Esecuzione delle pene detentive: brevi cenni sui profili applicativi-Art. 656 Codice di Procedura Penale

Avv. Antonio Di Tullio D'Elisiis

La norma di cui all’art. 656 c.p.p. indubbiamente rappresenta una sorta di “ponte di passaggio” dalla fase cognitiva (definita con sentenza passata in giudicato) alla fase esecutiva con cui - fermo restando i distinguo e le eccezioni del caso che verranno trattati successivamente (in ordine alla possibilità di poter accedere alle misure alternative alla detenzione) - si procede alla messa in esecuzione della pena.

E’ noto peraltro che la regola de qua conferisce al Pubblico Ministero il “potere/dovere” di emettere ordine di esecuzione nei confronti del condannato con sentenza passata in giudicato.

Dopo questa doverosa premessa è importante innanzitutto far presente la distinzione che la norma in esame compie, sotto il versante procedurale, a seconda se il condannato sia libero o detenuto.

Nel primo caso, infatti, ai sensi e per gli effetti del comma V della disposizione su emarginata, laddove “la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena non è superiore a tre anni o sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del (…) D.p.r. n. 309” il pubblico ministero, salvo che ricorrano le ipotesi contemplate ai commi 7 e 9, “ne sospende l’esecuzione”.

Inoltre, entro 30 giorni dalla notifica dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione, la difesa (o l’interessato direttamente) può presentare istanza, “corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessaria, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione”.

In tale ipotesi però è necessario, in forza del chiaro tenore letterale dell’art. 677, co. II bis, c.p.p., che il condannato non detenuto, a pena di inammissibilità, dichiari o elegga domicilio “con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione” nonché quello “di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto”.

Alla luce di tale dettato normativo, dunque, va da sé che una istanza redatta nell’interesse di un condannato pur corredata dalla dichiarazione di nomina, in assenza dell’elezione di domicilio, deve essere dichiarata inammissibile.

Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, al fine di evitare che, nell’ipotesi di condannato latitante o irreperibile, il difensore, pur ricorrendo i presupposti indicati dall’art. 656, co. V, c.p.p., non possa presentare apposita domanda di accesso a misure alternative, al fine di mitigare il rigore formalistico dell’art. 677, co. II bis, c.p.p., deroga a tale disposizione legislativa proprio laddove ricorrono queste due ipotesi.

Infatti, nell’arresto giurisprudenziale avvenuto il 17 dicembre 2009, (S.S.U.U., ud. 19.5.2010, dep. 17/12/2009, n. 18775) gli Ermellini risolvono un precedente contrasto giurisprudenziale attraverso l’affermazione del seguente principio di diritto: la “richiesta di misura alternativa proposta ai sensi dell'art. 656, comma 6, c.p.p. deve essere corredata, a pena di inammissibilità, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio del condannato prevista dall'art. 677, comma 2 bis, c.p.p.; tale obbligo non può essere assolto con modalità diverse da quelle previste; l'obbligo in questione sussiste pur quando l'istanza sia presentata dal difensore, a meno che il condannato risulti in atti irreperibile o latitante”.

Ulteriore problema che si pone nel caso in questione è quello di capire se, nel caso in cui l’istanza venga presentata dal difensore, sia sufficiente la sola nomina ovvero sia necessaria una apposita procura speciale.

Su questa vexata quaestio, si registrano due diversi indirizzi nomofilattici: il primo orientamento ermeneutico (ex multis: Cass. pen., sez. I, 25 marzo 2010, n. 11493 (ud. 20 gennaio 2010) Ric. Dattisi) sostiene che il “difensore può proporre richiesta di applicazione in favore dell'assistito di una ordinaria misura alternativa alla detenzione soltanto se munito di un mandato fiduciario "ad hoc", in quanto la disciplina derogatoria prevista dall'art. 656, comma quinto, c.p.p. - che prevede la notifica dell'ordine di esecuzione della pena detentiva e del decreto sospensivo al difensore nominato per la fase dell'esecuzione o, in difetto, a quello che aveva assistito il condannato nella fase del giudizio - è preordinata esclusivamente a consentire la proposizione delle domande di concessione delle misure alternative alla detenzione contemplate da tale norma”; il secondo filone interpretativo (tra le tante: Cass. pen., sez. I, 5 novembre 2009, n. 42461 (ud. 15 ottobre 2009), Imp. Paloka), viceversa, afferma che il “difensore, nel cui atto di nomina sia contenuto un riferimento all'ordine di esecuzione emesso nei confronti dell'assistito, è legittimato a proporre istanza di applicazione di misure alternative alla detenzione a seguito della sospensione dell'ordine medesimo”.

