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I C.D. “PUNITIVE DAMAGES Massimiliano Santulli-Diritto e processo.it

 

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(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 3/2011)

 

 

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Principi generali. – 3. Condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione in Italia della sentenza straniera. – 4. I c.d “punitive damages”. – 5. La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183

 

 

 

1. Introduzione

La sentenza della Cassazione Civile, Sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183 offre lo spunto per una disamina in tema di delibazione in Italia di sentenze straniere, con particolare riferimento alle sentenze di Tribunali degli Stati Uniti d’America, contenenti statuizioni sui cd. “punitive damages”.

La pronuncia ha affermato il seguente principio di diritto: Non conoscendo l'ordinamento italiano l'istituto dei "danni punitivi", è contraria all'ordine pubblico interno e non può, per l'effetto, essere delibata in Italia la sentenza resa da un tribunale nordamericano recante una tale condanna con finalità sanzionatoria e afflittiva propria dell'istituto dei punitive damages”.

Questi i fatti sui quali ha deciso la Suprema Corte.

In Alabama si verifica il decesso di un motociclista in seguito all’urto con una vettura che gli aveva tagliato la strada.

Il motociclista, che era munito di casco omologato e regolarmente indossato, muore per trauma cranico.

Gli eredi convengono dinanzi al Tribunale Americano il conducente dell’autoveicolo, il produttore del motociclo e il produttore del casco, italiano, assumendo, con riferimento alla responsabilità di quest’ultimo, il difetto di progettazione e realizzazione della fibbia.

Le posizioni dell’automobilista e del produttore del motociclo vengono chiuse in via stragiudiziale.

Così non accade per la ditta vicentina, produttrice del casco.

Quest’ultima viene condannata dalla Corte distrettuale di Jefferson in Alabama, al pagamento della somma di un milione di dollari.

La vicenda viene portata al vaglio della Corte d’Appello di Vanezia, competente territorialmente e per materia, ai fini della delibazione in Italia della sentenza di cui sopra, sì da poter agire esecutivamente.

La Corte d’Appello ha respinto al domanda, per contrarietà all’ordine pubblico interno dei cd. “punitive damages”, isituti di origine statunitense sconosciuti all’ordinamento italiano.

Prima di esaminare il decisum della Corte di Cassazione, all’attenzione della quale è stata sottoposta in seguito la vicenda, si delinea un breve excursus sulla delibazione in Italia di sentenze straniere.

 

2. Principi generali

La materia è oggi disciplinata dalle norme di diritto internazionale privato, di cui alla Legge 31 maggio 1995, n. 218, che hanno sostituito ed integrato le scarne disposizioni in precedenza presenti in varie fonti normative, quali gli artt. da 17 a 31 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile, gli artt. 796 ss. del codice di procedura civile e gli artt. da 1 a 14 del codice della navigazione.

Per completezza di analisi, è importante rammentare, oltre alla L. n. 218/1995, la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, resa esecutiva in Italia con Legge 21 giugno 1971, n. 804 (oggi sostituita dal Regolamento 44/2001/CE), in materia civile e commerciale, che peraltro non riguarda gli Stati Uniti d’America.

Prima della novella legislativa, il riconoscimento in Italia delle sentenze straniere, che pure era possibile, non era automatico, ma presupponeva un ulteriore procedimento giurisdizionale interno di controllo, definito giudizio di delibazione, dinanzi alla Corte di Appello del luogo di esecuzione.

In seguito alla entrata in vigore della Legge 21 dicembre 1996, n. 649, sono divenute effettive, dal 31 dicembre 1996, le nuove norme sulla efficacia di sentenze ed atti stranieri, di cui al Titolo IV della L. 218/1995.

In particolare, ai sensi dell’art. 64 L. 218/1995: “la sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”, purché siano presenti i requisiti specificamente elencati in detta disposizione, che si analizzeranno in prosieguo.

In via preliminare, bisogna evidenziare che il principio dell’automatico riconoscimento delle sentenze straniere trova dei limiti, indicati dall’art. 67 L. 218/1995, e segnatamente quando non via sia la volontaria ottemperanza al provvedimento giurisdizionale straniero, ovvero vi sia la contestazione di tale provvedimento o, ancora e soprattutto, quando sia necessario procedere ad esecuzione forzata.

In tali evenienze, il medesimo art. 67 L. 218/1995 dispone che “chiunque vi abbia interesse può chiedere alla corte d’appello del luogo di attuazione l’accertamento dei requisiti del riconoscimento”.

