abbia inizio, nonostante sembri un punto dirimente per cogliere se vi siano altri soggetti portatori di interessi nel contesto della gravidanza. Oppure, le Corti di Massachusetts e California si sono concentrate sul diritto soggettivo al matrimonio, senza indagare particolarmente i caratteri dell’istituzione. Quest’impostazione ha condotto la Corte californiana alla superficiale e discutibile conclusione che l’unica differenza tra le coppie etero e quelle omosessuali consisterebbe nel fatto che solo le prime possono avere figli anche “accidentalmente”, cioè attraverso l’attività sessuale, mentre le seconde non ne sono in grado. Denominatore comune di queste evoluzioni della privacy sembra dunque essere una selettività degli interessi in gioco: in Roe non si considera il feto, mentre nel caso del matrimonio omosessuale si sottovaluta la natura dell’istituto matrimoniale.

[21] Goodman M.D., Human Dignity in Supreme Court Constitutional Experience, in Nebraska Law Review, 2006, p. 756.

[22] Miller J.M., Dignity as a New Framework, Replacing the Right to Privacy, in Thomas Jefferson Law Review, 2007-2008, p. 1.

[23] Ibidem, p. 36.

[24] In dottrina v’è chi riconduce a Kant in particolare la concezione del costituzionalismo occidentale, secondo la quale “la dignità umana è intimamente correlata all’autonomia umana. Una creatura autonoma è auto-attiva, auto-diretta, autocritica, capace di correggere e comprendere se stessa”. Così Adam Bedau, citato in Goodman, cit., p. 749. Si veda anche Eberle E.J., Dignity and Liberty: Constitutional Visions in Germany and United States, Prager, Westport, 2002, 125 e 131, che ugualmente mette in luce il legame tra individualismo, autonomia e autorealizzazione che sembrerebbe condensato nella logica della privacy.

[25] Simoncini A. - Carter Snead O., I profili costituzionali delle decisioni sulle cure di persone incapaci tra libertà e giusto processo (con uno sguardo oltreoceano), in corso di pubblicazione in Quaderni costituzionali, 2009.

[26] Glendon M.A., La visione dignitaria dei diritti sotto assalto, in in L. Antonini, Il traffico dei diritti insaziabili, cit. 2007, 59, ss.

[27] Corte di cassazione, I sez. civ., n. 21748 del 16 ottobre 2007.

[28] Nella dottrina italiana, Rimoli F., Laicità e pluralismo bioetico, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, p. 5, connette la disponibilità della vita al principio di autonomia del singolo. Glendon, cit., p. 21, nota invece la differenza tra la sensibilità americana sul punto e quella tradizionalmente europea: gli europei continentali sarebbero abituati all’idea “fundamental to their legal systems, that a human body is not subject to ownership by anyone”.

[29] N. 27145/08, sezioni unite.

[30] Punto 11 della sentenza.

[31] III sez. Civile, ord. 3 aprile 2009.

[32] Per un commento esteso all’ordinanza, si veda Pin A., Il matrimonio omosessuale dalla Laguna alla Consulta (passando per tre continenti), in Dialoghi del diritto dell’avvocatura della giurisdizione, 2009, p. 119.

[33] Cfr. Scalia A., A Matter of Interpretation, Princeton University Press, Princeton, 1997.

[34] Cfr. Ackerman B., We the People: Foundations, Belknap, Cambridge-Londra, 1991, e Transformations, Belknap, Cambridge-Londra, 1998.

[35] Habermas J., Il futuro della natura umana, Torino, Einaudi, 2002, p. 6.

[36] Violini L., Bioetica e laicità, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. L’autrice altrove afferma che “la vita non sia regolamentabile alla stregua di un qualunque altro bene giuridico, essendo la vita l’apriori che consente il possesso di ogni bene e l’esercizio di ogni diritto.

[37] Par. 3 della sent. n. 27145/08.

[38] Si veda il contributo di Neuhaus J.R., contenuto nel rapporto sulla dignità umana prodotto dal Consiglio presidenziale di bioetica degli Stati Uniti, all’indirizzo http://www.bioethics.gov/reports/human_dignity/index.html.

[39] Non a caso Violini L., cit., si chiede “Sulla base di quali criteri, ad esempio, l’ordinamento potrebbe differenziare le ipotesi in cui la pretesa di aiuto al suicidio provenga da un soggetto sano da quelle in cui tale richiesta provenga da un soggetto malato?”, mostrando come sia inconsistente e persino contrario al principio dignitario un apprezzamento della qualità della vita al fine di attribuire un diritto al suicidio.

[40] C. 2350.

[41] La libertà di associazione venne ampiamente riconosciuta, si proclamarono i diritti inviolabili dell’uomo, “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità” (art.2 Cost.) e si richiamarono i doveri di solidarietà politica, economica e sociale, visti, come disse Meuccio Ruini, quali “lati d’una stessa medaglia”. “Grazie ad un confronto ideologico autenticamente plurale, nella Costituzione i protagonisti del proscenio giuridico si infoltiscono: non più solo lo Stato e non più solo l’individuo economico, ma altresì la persona e la comunità solidale in cui la persona si integra; non più soltanto la libertà individuale astratta che arriva a premiare unicamente l’abbiente, ma altresì la libertà collettiva che fornisce al nullatenente una dignità non declamata e verbale ma effettiva”. Così Grossi P., Pagina introduttiva (storia e cronistoria dei ‘Quaderni fiorentini’), Milano 2001, 12, dell’estr. La centralità della persona e delle formazioni sociali, assieme al principio di solidarietà, furono sentiti come la liquidazione dei rischi del fascismo e delle debolezze del liberalismo. La nuova prospettiva del patto  costituzionale si ritrovò efficacemente sintetizzata nelle parole di Aldo Moro, pronunciate nella seduta del 24 marzo 1947, presentando l’art.2 della Costituzione: “Lo Stato assicura veramente la sua democraticità, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell'uomo che non è soltanto individuo, ma che è società nelle sue varie forme, società che non si esaurisce nello Stato. La libertà dell'uomo è pienamente garantita, se l'uomo è libero di formare degli aggregati sociali e di svilupparsi in essi. Lo Stato veramente democratico riconosce e garantisce non soltanto i diritti dell'uomo isolato, che sarebbe in realtà un’astrazione, ma i diritti dell'uomo associato secondo una libera vocazione sociale”.