Ebbene, il secondo indirizzo interpretativo, a modesto avviso dello scrivente, è maggiormente condivisibile sia in ossequio al principio del c.d. “favor rei” sia in riferimento al principio della tassatività sancito dall’art. 122 c.p.p. (posto che un onere di tal tipo non sembra trapelare in alcun modo nella norma in commento).

Altro problema, inerente la posizione del condannato non detenuto, è quello di appurare se ad esso sia equiparabile anche chi, non essendo detenuto o sottoposto a provvedimento custodiale in carcere, si trovi: a) agli arresti domiciliari; b) in stato di detenzione domiciliare; c) in costanza di una precedente misura alternativa.

Per il primo caso, nulla quaestio in virtù del chiaro tenore letterale del comma X dell’art. 656 c.p.p. .

Per la seconda e per la terza ipotesi, invece, la possibilità di una sospensione dell’ordine di esecuzione trapela nitidamente dall’art. 51 bis della legge n. 354 del 1975 la quale stabilisce che quando “durante l'attuazione dell'affidamento in prova al servizio sociale o della detenzione domiciliare o della detenzione domiciliare speciale o del regime di semilibertà sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva, il direttore dell'istituto penitenziario o il direttore del centro di servizio sociale informa immediatamente il magistrato di sorveglianza. Se questi, tenuto conto del cumulo delle pene, rileva che permangono le condizioni di cui al comma 1 dell'articolo 47 o ai commi 1 e 1-bis dell'articolo 47-ter o ai commi 1 e 2 dell'articolo 47-quinquies o ai primi tre commi dell'articolo 50, dispone con decreto la prosecuzione provvisoria della misura in corso; in caso contrario dispone la sospensione della misura stessa. Il magistrato di sorveglianza trasmette quindi gli atti al tribunale di sorveglianza che deve decidere nel termine di venti giorni la prosecuzione o la cessazione della misura”.

Nel caso di detenzione domiciliare, inoltre, a favore dell’applicabilità del comma V dell’art. 656 c.p.p., milita una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (e, segnatamente: Cass. pen., sez. I, 3 maggio 2010, n. 16813 (ud. 23 aprile 2010) Ric. Longobardi) secondo la quale è “legittima la sospensione dell'esecuzione della pena a norma dell'art. 656 c.p.p. anche nei confronti di soggetto che si trovi, all'atto dell'emissione dell'ordine di carcerazione, in stato di detenzione domiciliare per altra condanna definitiva, in attesa dell'eventuale concessione di una misura alternativa alla detenzione”.

Ad ogni modo, oltre all’ipotesi in cui il soggetto sia detenuto o sottoposto a provvedimento custodiale in carcere, non è possibile chiedere misure alternative nelle ipotesi contemplate dall’art. 656, co. IX, lettere a) e c), c.p.p. [Cass. pen., sez. IV, 15 maggio 2007, n. 18362 (ud. 22 marzo 2007) Ric. Guarnieri: la “sospensione dell'ordine di esecuzione di una pena detentiva breve, prevista dall'articolo 656, comma quinto, cod. proc. pen., non opera nei confronti del condannato che al momento dell'esecuzione della pena detentiva breve si trovi già in espiazione di pena inflitta per altro titolo, oppure in stato di detenzione cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna da eseguire, essendo tale istituto volto, in sostanza, ad impedire l'ingresso in carcere di quanti possano aspirare ad uno dei regimi alternativi alla detenzione: esigenza, questa, insussistente nei riguardi di condannati che già si trovino ristretti in carcere, ancorché per titolo diverso da quello da eseguire”; in senso eguale Cass. pen., sez. V, 10 aprile 2006, n. 12620 (ud. 2 marzo 2006) Ric. P.M. in proc. Casula: la “sospensione dell'ordine di esecuzione delle pene detentive brevi, prevista dall'art. 656, comma quinto, c.p.p., non opera nei confronti del condannato che al momento dell'esecuzione della pena detentiva breve si trovi già in espiazione di altro titolo, oppure in stato di detenzione cautelare per il fatto oggetto della condanna da eseguire, considerato che non sussiste l'esigenza di assicurare il mantenimento dello a colui che si trovi già in carcere, ancorché per condanna diversa da quella oggetto della nuova esecuzione”.].