E’ evidente che in tal modo si reintroduce il c.d. “giudizio di delibazione”, di cui agli abrogati artt. 696 ss. c.p.c..

La differenza è che nel sistema ante riforma il giudizio di delibazione costituiva condicio sine qua non del riconoscimento, mentre oggi rappresenta un momento eventuale e patologico della fase esecutiva.

E’ altrettanto evidente che di rado accade che il soggetto condannato in ragione della sentenza straniera dia volontaria esecuzione alla medesima, ragion per cui è frequente la necessità del giudizio di delibazione, per poter procedere ad esecuzione forzata.

Sicché un procedimento delineato in via eventuale è divenuto la costante per l’esecuzione delle sentenze straniere in Italia.

Come si è riferito addietro, la Convenzione di Bruxelles, vincolante per i Paesi aderenti, tra i quali l’Italia ma evidentemente non gli Stati Uniti, aveva già introdotto un principio di riconoscimento automatico delle decisioni giudiziarie adottate dai giudici di uno degli Stati contraenti (Art. 26 Conv.), peraltro anche in tal caso con alcune eccezioni: in materia di stato e  capacità delle persone, successioni e fallimento, regime patrimoniale e coniugale, sentenze in materia civile e commerciale.

Giova ribadire, ai fini che interessano, che nella vicenda in esame non trova applicazione la Convenzione di Bruxelles, per cui la questione si risolve nella applicazione della L. 218/1995.

Pertanto, tornando all’analisi della predetta Legge, è ovvio che in caso di contestazione, omessa ottemperanza e necessità di esecuzione forzata della sentenza straniera, “chiunque vi abbia interesse” e precipuamente la parte attrice, dovrà avviare il procedimento di delibazione, dinanzi alla Corte d’Appello del luogo di attuazione.

L’azione di delibazione è azione di mero accertamento, come tale imprescrittibile.  

L’azione di delibazione introduce un giudizio ordinario di cognizione, da avviare con atto di citazione, giudizio che peraltro è di mera legittimità, non potendosi riesaminare il merito della sentenza straniera. 

Quanto alla forma, è opportuno evidenziare che ai sensi della Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ratificata in Italia con Legge 20 dicembre 1966, n. 1253, alla quale hanno aderito anche gli Stati Uniti d’America, non è necessaria la legalizzazione, da parte dell’autorità italiana, di atti pubblici stranieri.

Vieppiù, la dispensa dalla legalizzazione è condizionata al rilascio, da parte dell'autorità designata dallo Stato di formazione dell'atto, di apposita "apostille", da apporre sull'atto stesso, o su un suo foglio di allungamento, e secondo il modello allegato alla Convenzione.

Nel caso in cui manchi tale forma legale di autenticità del documento, il giudice italiano non può attribuire efficacia validante a mere certificazioni di cancelleria dell'ufficio di provenienza dell'atto.

Neppure è necessaria una traduzione certificata conforme dall’autorità consolare o diplomatica dello Stato estero, essendo sufficiente una traduzione dell’atto tramite un pubblico ufficiale, nel rispetto dell’art. 122 c.p.c.

Dopo aver analizzato le forme di introduzione del procedimento e ricollegandoci a quanto affermato nell’incipit delle presenti note, è necessario esaminare le condizioni elencate all’art. 64 della L. 218/1995, in presenza delle quali si prevede l’automatico riconoscimento della sentenza straniera, ma che, in assenza di esecuzione spontanea, sono le stesse la cui presenza può essere contestata dal convenuto.

 

3. Condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione in Italia della sentenza straniera.

Devono sussistere tutti gli elementi qui di seguito elencati:

a)            il giudice che ha pronunciato la sentenza straniera poteva conoscere della causa secondo i princìpi sulla competenza giurisdizionale propri dell' ordinamento italiano.

In caso di controversia, la Corte d’Appello competente dovrà valutare se il giudice dello Stato nel quale la sentenza è stata pronunciata potesse conoscere della causa in base ai principi sulla giurisdizione propri dell’ordinamento italiano, come espressi dagli artt. 3 e 4 della L. 218/1995.

In particolare, ai sensi dell’art. 3 L.218/1995: “La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell'articolo 77 del codice di procedura civile e negli altri casi in cui è prevista dalla legge.

La giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la legge 21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l'Italia, anche allorché il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione. Rispetto alle altre materie la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio”.

