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Il metodo mafioso: la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento ed omertà che da essa derivano-Dott.ssa Angela Allegria

 

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A norma dell’articolo 416 bis Codice Penale comma terzo, “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e de

lla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.”

Con tali parole il legislatore enuncia il c.d. metodo mafioso, il quale si fonda su tre elementi fondamentali: la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento ed omertà che da esso deriva.

Tutti e tre gli elementi sopra menzionati sono necessari ed essenziali perché possa configurarsi il reato di associazione di stampo mafioso. Ciò si desume dalla congiunzione “e” impiegata dal legislatore.

La forza di intimidazione può essere definita come la capacità che ha uno Stato o un suo apparato, un’organizzazione o un singolo individuo di incutere timore in base all’opinione diffusa della sua forza e della sua predisposizione ad usarla. In altre parole può essere definita come la quantità di paura che una persona (fisica o giuridica) è in grado di suscitare nei terzi in considerazione della sua predisposizione ad esercitare sanzioni o rappresaglie.

Tale forza di intimidazione deve derivare dal vincolo associativo. Ne consegue che l’associazione deve essere dotata di particolare capacità di intimidire a prescindere dal compimento di nuovi atti di violenza e di minaccia; deve possedere, per la ferocia o per l’efficienza dimostrata dai suoi affiliati, una “fama” tale da porre i terzi in una condizione di assoggettamento e di omertà nei confronti di chi, agendo per conto dell’associazione, viene temuto e “accontentato” indipendentemente dagli atti di intimidazione da lui eventualmente posti in essere.

Una parte della dottrina parla di alone diffuso, penetrante, avvertibile di presenza intimidatoria e sopraffattrice che sia anche il frutto di uno stile di vita consolidato nel tempo.

Per un’altra parte della dottrina, invece, parlare di “alone di intimidazione diffusa” è di per sé vago in quanto la matrice sociologica della nozione, da un lato, recherebbe il rischio di introdurre nell’applicazione della fattispecie soluzioni riecheggianti il modello del “tipo di autore”, muovendo dalla presupposta “mafiosità” di una certa associazione; dall’altro lato, indurrebbe ad escludere la sussistenza del reato in ambiti regionali nei quali, benché il controllo del territorio da parte delle associazioni di stampo mafioso non sia totale, tuttavia operino associazioni dotate di un’autonoma carica intimidatrice.

Secondo Ingroia il concetto, di “carica intimidatoria autonoma” appare più univoco di quello evocato dall’espressione “alone di intimidazione diffusa”, costituendo quest’ultima espressione un “indizio” della esistenza della “carica intimidatoria autonoma”.

Il ricorso alla forza di intimidazione non costituisce una modalità di realizzazione delle condotte tipiche del reato poste in essere dai singoli associati, ma costituisce l’elemento strumentale tipico di cui “si avvalgono” gli associati in vista della realizzazione degli scopi propri dell’associazione.

Con un parallelismo forse un po’ ardito Giuliano Turone afferma in “Il delitto di associazione mafiosa”, che la forza intimidatrice fa parte del “patrimonio aziendale” dell’associazione di tipo mafioso, così come l’avviamento commerciale fa parte dell’azienda.

Se è vero che in una situazione statica un’associazione di stampo mafioso di tipo “ottimale” non dovrebbe aver bisogno di far ricorso ad esplicite minacce e ad atti di violenza, è pur vero che atti di intimidazione e di concreto esercizio della violenza possono essere e sono, di regola, necessari, almeno saltuariamente, per rinvigorirne la fama e rafforzare il terrore.

La Corte di Assise di Caltanissetta (Sent. 24 luglio 1984, in Foro Italiano, 1985, II, p. 10) chiarisce, ad esempio, come l’attentato di via Pipitone del 29 luglio 1983, in cui perse la vita il giudice Rocco Chinnici, fu voluto non solo per rafforzare la forza di intimidazione del vincolo associativo, ma più specificamente per diffondere il terrore all’interno delle strutture giudiziarie di Palermo.

Allo stesso modo sono state concepite le stragi del 1992 (Capaci e via Mariano D’Amelio) e quelle del 1993 (Firenze e Roma), con le quali Cosa Nostra ha inteso mostrare la sua forza e la sua potenza.