Tale disposizione legislativa, infatti, stabilisce che “la sospensione dell'esecuzione non può essere disposta”:

“a) nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, nonché di cui agli articoli 423 bis, 624, quando ricorrono due o più circostanze tra quelle indicate dall'articolo 625, 624 bis del codice penale (…) fatta eccezione per coloro che si trovano agli arresti domiciliari disposti ai sensi dell'articolo 89 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni;

c) nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto, del codice penale”.

Ciò posto, per quanto involge la prima ipotesi ostativa in riferimento ai delitti associativi menzionati nell’art. 4 bis O.P., dovrebbe reputarsi applicabile, anche in tale frangente procedurale, la teoria della c.d. “inesigibilità”.

Infatti, secondo quanto enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. I, ud. 16/05/2006 (dep. il 12/06/2006) nella sentenza n. 19924, ai “sensi dell'art. 656, comma nono, lett. a) c.p.p. la sospensione obbligatoria dell'esecuzione della pena non opera nei confronti di un soggetto condannato per reati previsti dall'art. 4 ord. pen., in relazione al quale ricorre una ipotesi di presunzione di pericolosità sociale, che può essere superata mediante la richiesta di ammissione ai benefici penitenziari fondata sulla dimostrazione della sussistenza di elementi che escludono la suddetta pericolosità, la cui valutazione, peraltro, è rimessa esclusivamente al Tribunale di sorveglianza e non al pubblico ministero”.

Per quanto riguarda la seconda condizione ostativa, il nodo gordiano da dirimere nel caso in oggetto è quello di stabilire:

1) se sia sufficiente la sola contestazione della recidiva ovvero se sia necessario che questa circostanza venga applicata;

2) se l’aggravante de qua possa rilevare ex art. 656, co. IX, lett. c), c.p.p., anche se le attenuanti generiche vengono riconosciute prevalenti.

Per quanto concerne il punto n. 1, si registrano due orientamenti ermeneutici contrapposti: il primo (tra le tante: Cass. pen., sez. V, 7 giugno 2010, n. 21603 (26 aprile 2010) Ric. Musci) afferma che il “divieto di sospendere l'esecuzione delle pene detentive brevi in caso di recidiva reiterata è subordinato non già alla qualità di "recidivo" del condannato, bensì alla circostanza che la recidiva di cui all'art. 99, comma quarto, c.p. sia stata "applicata", ossia effettivamente valutata in quanto circostanza aggravante soggettiva ed abbia perciò prodotto conseguenze concrete sulla pena irrogata” [in senso conforme Cass. pen., sez. IV, 24 luglio 2007, n. 29989 (ud. 26 giugno 2007) Ric. P.G. in proc. Muserra: “Il divieto di sospendere l'esecuzione delle pene detentive brevi in caso di recidiva reiterata è subordinato non già alla qualità di «recidivo» del condannato, bensì alla circostanza che la recidiva di cui all'art. 99, comma quarto, c.p. sia stata «applicata» cioè effettivamente valutata in quanto circostanza aggravante soggettiva ed abbia perciò prodotto conseguenze concrete sulla pena irrogata”]; il secondo (ex multis: Cass. pen., sez. I, 1 marzo 2010, n. 8113 (11 febbraio 2010) Ric. Pedrazza), invece, stabilisce che ai “fini dell'operatività del divieto di sospensione dell'esecuzione a norma dell'art. 656, comma nono, lett. c), c.p.p. nei confronti dei condannati a cui sia stata applicata la recidiva reiterata, è sufficiente che la recidiva sia stata contestata”.