L’art. 4 L. 218/1995 così dispone: “Quando non vi sia giurisdizione in base all'articolo 3, essa nondimeno sussiste se le parti l'abbiano convenzionalmente accettata e tale accettazione sia provata per iscritto, ovvero il convenuto compaia nel processo senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo.La giurisdizione italiana può essere convenzionalmente derogata a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero se la deroga è provata per iscritto e la causa verte su diritti disponibili”.

Dunque, la Corte d’appello del luogo di attuazione dovrà verificare se, in ossequio ai criteri di cui agli art. 3 e 4 L. 218/1995, il Giudice straniero avrebbe potuto legittimamente dichiarare la propria giurisdizione in base ai criteri di individuazione della medesima propri dell’ordinamento italiano, così come, a parti invertite, il Giudice italiano avrebbe potuto dichiarare la propria giurisdizione, ove i fatti si fossero verificati in Italia.

Si tratta, ovviamente, di una valutazione a posteriori, che comporta una applicazione di tali principi a parti invertite.

Id est: la Corte d’Appello competente dichiara la legittima declaratoria di giurisdizione del Giudice straniero se il convenuto è domiciliato o residente nel Paese straniero o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio…..e così di seguito.

Inoltre, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza a dire il vero discutibile, ha affermato che a prescindere dal criterio di collegamento della sede legale, si applicherebbe in materia la Convenzione di Bruxelles, anche se lo Stato il cui giudice ha emesso la sentenza non via abbia aderito.

La Corte riferisce testualmente: “Il presupposto della disciplina dettata dall’art. 3, secondo comma della l. n. 218/1995 non è che la sentenza sia stata emessa dal giudice di uno Stato aderente alla Convenzione di Bruxelles, quanto la circostanza che essa attenga ad una delle materie contemplate nella Convenzione”. 

La Convenzione di Bruxelles prevede, all’art. 5, n.3, che in materia di illeciti extracontrattuali, i c.d. “delitti o quasi.-delitti”, è competente il giudice del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto.

Da ultimo, è opportuno precisare che il potere del giudice straniero di conoscere la causa può essere sindacato in sede di legittimità solo sotto il profilo dell'individuazione del criterio di collegamento stabilito dalla legge e della sua corretta applicazione, e in relazione alla congruità della motivazione, mentre non è consentito alcun riesame dei presupposti di fatto sui quali detta competenza sia radicata.

b)            l' atto introduttivo del giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto dalla legge del luogo dove si è svolto il processo e non sono stati violati i diritti essenziali della difesa.

c)            le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo o la contumacia è stata dichiarata in conformità a tale legge.

d)            La sentenza è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunziata.

In particolare, la Corte d’Appello deve valutare il passaggio in giudicato del provvedimento, secondo la legge straniera.

Nella fattispecie, bisogna analizzare quando, secondo la Legge statunitense, avviene il passaggio in giudicato.

Se la normativa è simile alla nostra, potrà avvenire per acquiescenza, e quindi per omessa impugnazione della pronuncia di primo grado, ovvero per esaurimento dei gradi di giudizio.

e)            essa non è contraria ad altra sentenza pronunziata da un giudice italiano passata in giudicato.

f)             non pende un processo davanti a un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le stesse parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero.

Il legislatore ha subordinato l’effetto ostativo della litispendenza italiana al requisito della priorità, intendendo evitare che il riconoscimento della sentenza straniera possa essere bloccato dalla parte soccobente all’estero con la strumentale instaurazione di un analogo processo in Italia.

 

4. I c.d “punitive damages”.

Ultima condizione richiesta per il riconoscimento in Italia di una sentenza straniera è che  le disposizioni di quest’ ultima non producano effetti contrari all' ordine pubblico.

Tale condizione viene analizzata autonomamente nella presente trattazione, poiché è determinante ai fini della sentenza in commento.

In tema di ordine pubblico, si passa in rassegna parte della copiosa giurisprudenza, riferita a casi distinti ed agli svariati fini per i quali tale eccezione è stata sollevata:

“L’accertamento dell’eventuale falsità dei documenti utilizzati dal giudice straniero non rientra nel controllo del giudice italiano, sotto il profilo della contraietà all’oriddne pubblico, in quanto quest’ultimo concerne solo gli effetti concreti prodotti dalla decisione e non l’attività processuale che ad essa ha condotto”. 

“Deve escludersi che il rigetto da parte del giudice straniero dell'istanza di ammissione di una consulenza tecnica possa integrare circostanza idonea a rendere contraria all'ordine pubblico italiano la sentenza successivamente da quel giudice pronunciata, la cui statuizione si assuma determinata dalla mancata dimostrazione di circostanze che la consulenza avrebbe potuto dimostrare..[..]..“Deve escludersi che una decisione di un giudice straniero, la quale abbia rifiutato l'assunzione di testi a mezzo di rogatoria internazionale, possa ritenersi pronunciata in base ad una disposizione contraria all'ordine pubblico italiano”. 

