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LA MEDIAZIONE CONCILIATIVA: CRITICITÀ E CONTRADDIZIONI- Angelo Converso

 

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Per iniziare è necessario che si renda chiaro di che cosa si sta parlando quando ci si riferisce alla “mediazione”, di cui oggi si parla troppo, perché sta diventando un affare. Il significato stesso di “mediazione” è ambiguo, se non è analizzato e chiarito.

 

La mediazione si preoccupa poco o niente dell’esito finale, perché è un bene in sé, a prescindere dal risultato. L’effetto rispetto alla mediazione, quindi il suo risultato, può (o meno) essere l’accordo, la conciliazione.

La mediazione - per usare un linguaggio moderno - è la precondizione della conciliazione, nel senso che è lo strumento che le parti hanno per un incontro su di una posizione intermedia.

La mediazione favorisce o può favorire l’accordo o la conciliazione, ma la conciliazione non condiziona l’esistenza della mediazione.

Perché la mediazione non ha come unica finalità la conciliazione; ha come prima finalità la ricostituzione del tessuto sociale, del dialogo fra componenti della società in caso di conflitto.

Si è, quindi, già messo a fuoco il vizio di fondo del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 2814 costituito dalla mediazione essenzialmente finalizzata alla conciliazione, dove la conciliazione è tanto importante da prevalere sulla mediazione.

La condizione indispensabile per il funzionamento della media-conciliazione è essenzialmente una sola: il funzionamento effettivo del processo civile.

Ora, i tempi lunghi del processo civile, soprattutto di primo grado ma in vari distretti anche del grado di appello, per non parlare del grado di Cassazione, favoriscono ineluttabilmente la parte che sa di avere torto o dubita fortemente di avere ragione, perché quei tempi sfiancano la controparte, magari economicamente più debole.

In base a quale razionalità economica un litigante dovrebbe accettare una media-conciliazione, che in quattro mesi lo porterebbe a essere destinatario passivo di un titolo eseguibile?

E infatti in questi primi mesi di applicazione dell’istituto si registra, laddove si applica, mediamente nel 75% dei casi, la dichiarazione preliminare di una delle parti di non volersi conciliare a nessun costo e di preferire comunque la decisione del giudice.

Per ottenere un reale effetto deflattivo del contenzioso occorrerebbe che l’istituto realizzasse almeno 5-600mila conciliazioni/anno, il che consentirebbe di ridurre la pressione del milione circa di processi nuovi che iniziano ogni anno dinanzi ai giudici.

Un altro difetto assai grave dell’istituto è l’assenza di qualsiasi criterio di competenza territoriale.

Se, infatti, si scorre l’elenco delle sedi degli organismi di mediazione si resta colpiti dalla loro distribuzione.

È chiaro che una distribuzione territoriale del genere abbia assai poco a che vedere con l’efficienza, molto più con il disperato tentativo di lucrare sull’istituto.

Se poi si aggiunge che il 70% dei mediatori è costituito da avvocati, e si rammenta lo sterminato numero (220mila) di avvocati in Italia; se si fa cenno, infine, al business che si è scatenato intorno alla formazione da 50 ore, quel sospetto diventa certezza.

Non è nemmeno vera la giustificazione data dal medesimo sottosegretario sull’omessa previsione di competenza territoriale: se fosse stata prevista allora si sarebbe dovuto istituire un meccanismo per dirimere i conflitti di competenza sino alla Cassazione.

 

Sarebbe stato logico distinguere la figura del mediatore-conciliatore da quella dell’avvocato, per suo ruolo difensore del proprio cliente. Si tratta di prospettive assai diverse, mentre con le ultime proposte di riforma si potrebbe, all’opposto, allargare a dismisura il ruolo dell’avvocato a scapito di quello del mediatore.

V’è poi l’ambito di competenze, assurdo e raccogliticcio, che presuppone una sterminata serie di competenze assai specifiche.

Tirando le fila delle osservazioni svolte e dall’analisi della disciplina, si percepisce l’assenza di una vera cultura della mediazione e della conciliazione: nessuno dei grandi filoni culturali della mediazione ha avuto il minimo influsso sul D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, laddove il legislatore ha combinato - pasticciando - la mediazione problem solving (art. 7, co. 3) con la mediazione pura e semplice (art. 2), purché esse procurino comunque una conciliazione.

Sono in discussione due disegni di legge, di diversa natura, mirati alla “correzione” della disciplina della media-conciliazione. Dall’inizio del decennio, nell’incapacità di emanare norme chiare, razionali e meditate, si ricorre all’abuso del “correttivo”, la cui aspettativa ha il risultato mirabile di non far applicare la norma vigente.

I due DdL hanno in comune l’introduzione del principio di facoltatività della media-conciliazione e di una competenza territoriale dell’organismo di mediazione più rigida il secondo e più lasca il primo.

Hanno sempre in comune l’abrogazione dell’art. 13 D.Lgs. sulla regolazione delle spese di mediazione da parte del giudice del processo, in caso di mediazione non riuscita, e l’abrogazione dell’art. 15 D.Lgs. relativo alla media-conciliazione in relazione all’azione di classe prevista dal Codice del consumo.

Per nulla condivisibile è, a mio avviso, l’introduzione dell’obbligatorietà della difesa tecnica, prevista dal primo ddL e del tutto condivisa dal ministro di Giustizia, che comporta un’estensione invasiva del ruolo obbligatorio dell’avvocato anche in questa fase.

Da questo principio, infatti, discendono tre corollari, che valgono a trasformare radicalmente la mediazione:

un irrigidimento e una formalizzazione dell’atto introduttivo della mediazione;

un innegabile e sostanzioso maggior costo del procedimento di media-conciliazione

la prevedibile sudditanza del mediatore rispetto agli avvocati presenti, con lo snaturamento dell’istituto.

 

La seconda critica concerne un profilo che potrebbe apparire “moderno” e che potrebbe far qualificare questa critica come anacronistica e pregiudizialmente ostile all’istituto. Intendo riferirmi alla previsione della possibilità di svolgimento della mediazione con modalità telematiche.

La compresenza delle parti è essenziale non certo in sé, quanto per poter sviluppare fra mediatore e parti quell’aspetto essenziale di ogni mediazione che è l’empatia: con le parti distanti, l’empatia non si stabilisce. Il circuito psicologico ed emozionale che si sviluppa fra mediatore e parti, e che costituisce il substrato stesso della mediazione e anche della media-conciliazione, richiede che questi tre soggetti si vedano fisicamente in faccia. In uno spazio delimitato e caratterizzato dalla presenza fisica del mediatore, il conflitto “precipita” in termini fisico-chimici: si chiarisce ed è percepito dalle parti in modo utile per la loro decisione in proposito.

Questa è una condizione indefettibile per la generazione dell’empatia, la quale - a sua volta - è il requisito fondamentale per la riuscita della mediazione, indipendentemente dalla possibile conciliazione. Non si deve dimenticare che il contesto sociale in cui i confliggenti sono calati ben può esser la reale causa scatenante il conflitto, e solo la separazione dei confliggenti da quel contesto può valere a renderli attori del conflitto e non “agiti” dal conflitto. Non occorre dilungarsi per sottolineare come tutto ciò manchi nella videoconferenza.

 

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