Ebbene è da ritenersi assolutamente preferibile la prima opzione ermeneutica specie se si considera che gli ultimi pronunciamenti, emessi dalla Corte di Cassazione in subiecta materia, sono tutti favorevoli alla tesi della recidiva rilevante in quanto applicata e non semplicemente contestata.

Tra queste, corre l’obbligo di ricordare il recente arresto giurisprudenziale avvenuto nel 2010 [sentenza n. 35378 del 5/10/2010 (Ric. Calibè ed altro)] in cui le Sezioni Unite precisano che una “volta contestata la recidiva nel reato, anche reiterata, purché non ai sensi dell'art. 99, comma quinto, cod. pen., qualora essa sia stata esclusa dal giudice, non solo non ha luogo l'aggravamento della pena, ma non operano neanche gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, di cui all'art. 69, comma quarto, cod. pen., dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all'art. 81, comma quarto, stesso codice, dall'inibizione all'accesso al cosiddetto "patteggiamento allargato" e alla relativa riduzione premiale di cui all'art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen.; effetti che si determinano integralmente qualora, invece, la recidiva stessa non sia stata esclusa, per essere stata ritenuta sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità”.

Sulla stessa linea esegetica, peraltro, si schiera autorevole Dottrina [Dott.ssa Maria Monteleone – sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma – “LE MODIFICHE IN TEMA DI ESECUZIONE DELLA PENA CONTENUTE NELLA L. 5 DICEMBRE 2005, N. 251” (testo dell'intervento operato nel corso dell'incontro di studio tenutosi a Viterbo, presso l'Aula magna della Corte di assise, il 3 febbraio 2006, e curato dall'Ufficio dei referenti distrettuali per la formazione decentrata presso la Corte d'appello di Roma)] la quale afferma che “la modifica del comma 9 dell'art. 656 c.p.p. - che riguarda l'esecuzione delle pene detentive -, è stata esclusa la sospensione della esecuzione (già introdotta con l. n. 165 del 1998, meglio nota come Simeoni) relativamente alle pene da espiare, anche se inferiori a 3 anni di reclusione, nei confronti di tutti i condannati ai quali sia stata applicata la recidiva qualificata prevista dall'art. 99 comma 4. Dunque, il condannato riconosciuto recidivo - nei termini sopra precisati - non può proporre istanza di ammissione a misura alternativa a piede libero, anche se la pena da espiare sia inferiore a 3 anni; inoltre non potrà usufruire di misure alternative, se non limiti ridotti previsti dopo le indicate modifiche sostanziali alla legge penitenziaria”.

Per quanto riguarda la tematica prospettata nel punto n. 2 (ossia: la necessità di appurare se detto elemento accidentale possa esercitare questo effetto preclusivo anche laddove le attenuanti generiche vengano riconosciute prevalenti) una sentenza emessa in sede di legittimità depone a favore della sua irrilevanza.

Invero, nella decisione n. 27814 del 10/7/2006 (dep. il 3/08/2006), il Supremo Consesso, sez. I, afferma che “la recidiva deve ritenersi "applicata" quando si realizzi il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ovvero, in sede di giudizio di comparazione ex art. 69 c.p. (obbligatorio nella specie, v. Cass. sez. 6^, 15/10/2002, ric. Mazzei e Cass. Sez. Un. 31.05.1991, ric. Parisi), allorchè le circostanze attenuanti non siano state dichiarate prevalenti” [in senso conforme Cass. pen., sez. I, 17 ottobre 2006, n. 34680 (ud. 28 settembre 2006) Ric. P.M. in proc. De Glaudi: “In tema di sospensione dell'esecuzione della pena ai sensi dell'art. 656, comma nono, c.p.p., deve escludersi l'operatività della nuova disciplina restrittiva introdotta dall'art. 9 della legge 5 dicembre 2005 n. 251 in mancanza dell'espressa contestazione della recidiva reiterata nel giudizio di cognizione e del suo riconoscimento in tale sede ovvero quando la recidiva art. 99, comma quarto, c.p.p. non sia stata applicata perché, nel giudizio di comparazione, sono state dichiarate prevalenti le circostanze attenuanti”].