                “Non è trascrivibile il matrimonio celebrato all’estero tra omosessuali, in quanto contrario alle norme di ordine pubblico”.

                “In tema di delibazione di sentenze straniere, il concetto di ordine pubblico di cui all'art. 64 lett. g della legge n. 218 del 1995 non si identifica con il cd. ordine pubblico interno - e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell'ordinamento civile - bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai (soli) principi fondamentali e caratterizzanti l'atteggiamento etico - giuridico dell'ordinamento in un determinato periodo storico. (Nell'affermare il principio di diritto che precede la S.C. ha, in fatto, escluso che la corresponsione di interessi a tasso particolarmente elevato da parte di debitore italiano nei confronti di una società estera integrasse la violazione della norma sopra ricordata, aggiungendo, in punto di fatto, che, comunque, detta corresponsione non costituiva il corrispettivo di un'operazione di natura creditizia - ossia di prestito in denaro, come richiesto dalla normativa nazionale antiusura - risultando per converso dovuta in conseguenze di un accertato inadempimento contrattuale)”.

                “La sentenza statunitense che abbia condannato un soggetto italiano al pagamento di somme per danni "punitivi" per un ammontare di gran lunga esorbitante rispetto al risarcimento dei danno non è riconoscibile nel nostro ordinamento per contrasto con principi di ordine pubblico”.

Dopo tale breve disamina giurisprudenziale, per comprendere quale sia, pur superficialmente, l’applicazione pratica del principio di “ordine pubblico”, vediamo succintamente cosa sono i c.d “punitive damages”, riportando alcuni brani di una eloquente monografia sul tema:

“Le diverse componenti della condanna pecuniaria inflitta al responsabile di un illecito civile, sono abbastanza simili in tutti i paesi di common law, poiché si possono distinguere in base agli scopi che tendono a perseguire, in risarcimenti aventi una finalità riparatoria e restitutoria (compensatory damages) e in reintegrazioni con un fine punitivo e deterrente o solamente simbolico (non compensatory damages).

Infatti le funzioni svolte dalla prima categoria di danni, vengono soddisfatte con il ricorso agli “special damages” che l’attore deve chiedere esplicitamente e di cui è tenuto a provare l’ammontare e ai “general o presumptive damages”,  comprendenti le condanne per il danno morale e soggettivo (damages for pain and suffering), che invece non richiedono la riprova della loro concreta entità.

Invece gli “exemplary o vindicative damages”, mettono in atto una risposta punitiva verso il responsabile della  lesione di un diritto e vengono concessi sia in funzione satisfattoria dell’attore danneggiato, sia per prevenire il ripetersi di uno stesso comportamento in futuro.

Mentre nel Regno Unito le Corti hanno dettato alcuni criteri restrittivi del campo d’applicazione dell’istituto, la costante prassi giurisprudenziale statunitense ha fornito un’ampia conferma della legittimità e della sua forza espansiva, segnalando anche un allontanamento del rimedio dagli originali caratteri strutturali e funzionali.

L’azione repressiva e special-preventiva svolta dai punitive damages è subordinata alla verifica dello stato soggettivo doloso o gravemente colposo dell’offensore, accompagnato alla realizzazione di specifiche forme lesive ritenute socialmente dannose, come quelle appartenenti alle categoria degli illeciti civili.

I giudici hanno costantemente affermato una doppia ragione giustificatrice dei punitive damages, basata sull’intento di impedire che il danneggiante torni a ripetere il proprio comportamento lesivo, ma anche sulla funzione retributiva rispetto alla condotta antisociale attuata dall’offensore.

Mentre il procedimento penale per l’affermazione della responsabilità  richiede la “prova sopra ogni ragionevole dubbio”, il giudizio civile si basa sulla dimostrazione di un’evidenza preponderante, ossia sulla documentazione di una maggiore probabilità che il comportamento del convenuto costituisca l’origine del danno.

Invece il carico probatorio richiesto dai punitive damages, pur basandosi sul riscontro di un’alta probabilità della responsabilità del convenuto, risulta intermedio rispetto a quelli appena descritti, poiché richiede un’evidenza chiara e convincente che l’accusato sia colpevole di oppressione, frode o malevolenza”.