[42] L’articolo è apparso sul Corriere della Sera del 29.11.2009

[43] In particolare viene contestato il seguente passaggio: “Esiste un legame inscindibile tra il benessere della famiglia e quello della società. Famiglia vuol dire tessitura di legami verticali, solidarietà intergenerazionale, relazioni che danno il senso della continuità temporale; vuol dire rapporti di prossimità e parentela, che consentono la coesione comunitaria. La famiglia trasmette ai figli il patrimonio, ma anche la cultura, la fede religiosa, le tradizioni, la lingua, e crea quel senso profondo di appartenenza, di consapevolezza delle origini così necessario all' identità di ciascuno. La famiglia è anche il nucleo primario di qualunque Welfare, in grado di tutelare i deboli e di scambiare protezione e cura, perché è un sistema di relazioni, in cui i soggetti non sono solo portatori di bisogni, ma anche di soluzioni, stimoli e innovazioni”.

[44] Donati P., Il welfare in una società post-hobbesiana, Atlantide, n.2/2006.

[45] Cfr. Vittadini G., Intervento a "La tua opera è un bene per tutti", in www.ilsussidiario.net

[46] Cavalla F., Diritto alla vita, diritto sulla vita: alle origini delle discussioni sull’eutanasia, in ZANNUSSO F., Il filo delle Parche, Milano, 2009, 65, ss.

[47] Agostino, De vera religione 26, 48: “…Habet quippe et ipse modum quemdam pulchritudinis suae”.

[48] Cfr. Cotta G., La nascita dell'individualismo moderno. Lutero e  la politica della modernità, Il Mulino, Bologna, 2002.

[49] Moro P., Dignità umana e consenso all’atto medico, in  Zannuso F., Op. cit., 142, ss.

[50] Cfr. Carron J., La tua opera è un bene per tutti, in Tracce, n. 12 del 2009, p. 1, ss. Che precisa: “questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri”.

[51] Toqueville A., La democrazia in America, Milano, 732, ss.

[52] Cfr. la lucida analisi di Zamagni S., La lezione e il monito di una crisi annunciata, in Il Mulino, 2009, 293, ss.

[53] La citazione è in Felice F. , Economia sociale di mercato, Rubettino, 2008, 70.

[54] Arrow K.J., Scelte sociali e valori individuali, Etas Libri, Milano 2003, p.21

[55] Giussani L. Il senso religioso, Rizzoli, Milano, 2003, 8. Cfr., inoltre, Giussani L., L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p.100, dove si afferma: Tutte le forze umane nascono da questo fenomeno, da questo dinamismo costitutivo del1‘uomo. Il desiderio accende il motore dell’uomo. E allora si mette a cercare il pane e l‘acqua, si mette a cercare il lavoro, si mette a cercare la donna, si mette a cercare una poltrona più comoda e un alloggio più decente, si interessa a come mai taluni hanno e altri non hanno, si interessa a come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza del1’ingrandirsi, del dilatarsi, del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente "cuore", e che io chiamerei anche "ragione". [...] Il desiderio, per natura, spalanca l’uomo sulla realtà per imparare la mossa, per imparare dove si deve costruire”.

[56] Cfr. D’Agostino F., Introduzione alla biopolitica, Voce: Persona, Aracne, Roma, 2009, 180, ss.

[57] Benedetto XVI, lettera  all'allora Presidente del Senato M. Pera, 11 ottobre 2005.

[58] Cartabia M., La Costituzione italiana e l’universalità dei diritti umani, in www.astrid.it

[59] Ornaghi L., Diritti e politica nelle trasformazioni della democrazia: verso nuovi paradigmi, in Il traffico dei diritti insaziabili, cit.

[60] Barbera A., Il “fondamento” dei diritti fondamentali, tra crisi e frontiere della democrazia, in Il traffico dei diritti insaziabili, cit.

[61] Vittadini G., Che cos’è la sussidiarietà, Milano, 2007.

[62] Ibid, 13.

[63] “Questa prospettiva trova un'illuminazione decisiva nel rapporto tra le Persone della Trinità nell'unica Sostanza divina. La Trinità è assoluta unità, in quanto le tre divine Persone sono relazionalità pura” (N.54)

[64] Si tratta del passaggio che si sofferma sulla “ragione economica”: “La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità”(N. 36).

[65] Cfr. sul valore dell’esperienza giuridica, Gentile F., Legalità Giustizia Giustificazione, ESI, Napoli, 2008.

[66] Cfr. Spataro A., Dall’indisponibilità (tirannia) alla ragionevolezza (bilanciamento) dei diritti fondamentali. lo sbocco obbligato: l’individuazione di doveri altrettanto fondamentali, in Il traffico dei diritti insaziabili, cit.

[67] Di Martino C., Le evidenze dell’esperienza, in Famiglia e Dico: una mutazione antropologica, Quaderni di Fondazione per la Sussidiaretà, Milano, 2007, 23, ss.

 

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