Infine, anche in caso di applicazione della recidiva, dovrebbe reputarsi concedibile almeno l’affidamento terapeutico.

Come difatti sostiene insigne letteratura scientifica [Dott. Pierluigi Cipolla, Magistrato, “LA L. N. 251 DEL 2005 C.D. EX CIRIELLI”], “il condannato cui sia stata riconosciuta la recidiva di cui all'art. 99 comma 4 c.p. non può richiedere l'ammissione della misura alternativa alla detenzione, anche se la pena da espiare sia inferiore a tre anni e a prescindere dalla natura del reato per cui è intervenuta condanna (art. 9 che modifica l'art. 656 comma 9 c.p.p.), a meno che il condannato sia tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero, la cui interruzione potrebbe pregiudicare la disintossicazione (modifica introdotta dall'art. 4 d.l. 30 dicembre 2005, n. 272- 4-undecies l. 21 febbraio 2006, n. 49). Il divieto riguarda anche i condannati per uno delitti di cui all'art. 4-bis della l. 26 luglio 1975, n. 354 e i condannati che si trovino in stato di custodia di cautelare per lo stesso titolo”.

Invece, per quanto involge la posizione del condannato detenuto, non sembrano esservi particolari problemi di ordine dogmatico-giuridico in virtù della preclusione sancita dall’art. 656, co. IX, lett. b), c.p.p.; al carcerato, infatti, non è concessa la possibilità di usufruire della sospensione della esecuzione della pena per poter proporre una istanza (nei termini precisati in precedenza);

in tal caso, difatti, in forza del comma II dell’art. 656 c.p.p., l’ordine di esecuzione “è comunicato al Ministro di grazia e giustizia e notificato all’interessato”.

A tal proposito, sembrerebbe opportuno una riforma di questa norma al fine di ridimensionare l’uso della recidiva reiterata e specifica la quale, da sola, non può essere considerata la “prova-provata” di una maggiore pericolosità sociale.

A sostegno di detto assunto, vale la pena di richiamare quanto sancito dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 183 del 2011 e, precisamente, nella parte in cui si contesta in sostanza la valutazione dell’excursus criminale di un soggetto nei termini di una “rigida presunzione di capacità a delinquere” senza invece tenere nel dovuto conto la “condotta susseguente, con la quale la recidiva reiterata non ha alcun necessario collegamento” la quale, a sua volta, potrebbe rappresentare invece una sostanziale e radicale “discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali”.

Del resto, come giustamente evidenziato dal Preg.mo Giudice, Dott. G. Diotallevi, Consigliere presso la Suprema Corte di Cassazione, [nell’intervento da lui compiuto nel Forum della Giustizia sul tema “Una giustizia efficiente per il cittadino” (tenutosi a Roma, il 9 giugno 2011, presso la Camera dei Deputati) dal titolo “Qualità nella legislazione e qualità nell’organizzazione per una qualità della giurisdizione”], la legge su indicata nell’introdurre “limiti alla concessione delle misure premiali ai recidivi reiterati” (si pensi ad esempio: alle limitazioni previste dall’art. 58, co. VII bis, O.P.) non tiene nella necessaria considerazione il fatto che questa “categoria ricomprende in sé anche reati per fatti di scarso allarme sociale e magari per fatti distanti decenni nel tempo”.

Ebbene, in punto de iure condendo, procedere ad una modifica di questa normativa che renda l’applicazione della recidiva, in tutte le sue forme, più aderente al caso concreto, potrebbe rappresentare un significativo riavvicinamento del modello sanzionatorio nazionale alla funzione della pena così come essa è stata enunciata nella nostra Legge Fondamentale.