L’applicazione del rimedio si è spesso verificata a danno delle compagnie assicurative, le quali con il loro comportamento fraudolento giustificavano l’applicazione del rimedio in base alla violazione di un impegno di buona fede  (covenant or implied duty of good faith), impliciti in ogni regolamento negoziale, ma particolarmente importanti nei rapporti caratterizzati da profonda disparità economica delle parti, con la conseguente necessità di verificare il c.d.  “bargaining power” posseduto dai contraenti al momento della conclusione del contratto”. 

 

5. La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183

A questo punto della disamina, si può tornare al caso concreto ed alla decisione assunta della Suprema Corte con la sentenza in commento.

Gli ermellini hanno confermato la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, che ha respinto l’istanza di delibazione della sentenza emessa dal Tribunale statunitense, sul presupposto della contrarietà dei danni punitivi all’ordine pubblico.

Dal ragionamento della Suprema Corte si evince che nel nostro ordinamento  la responsabilità civile è decisamente orientata a svolgere una funzione compensativa, ossia di riparazione della perdita subita dal danneggiato, e solo indirettamente una funzione preventiva o deterrente.

Pertanto, sono contrari all’ordine pubblico e sconosciuti al sistema romanistico  danni che, come sopra riferito, “mettono in atto una risposta punitiva verso il responsabile della  lesione di un diritto e vengono concessi sia in funzione satisfattoria dell’attore danneggiato, sia per prevenire il ripetersi di uno stesso comportamento in futuro”.

Nè, afferma la Corte, è possible desumere l’esistenza di istituti di natura sanzionatoria ed afflittiva dalla calusola penale o dal risarcimento del danno morale.

Infatti, la clausola penale ha la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare in via preventiva la prestazione risarcitoria, tant'è che se l'ammontare fissato venga a configurare, secondo l'apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o sconfinamento dell'autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta.

Quindi, se la somma prevista a titolo di penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno subito e da una rigida correlazione con la sua entità, è in ogni caso da escludere che la clausola penale possa essere ricondotta all'istituto dei punitive damages proprio del diritto nordamericano, istituto che non solo si collega, appunto per la sua funzione, alla condotta dell'autore dell'illecito e non al tipo di lesione del danneggiato, ma si caratterizza per una sproporzione tra l'importo liquidato e il danno effettivamente subito.

Quanto al danno morale, la Corte  afferma che in tale evenienza l'accento è posto sulla sfera del danneggiato e non del danneggiante: la finalità perseguita è soprattutto quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei punitive damages non c'è alcuna corrispondenza tra l'ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito.

Nel vigente ordinamento, continua la pronuncia, l'idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante.

 

Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perchè non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell'obbligato, ma occorre altresì la prova dell'esistenza della sofferenza determinata dall'illecito, mediante l'allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi "in re ipsa"

Le motivazioni della sentenza in commento sono pienamente condivisibili, de iure condito.

Peraltro, volendo guardare oltre, non può non porsi il problema di rivalutare i danni punitivi nell’ordinamento italiano.

Ciò non, ovviamente, rebus sic stantibus, bensì pro futuro ed in un’ottica di politica legislativa in itinere.

E’ chiaro che al questione attiene alla filosofia ed all’etica, prima che sic et simpliciter al diritto.

E’ sin troppo evidente che sino a quando mancherà nel nostro ordinamento una politica legislativa che tenda ad avere una funzione deterrente e punitiva nei confronti del responsabile dell’illecito, il cittadino-consumatore continuerà ad assistere inerme a forme indebite di prevaricazione in tutti gli aspetti della vita quotidiana, nei confronti del sistema sanitario, bancario, assicurativo, delle società di telecomunicazione, delle società fornitrici di energia elettrica, di gas, delle società automobilistiche, etc..

Senza dilungarsi oltre su aspetti che richiedono ampia, esaustiva ed autonoma trattazione, sia sufficiente riflettere sulle cronache quotidiane relative agli innumerevoli casi di malasanità, a difetti di componentistica del tal modello di autovettura, ai difetti di informazione sugli investimenti azionari ed obbligazionari, ai junk bonds, e così di seguito.

Sino a che la funzione del sistema risarcitorio non sarà mirata in ottica deterrente verso l’autore dell’illecito, i c.d. “contraenti forti” potranno commettere ogni tipologia di abuso nei confronti del cittadino, addirittura stimando aprioristicamente  ed in senso statistico e quantitativo la irrisoria percentuale di danno che saranno tenuti a corrispondere nel caso in cui siano “scoperti”.

 

 

 

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