Due esempi mi vengono in mente a questo proposito, esempi emergenti dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca.

Uno riguarda l’omicidio del giudice Costa nel 1980.

Si tratta di un delitto “eclatante”, un delitto “eccellente” voluto per dimostrare che i membri dell’organizzazione criminale chiamata Cosa Nostra “possono fare quello che vogliono”.

È evidente che Cosa Nostra uccise Gaetano Costa “anche perché aveva ricevuto colpi giudiziari durissimi”, ma soprattutto per dimostrare dentro e fuori l’organizzazione che i membri di Cosa Nostra godono di una certa impunità e, quando questa viene loro negata, reagiscono di conseguenza per ristabilire il proprio “ordine” e il potere.

L’altro esempio, a mio avviso significativo, riguarda gli omicidi Mattarella e La Torre, entrambi politici, presidente della Regione Siciliana il primo, segretario del Pci il secondo.

In tali delitti si ravvisa l’intento di ammonire la classe dirigente, instaurando un clima di terrore al loro interno.

Dice, infatti, Brusca che gli altri politici che si vedevano uccisi i colleghi si preoccupavano e si mettevano sull’attenti di fronte a Cosa Nostra.

L’assoggettamento e l’omertà costituiscono i risvolti naturali e consequenziali della forza intimidatrice, la quale si configura come tale proprio in funzione di questi due ulteriori parametri.

Si tratta di due elementi tra loro difficilmente scindibili in quanto il primo costituisce la premessa immediata della seconda: l’omertà si manifesta, infatti, come un particolare atteggiamento, che viene assunto dal soggetto passivo di un assoggettamento di tipo mafioso.

Si tratta di due facce della stessa medaglia che si differenziano per il riferimento specifico dell’assoggettamento allo stato di sottomissione o succubanza psicologica che si manifesta nelle vittime dell’intimidazione; mentre nell’omertà è presente il rifiuto generalizzato a collaborare con la giustizia.

L’espressione “assoggettamento”, da un lato, ha un significato atto a ricomprendere anche la posizione di sottomissione, di succubanza, di vassallaggio, che all’interno di un contesto associativo criminoso può caratterizzare l’associato meno autorevole rispetto a quello più autorevole e rispetto al gruppo; dall’altro lato, la particolare forza intimidatoria promanante dal sodalizio può ben riflettersi anche sugli associati, la qual cosa, del resto, capita normalmente nei fenomeni di “mafia storica”, in virtù del timore suscitato dalla ferocia con cui vengono notoriamente puniti tradimento ed insubordinazione.

Nonostante le dispute dottrinarie, è da ritenere che la presenza dei c.d. “riflessi esterni” della forza di intimidazione, le condizioni esterne di assoggettamento ed omertà, sono necessarie ai fini della configurabilità del reato. Ma nulla esclude che eventuali risultanze relative ai c.d. “riflessi interni” di tale forza intimidatrice possano comunque contribuire a formare la prova dell’apparato strutturale mafioso.

Il termine “omertà”, con il quale Mario Puzo ne “Il padrino” indica “la nuova religione”, nata dalla negazione da parte dei siciliani della amministrazione della giustizia da parte dello Stato, non significa “umiltà”, come si potrebbe pensare a prima vista, ma “omineità”, qualità di esser “omu”, cioè uomo virile, serio, forte.

Nei tempi passati al termine è stato attribuito un significato con connotazione positiva: omertà era il codice sociale di comportamento osservato dai veri uomini, che credevano nella legge della propria coscienza, era il silenzio e la mancanza di collaborazione nei confronti di uno Stato oppressore ed ingiusto, cui si negava la legittimazione ad amministrare la giustizia.

L’espressione “omertà” è usata, invece, dal legislatore del 1982 nel significato moderno, carico di connotazione negativa, intesa cioè come atteggiamento di disimpegno e di mancanza di collaborazione verso gli organi pubblici, dovuto alla paura che prevale sull’istinto di solidarietà sociale.

Se prendiamo in esame le situazioni tipiche delle “mafie storiche” e teniamo conto della elaborazione storico-sociologica in materia, possiamo dire che l’omertà è il rifiuto incondizionato e tendenzialmente assoluto a collaborare con gli organi statali, non soltanto per timore di rappresaglie o per volontà di proteggere la consorteria di cui si fa parte, ma anche per la tendenza a negare ogni legittimazione a qualsiasi “interferenza” dello Stato nella sfera dei singoli e negli affari del gruppo.

Sul piano meramente giuridico l’omertà può essere definita come rifiuto sufficientemente generalizzato a collaborare con organi dello Stato aventi funzioni inquirenti e giudicanti, derivante dalla paura che si nutre nei confronti del sodalizio criminoso, dal quale si sia subita una prevaricazione, ovvero del quale si conoscano aspetti penalmente rilevanti, ovvero sul quale si sia chiamati a riferire ciò che si sa.

In giurisprudenza la definizione più puntuale del concetto normativo di omertà non è stata data nell’ambito di procedimenti di “mafia storica”, bensì nell’ambito di una comune associazione a delinquere di cui era messa in discussione la possibile trasformazione in associazione di tipo mafioso.

È il caso della sentenza Teardo del 1989.

In essa si legge: “Perché sussista omertà è sufficiente che il rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato sia sufficientemente diffuso, anche se non generale; che tale atteggiamento sia dovuto alla paura non tanto di danni all’integrità della propria persona, ma anche solo alla attuazione di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti; che sussista la diffusa convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria – denunziando il singolo che compie l’attività intimidatoria – non impedirà che abbiano ritorsioni dannose per la ramificazione dell’associazione, la sua efficienza, la sussistenza di altri soggetti non identificabili e forniti di un potere sufficiente per danneggiare chi ha osato contrapporsi. Tra le possibili ritorsioni, che portano ad un assoggettamento ed alla necessità dell’omertà vi è anche quella che possa mettere a rischio la pratica possibilità di continuare a lavorare e viva la prospettiva allarmante di dover chiudere la propria impresa perché altri partecipanti all’associazione o da essa influenzati hanno la concreta possibilità di escludere dagli appalti colui che si è ribellato alle pretese. A tale ultimo fine non è necessario che le conseguenze minacciate si verifichino, ma è sufficiente che esse ingenerino il ragionevole timore che induca al silenzio e all’omertà”.

La condizione di assoggettamento e di omertà deve derivare, come la forza di intimidazione, ancora una volta dal vincolo associativo. Infatti, quando la forza di intimidazione risiede tutta in una persona è più facile per il minacciato resistere, richiedendo l’intervento della forza pubblica. Viceversa, quando tale intimidazione deriva dal vincolo associativo, la soggezione del minacciato è completa in quanto sul piano psicologico egli non si sentirà mai sufficientemente protetto per il timore che l’associazione possa “rivendicare” l’offesa subita.

Ci si potrebbe chiedere a questo punto: se ci sono persone, membri dell’associazione o terzi, che “rompono il muro di omertà” allora tale situazione di omertà è rilevante ai fini della configurabilità del reato?

Il problema può essere risolto affermando che la mera presenza di imputati collaboranti, che accettano di riferire ciò di cui sono a conoscenza su un determinato sodalizio, non può avere l’effetto di neutralizzare le prove che siano state acquisite circa l’esistenza di una carica intimidatoria promanante da quel sodalizio e circa la sua idoneità a ingenerare assoggettamento ed omertà. In tale ottica il “pentitismo” si presenta proprio come reazione a un livello di ferocia divenuto insopportabile (Nel 1989 a Francesco Marino Mannoia uccidono il fratello, Agostino, che adorava. Capisce che il suo spazio vitale all’interno di Cosa Nostra si sta restringendo. Perché o hanno ucciso suo fratello a torto – e deve chiederne conto – oppure lo hanno ucciso a ragion veduta; in entrambi i casi significa che anch’egli sarà presto eliminato. Mannoia fa una lucida analisi della situazione e decide di collaborare. Lo stesso accade per Tommaso Buscetta).

In tale quadro vanno inserite anche le ritrattazioni di dichiarazioni già rese e riscontrate: esse sono senza dubbio conseguenza dell’omertà derivante dalla forza di intimidazione del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento ed omertà che da essa deriva.

 

 

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